Madya si appoggia al bancone tappezzato di adesivi e comincia a scorrere il dito sul cellulare, con tranquillità professionale. “Aspettiamo”, dice, “ho appena dato il numero”. Sulla parete di fianco, una gigantografia della moschea della Mecca promette “viaggi organizzati e accessibili” per Hajj et Umra, pellegrinaggi nei luoghi santi dell’islam, dovere di ogni fedele. I clienti di questo giovane trafficante di uomini, diventato in poco tempo un punto di riferimento per i migranti africani che vogliono arrivare in Italia, fanno un viaggio diverso che ha però, per molti versi, contorni altrettanto sacri.
L’uomo, un ex muratore gambiano, conta più volte annoiato le banconote ricevute, prima di metterle in tasca. Lo schermo del telefono si accende convulsamente: “È la madre, vuole sapere se ho ricevuto i soldi, quanto costa arrivare fino a lì, quanto più avanti, e come sta il ragazzo… Ma io dico che l’importante è pagare. Se paghi viaggi, di tutto il resto non m’interessa”.
Mads, come lo chiamano nel foyer, nasconde i pensieri dietro un paio di occhiali a specchio con la montatura verde acceso. Uscito da Al Izza, agenzia viaggi e money transfer “con 13 uffici a Niamey”, zigzaga tra venditori di strada, bambini scalzi e motorini scrostati. “Devo trovare un posto più grande, perché qui ormai non ci stiamo più, i clienti crescono sempre di più”, spiega preoccupato. Il foyer, o “ghetto” come lo chiamano in inglese, è una baracca in lamiera, appoggiata sulla striscia di sabbia e terra che costeggia boulevard Mali Bero, arteria vitale del traffico della capitale del Niger. Ogni notte ci dormono fino a trenta persone e Mads gestisce tutto: orari da caserma, turni per procurarsi acqua, legna per cucinare, la benzina per l’unica lampada a olio. Arrivi e partenze.
Dopo Agadez, è solo deserto e – per chi ce la fa – detenzione, violenze e il sale del Mediterraneo
Per i gambiani è la backway, la strada sul retro. Un’avventura, una linea d’ombra, una speranza per giovani in cerca di futuro e famiglie allo stremo. Ma anche una rete invisibile di connection men che collega i villaggi dell’Africa occidentale alla Libia, con il miraggio dell’Italia e dell’Europa. E Niamey è uno snodo centrale. Qui la ragnatela di linee di bus che attraversa la regione si assottiglia in un’unica striscia d’asfalto, che punta verso Agadez, mille chilometri a nordest. I cittadini dei quindici paesi della Comunità economica dell’Africa occidentale, area di libera circolazione di merci e persone, possono arrivarci senza bisogno di visto. Dopo Agadez, è solo deserto e – per chi ce la fa – detenzione, violenze e il sale del Mediterraneo.
“Le parole da imparare”, sostiene Mads con ironia, “sono luntanwol nata, che in mandinka vuol dire ‘nuovi arrivati’”. E nuove persone arrivano ogni sera, appena il sole dà un attimo di tregua. Seduto su una sedia sfondata, di fronte alla baracca, Mads tiene d’occhio la strada. “Madya, Madya”, urla un tassista rallentando dietro a un carretto con un mulo. Quattro nuovi clienti scendono, mentre il manager del foyer paga la corsa. “Fino a tremila franchi Cfa pago io, oltre devono arrangiarsi”. Mads riscatta i clienti dal tassista in quello che, a scorgerne la filiera, appare come un continuo sequestro di persona, in cui volontà e costrizione si fondono in un unico groviglio. E in cui trafficanti, facilitatori e mudiru (una storpiatura dell’arabo per “direttore, gestore”, come si fa chiamare anche Mads) sono investiti di un potere quasi mistico.
Un estratto del documentario Wallahi, je te jure
Dal punto di vista commerciale, il foyer di Mads, uno dei tanti di Niamey, è l’estensione di un’agenzia viaggi in continua evoluzione, i cui clienti si trasformano in agenti, e viceversa. “Anche io ero in viaggio, e sono rimasto ad Al Gatrun, in Libia, per tre mesi”, spiega Mads, “finché il boss non mi ha detto di tornare indietro fino ad Agadez, dove c’è l’attività principale”. A spingere per l’apertura della “filiale” di Niamey è stata la situazione sempre più difficile nel nord del Burkina Faso: la cacciata del dittatore Compaoré, alla fine del 2014, e la dissoluzione della sua discussa guardia presidenziale hanno aperto la strada a quel mix esplosivo di economie criminali, povertà e corruzione tipico degli immensi confini del Sahel.
Chi viaggia è una miniera d’oro, e non è raro arrivare alle porte del Niger senza soldi, nemmeno qualche franco per il taxi collettivo. “C’era bisogno di un posto per ospitare i possibili clienti fino a quando qualcuno non gli spedisce i soldi, e così mi hanno mandato qui”. La posizione è scelta con cura, a poca distanza dai terminali di autobus delle stazioni Sonef, Stm e Rimbo, e il flusso di persone e soldi è continuo.
