Quando nell’estate del 2010 avevo visitato la miniera a cielo aperto di Uyanga, nella provincia mongola di Ovorkhangaj, mi ero trovato di fronte una comunità umana complessa, stratificata, diversa da quanto avevo letto fino a quel momento. I “ninja”, i cercatori d’oro abusivi, non erano riconducibili allo stereotipo dei poveri e dei disagiati.
Davanti ai me vedevo soprattutto padroncini, liberi battitori e sottoproletari, gente che possedeva mezzi di produzione – capitali e macchine – e gente che aveva solo la forza delle proprie braccia; individui che si organizzavano in squadre di lavoro basate su legami familiari e altri invece isolati, con il loro catino in spalla che li faceva sembrare le tartarughe da cui prendevano il nome. Vedevo esseri umani. La loro irriducibile volontà di migliorare la propria condizione, la capacità di adattamento.
Uyanga era la rappresentazione perfetta del mercato come “migliore allocatore di risorse”. I ninja calavano dall’intera Mongolia perché si era diffusa la voce che lì c’era l’oro. Facevano i buchi, rivoltavano la terra, la penetravano con il mercurio per separare l’oro dalle rocce, risucchiavano le risorse d’acqua; erano in concorrenza per 24 ore al giorno, qualcuno ce la faceva, qualcun altro no; poi andavano a scavare un po’ più in là, lasciandosi dietro fango avvelenato.
Proprio mentre visitavo Uyanga, nel luglio del 2010, il parlamento mongolo approvava alcuni emendamenti alle leggi che regolano l’utilizzo delle risorse minerarie e del suolo, riconoscendo le attività minerarie “artigianali” e “di piccola scala”. Di fatto si dava visibilità e status legale ai cercatori d’oro ninja purché si unissero in “partnership” e s’impegnassero nella ricostituzione del suolo dopo aver svolto l’attività mineraria.
Oggi sono tornato a vedere i ninja. Non a Uyanga, ma più a nordest, nella contea di Mandal, che fa parte della provincia di Selenge. Qui, grazie a un progetto promosso dalla direzione svizzera per lo sviluppo e la cooperazione, li ho visti trasformati: non sono più tartarughe con il catino in spalla, bensì “minatori artigianali” oppure “minatori di piccola scala”, così come li chiamano oggi.
Sembrano i dipendenti di una grande azienda e invece sono lavoratori autonomi autorganizzati
Si sono organizzati. Forse bastava l’input giusto. La cooperazione svizzera ha fornito risorse economiche e un modello di organizzazione: un gruppo di ex ninja crea una partnership; diverse partnership confluiscono in una ong, che li rappresenta presso le autorità e anche nei conflitti con le grandi compagnie minerarie.
Loro, i diretti interessati, ci mettono i contenuti in base alle esigenze. Sono circa 60mila quelli che oggi partecipano al progetto di “estrazione mineraria artigianale sostenibile” (sustainable artisanal mining).
La miniera di Mandal è diversa da quelle che ricordavo. Non è a cielo aperto, ci si arriva percorrendo un cunicolo nella montagna e sono state adottate tutte le misure di sicurezza. Il tunnel è stato rinforzato, i cercatori d’oro indossano tute mimetiche e il casco. Sembrano i dipendenti di una grande azienda e invece sono lavoratori autonomi autorganizzati. La leader è una donna, Tuya, una solida ex ninja.
La sua partnership si compone di tre squadre da cinque uomini che si alternano in tre turni da tre giorni ciascuno. L’oro che trovano lo dividono all’interno della squadra. Partecipano alle spese comuni per l’attrezzatura e hanno perfino creato un fondo con cui hanno cominciato a diversificare le attività. Ora producono anche mattoni per le costruzioni. Ma il denaro serve anche per sostenere le famiglie povere della contea: “Così ci facciamo accettare più facilmente”, mi dice Tuya.
