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La mia quarantena nel sistema cinese per azzerare i contagi

Un impianto per il salto con gli sci a Zhangjiakou, nella provincia cinese di Hebei, 7 ottobre 2021. (Zhang Qiao, Vcg/Getty Images)

Al sesto giorno di quarantena in una stanza d’albergo a Tianjin, dove mi hanno portato direttamente dall’aeroporto, arriva la telefonata del sostegno psicologico: “Dormi bene? Mangi?”, chiede una donna in tono gentile e premuroso. Rispondo che dormo e faccio tanti sogni. “Bene, significa che sei felice”. Tornato in Cina dall’Italia dopo più di un anno, devo passare attraverso la “quarantena centralizzata”, come la chiamano qui: due settimane in una stanza d’albergo per chi sbarca nel paese, tre per chi è diretto a Pechino, che in quanto capitale va salvaguardata più di altre città. Il sospetto è che questi “alberghi della quarantena” prima languissero senza clienti e ora sono invece una delle più gioiose manifestazioni del corona-business. Perché ovviamente l’intera trafila è a spese nostre, visto che siamo noi a voler tornare in Cina a ogni costo.

A sovrintendere il tutto è come sempre la mobilitazione di massa, cioè le decine di addetti in tuta bianca, mascherina, occhiali, mani e piedi cellofanati, di cui non si distingue neppure il sesso finché non parlano. Ci prendono all’aeroporto, ci spostano, ci rinchiudono, ci nutrono, ci esaminano, per tre settimane. Diligenti, premurosi, quasi affettuosi, come chi gestisce la chat di Weixin (WeChat) dove tutti gli ospiti dell’hotel possono pubblicare lamentele e richieste e attraverso cui riceviamo direttive e comunicazioni di vario genere.

In un’intervista pubblicata il 4 marzo 2020, Bruce Aylward, responsabile del team dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che aveva appena visitato Wuhan, dichiarava al New York Times: “La Cina è molto brava a mantenere le persone vive”. Concordo, ci tengono vivi, anche psicologicamente, e lo fanno bene.

La grande bolla
Così è la vita nel xinguan yiqing bihuan guanli, “gestione a circuito chiuso del covid-19”, il dispositivo messo in piedi in Cina per azzerare i contagi. Ogni volta che spunta un nuovo focolaio (spesso si tratta solo di una manciata di casi positivi), si isola la zona a rischio, si fa il tampone a tutti i residenti, si cerca di evitare gli assembramenti, si vieta l’ingresso ai corrieri e così via. Ogni luogo applica regole diverse, in base alle circostanze, ma la sostanza non cambia: si costruisce un mondo parallelo. Mentre in occidente si è scelto di convivere con il virus, in Cina si tende all’azzeramento dei contagi. Sembra che la maggioranza della popolazione preferisca così, prediligendo la sicurezza personale dentro la grande bolla rispetto alla libertà senza limiti, anche quella di infettare e infettarsi. Sarà vero o solo propaganda? Probabilmente è vero, tanto più che, tolte le zone dove si verifica un focolaio, in Cina si vive e si circola normalmente.

Il modello “circuito chiuso” è esteso automaticamente anche a chi viene da fuori, che di questi tempi è per definizione “a rischio”. Del resto, cosa si può ribattere a chi ti fa notare che in Italia ci sono ancora più di duemila casi e quaranta morti al giorno e in Cina invece rispettivamente diciannove e zero (dati del 13 ottobre)? Dopo la comparsa della variante delta, sui social network c’era chi chiedeva che l’isolamento preventivo degli “alieni” fosse ancora più drastico.

Quando prevarranno altre valutazioni, politiche o economiche, allora come d’incanto il paese riaprirà

Nella provincia del Guangdong hanno costruito un nuovo centro per la quarantena da cinquemila stanze, ognuna dotata di un termometro che funziona con l’intelligenza artificiale e di una videochat per consentire il dialogo continuo tra reclusi e sorveglianti. I contatti umani saranno ridotti al minimo – solo medici e paramedici che faranno turni di 28 giorni e tre settimane di isolamento prima di poter uscire – perché la consegna dei pasti e di tutto il resto sarà robotizzata. Secondo qualcuno significa che Pechino continuerà con la sua politica dei contagi zero e del ferreo distanziamento sociale per chi arriva da fuori per almeno uno o due anni ancora.