Il 33 per cento dei 71mila viaggiatori arrivati in Italia attraverso il mare nei primi sei mesi del 2016 è, con molta probabilità, passato per queste strade. I gambiani sono il terzo gruppo più numeroso, 5.600 persone, preceduti dagli eritrei – che viaggiano attraverso Sudan, Libia ed Egitto – e dai nigeriani. Percorrendo le rotte a ritroso, la missione in Niger dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), che ha un punto di monitoraggio a Séguedine, antica tappa carovaniera sulle piste per la Libia, nel nordest del paese a metà strada tra Dirkou e Madama, ha contato 191mila persone in transito fra febbraio e giugno del 2016, 147mila delle quali dirette dal Niger alla Libia. Nella composizione di queste folle il Gambia è sempre al terzo posto, questa volta dopo Niger e Nigeria.
Anche quando è di natura economica, la migrazione sembra sempre avere una radice politica
Il Niger, grazie a questa sua funzione di terra di transito per la Libia, è diventato sempre più importante per la cosiddetta “dimensione esterna” delle politiche dell’Unione europea. Fra le diverse misure adottate, nell’aprile 2015 la Commissione europea ha ampliato il mandato della missione Eucap Sahel Niger, creata nel 2012 per prevenire terrorismo e criminalità transnazionale, concentrando buona parte delle risorse – 18 milioni di euro nell’anno in corso – per contrastare l’immigrazione irregolare. Nel dettaglio i fondi devono servire per la formazione e la supervisione di forze di sicurezza e personale giudiziario, per la fornitura di mezzi e tecnologie per il controllo dei confini e, soprattutto, per l’apertura di una nuova “antenna” ad Agadez. Un braccio operativo della sede di Niamey, da inaugurare ufficialmente entro la fine dell’anno.
A poca distanza dal compound della missione di Bruxelles nella capitale, bus e taxi continuano a gettare sull’asfalto bollente giovani di tutta l’Africa occidentale, spesso poco più che bambini. Fra gli ultimi arrivati, Ebrima avanza zoppicando verso il foyer. A meno di metà della backway, è già esausto. “La polizia del Burkina mi ha ricacciato due volte in Mali”, racconta, “e quando finalmente stavo per entrare in Niger, mi hanno venduto a una gang che mi ha picchiato per settimane e ha chiesto un riscatto alla mia famiglia”. Alloggiato da Mads, deve aspettare che i genitori vendano “una capra, o un mobile” per consegnare i soldi pattuiti al mudiru e ricevere in cambio un biglietto di bus e il nome del connection man di Agadez.
Secondo i numeri dell’Ue, il novanta per cento di chi passa dal Niger è spinto da “ragioni economiche”. Ma i boys che affollano la baracca di Mads suggeriscono un’altra verità. “Guarda il Gambia”, dice grave Bakary, 21 anni. “Dietro l’economia c’è il presidente, lui e i suoi uomini controllano il paese. Se vuole far crescere i prezzi, lo fa da un giorno all’altro, se vuole requisire il tuo terreno, la tua casa, gli basta un’ora”. All’obiezione che se tutti i giovani partono non rimane nessuno che possa cambiare le cose, il volto da bambino di Touray si fa serio. “Mettiamo che io e un’altra persona vogliamo cambiare qualcosa, ma abbiamo idee diverse… Ecco, se l’altro è un dittatore, io devo andarmene”. Anche quando è di natura economica, la migrazione sembra sempre avere una radice politica, tanto che lo stesso Mads, scherzando sulla maglietta che indossa, di un giallo sgargiante, dice: “È la mia preferita perché il giallo è il colore del partito d’opposizione: se il presidente dice che i gambiani non devono muoversi, io sono con chi viaggia, dunque faccio opposizione”.
Tutti, qui, sanno cosa li attende. Qualcuno, come il diciottenne Alhagie, è già stato in Libia – “la polizia mi ha bloccato per tre volte in mare” – mentre altri hanno perso amici e parenti. Lo sguardo furbo sotto il cappellino da rapper, Alhagie è tornato da Tripoli per diventare l’assistente di Mads che, spiega, “sta tirando su il ragazzo, perché fra non molto partirò anche io per l’Italia, e qualcuno deve imparare il lavoro”. Ad accomunare il capo del foyer e il suo “tirocinante”, e anche molti altri connection men della rotta saheliana, è la sconfitta. Arenati in Libia, hanno scambiato lo spirito d’avventura con il sogno dell’Europa, bloccandosi in luoghi senza tempo pur di raggranellare qualche soldo per andare avanti.
Le politiche degli stati europei, per il momento, sembrano servire a poco, che siano di controllo, come la missione Eucap Sahel Niger, o gli accordi di polizia fra Italia e regime gambiano, o di sviluppo locale, come gli interventi del Fondo fiduciario per l’Africa, di cui il Niger sarà uno dei principali beneficiari. “Saremo martiri o saremo le braccia di cui la vostra economia ha bisogno”, dice Touray ispirato. Ebrima racconta un sogno: “Studiare per fare il giornalista, ed è per questo che dopo il diploma superiore mi sono messo in viaggio”. Una meta da conquistare passo dopo passo, in una libertà sempre provvisoria. Trentamila franchi Cfa (circa 45 euro) da Niamey ad Agadez, 150mila (circa 230 euro) o più da Agadez alla Libia.
Vite ai margini, rapimenti, torture. Nuove persone arrivano, e altre partono. “Li mando con la compagnia di taxi Stm, perché gli autisti della Rimbo hanno accordi con la polizia, per riscuotere mazzette nel viaggio”, sostiene Mads, comparsa di una storia che lo ha già sorpassato, mentre consegna a Ebrima il biglietto del bus. La notte successiva, lascerà Niamey.
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