Risoluzione dei conflitti
Otto anni fa, nel capoluogo di contea, un poliziotto mi sconsigliò di mettere piede nella miniera di Uyanga: “Quella è brutta gente”. In realtà ninja e pastori nomadi si sono sempre guardati in cagnesco. I cercatori d’oro abusivi distruggono l’ambiente che è vitale per gli allevatori. E poi, fanno quei buchi in cui cadono le pecore, oppure qualche cavallo si spezza le gambe.
Adesso mi mostrano come rimuovono il terreno per scavare. Mettono le zolle da parte, senza distruggere la vegetazione e la componente organica, continuano a coltivarle durante le attività minerarie. E poi rimettono tutto al suo posto, come un tappo biologico.
Mi danno anche un opuscolo della cooperazione svizzera sulla risoluzione dei conflitti: insegna come gestire un incontro senza azzannarsi, punto per punto, e nei disegni illustrativi è chiaro che da una parte c’è il minatore e dall’altra il pastore nomade.
Narmandakh ha 29 anni e fa il cercatore d’oro da cinque. È il responsabile della sicurezza nel suo turno. Non è né un allevatore impoverito perché il gelo ha sterminato i suoi animali, né figlio di ninja. È di Ulan Bator, la capitale, e ha studiato all’università arte e cultura: “Quando ho finito non c’era lavoro, così ho cominciato a fare il cercatore d’oro andando dove si scopriva un nuovo filone. Poi ho incontrato una ragazza di questa zona, della soum (distretto) di Mandal, è per lei che sono finito qui. Mi sono unito alla partnership e devo dire che mi piace fare il cercatore d’oro. Qui lavoriamo in sicurezza e ho una vita tranquilla, mentre a Ulan Bator subisco lo stress della città e della disoccupazione. Ho il mio reddito sicuro, qui”.
Mi fa vedere sullo smartphone una foto della casa che ha costruito con le sue mani e con i soldi guadagnati come minatore artigianale. “Tiro su in media un milione e mezzo di tugrik al mese (circa 500 euro), non divento ricco ma è più o meno quanto prende un impiegato in città”. Dice che grazie alla partnership, al fatto che lui e i suoi compagni sono diventati visibili e regolari, non deve più nascondersi dalla polizia.
Il cunicolo è illuminato e aerato, una carrucola a motore porta su un carrello pieno di rocce. “Quelle con la venatura bianca potrebbero contenere oro”, mi dicono.
Un’organizzazione dal basso
Tra le responsabilità di Tuya c’è la sicurezza in miniera. Inoltre, bisogna assicurarsi che non circoli alcol, norma riportata anche in un altro opuscolo sulle buone pratiche del progetto di attività minerarie artigianali. Apprendo che la ong che riunisce le sei partnership della contea di Bayan-Ovoo, nella provincia di Bayankhongor, è riuscita – non si capisce bene come – a vietare la vendita di alcolici negli spacci della sua zona. Ma al divieto si è accompagnata “la costruzione di un campo da basket per assicurarsi che il tempo libero dei membri sia ben speso”: mens sana in corpore sano.
Torno di nuovo a un ricordo di otto anni fa: un ninja ubriaco che insiste perché mi cali in un buco profondo quaranta metri e largo poco più delle mie spalle assicurandomi che tanto c’è lui alla carrucola.
Ho davanti una forma di organizzazione dal basso nata davvero dal bisogno immediato. Sembra di leggere la storia dei nostri trisavoli, è come prendere la macchina del tempo e catapultarsi nelle società operaie dell’ottocento, da cui poi nacquero i sindacati. Ma la storia non si ripete mai uguale a se stessa e questa non è l’Europa di due secoli fa, bensì la Mongolia degli anni duemila, già totalmente immersa nei processi di globalizzazione e al tempo stesso con un piede nella civiltà nomade. Quindi, queste “società operaie” a cavallo tra storia e futuro, che cosa creeranno? Cosa ne nascerà? Possono dire qualcosa anche a noi? La Mongolia è un laboratorio che ogni tanto è utile osservare.
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