Personalmente, credo invece che quando prevarranno altre valutazioni non necessariamente sanitarie, ma anche politiche o economiche, allora come d’incanto il paese riaprirà. Il contagio zero lascerà il posto ad altre priorità e il futuribile panopticon anticontagio troverà usi alternativi, o sarà semplicemente abbandonato come tante cattedrali nel deserto di cui la Cina è costellata. Al momento, sembra però che siano in costruzione altri diciotto centri simili a quelli del Guangdong.

Vaccini meno efficaci
La mia sensazione è che la Cina applichi la tolleranza zero verso il virus attraverso la mobilitazione di massa e la “guerra del popolo” contro il covid-19 perché si conosce fin troppo bene e non si fida di se stessa. I vaccini made in China non sono efficaci come quelli occidentali – l’hanno ammesso anche gli esperti cinesi – e quindi, oltre a vaccinare il più possibile, bisogna creare “circuiti chiusi” quando scatta l’allarme.

Si parla della possibilità che nelle prossime settimane parta la produzione di un vaccino a mRna. I dubbi sono leciti, perché come al solito i mezzi d’informazione di stato lo definiscono “migliore di quelli occidentali” riportando le parole di “esperti” non meglio definiti, mentre si indica uno stabilimento nello Yunnan in grado di produrre duecento milioni di dosi all’anno. I conti non tornano: significa cento milioni di vaccinati? Ci vorranno 14 anni per vaccinare tutti i cinesi? La Cina impara in fretta e produce anche più velocemente, ma non credo che questa notizia sia sufficiente a ridurre lo stato d’allarme, almeno per ora.

Di recente il massimo epidemiologo cinese, Zhong Nanshan, ha dichiarato che sono necessarie due condizioni perché il paese riapra i confini senza troppi percorsi a ostacoli: la prima è che raggiunga un tasso di vaccinati dell’80-85 per cento, e lì più o meno ci siamo; la seconda è che l’incidenza del virus negli altri paesi si abbassi, e lì invece non ci siamo ancora. Però, si è lasciato scappare Zhong, “la Cina non può andare avanti così per molto”. Finirà per ammettere che con il virus bisogna in qualche modo convivere?

Nel frattempo, il 29 settembre il Comitato olimpico internazionale ha approvato i protocolli sanitari decisi da Pechino in vista delle Olimpiadi invernali programmate per febbraio. Solo i residenti in Cina potranno assistere alle gare. Si vocifera di periodi di quarantena prima e/o dopo, ma i dettagli non si conoscono ancora. Quanto agli atleti, i non vaccinati dovranno trascorrere 21 giorni in isolamento prima di accedere agli impianti e al villaggio olimpico: come faranno ad allenarsi? È chiaro che nelle Olimpiadi di Xi Jinping non c’è spazio per i no vax.

Per i vaccinati – e la novità apprezzabile è che saranno riconosciuti anche i vaccini non cinesi – scatta il circuito chiuso: atleti, accompagnatori ufficiali, giornalisti, lavoratori addetti alla kermesse olimpica vivranno in una sorta di bolla dall’arrivo in Cina alla partenza. Mangeranno, dormiranno, gareggeranno in un mondo parallelo e ci sarà un sistema di trasporti dedicato che li preleverà dai loro alloggi per portarli nelle tre località olimpiche: Pechino città, il distretto di Yanqing e Zhangjiakou, nella provincia dello Hebei, quella che circonda la capitale. Tutti, all’interno della bolla olimpica, saranno sottoposti a test quotidiani.

Di mondi paralleli in Cina avevamo già scritto tempo fa, citando il racconto distopico Pechino pieghevole di Hao Jingfiang e temendo di avere esagerato un po’ con le similitudini. Oggi sembrano molto reali. Quasi la normalità.

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