Al boato seguono le fiamme. Poi la colonna di denso fumo nero, sopra la baracca incendiata. “Era una bombola di propano”, esclama Ibrahim, con il volto torvo di chi ha perso tutto, ” quella era casa mia”. Ventidue anni trascorsi a Kutum, in Darfur, Ibrahim è tra gli ultimi abitanti della “giungla” di Calais. Il più grande accampamento informale di migranti in Europa non esiste più. Ma lui si aggira ancora tra carboni fumanti, vestiti bruciati, resti di cibo abbandonati ovunque. Cerca qualcosa da salvare e da portar via.
“Me ne vado”, dice mentre alle sue spalle le ruspe continuano a distruggere, piantonate dalle divise blu della Crs (Compagnie républicaine de sécurité), la polizia. “Ma non prenderò l’autobus per essere ricollocato. Non voglio restare in Francia. Se sono arrivato fino a qui dal Sudan, è perché volevo arrivare nel Regno Unito. Ci riuscirò”. Gli irriducibili come Ibrahim sono ormai fuorilegge. D’ora in poi, chiunque rimarrà all’interno del campo, potrà essere arrestato. È già toccato a tre attivisti No border e a una ventina di migranti sudanesi e afgani, sorpresi il 25 ottobre a dormire nella scuola Des Dunes, una delle baracche sfuggite alle fiamme.
“Le operazioni di sgombero della cosiddetta giungla sono terminate”, diceva il 25 ottobre Fabienne Buccio, il prefetto del Nord-Pas-de-Calais. Sono bastati quattro giorni per demolire quello che era diventato un villaggio, arrivato a ospitare quasi undicimila persone, solo poche settimane fa. Quattro giorni di file con la valigia in mano, braccialetti ai polsi, pullman diretti verso i centri d’accoglienza, gas lacrimogeni, ruspe e incendi.
Pronti per essere trasferiti
Tutto comincia all’alba del 24 ottobre. Dopo l’ennesima notte di guerriglia tra migranti e Crs. Alle 6 del mattino si snoda, al di là delle dune, un lungo serpentone umano. Sono i migranti che hanno accettato l’invito del governo. Saranno trasferiti, su base volontaria, verso i centri d’accoglienza. “Ho deciso”, dice Okot, con il volto di chi deve ancora cominciare a radersi, “resterò qui in Francia. Ma non so ancora dove mi porteranno”. Okot viene da Port Sudan e ha 18 anni. Si stringe nella giacca a vento blu. Trascina un trolley e indossa una coperta sulle spalle per ripararsi dal freddo. È ancora buio e la colonnina del mercurio è prossima allo zero a Calais.
Sulla rue des Garennes, il lungo stradone che conduce al centro della cittadina portuale, sono già pronte una trentina di unità mobili della gendarmeria militare e della polizia antisommossa. Gli agenti impiegati sono circa 1.250. Su un lato della strada è stato allestito un capiente hangar. Quasi tremila metri quadrati con tende attrezzate a uffici. “Qui smistiamo le persone”, spiega uno degli operatori, “saranno trasferite nei centri d’accoglienza (Cao), in base alle destinazioni scelte”.
Circa 7.500 i posti messi a disposizione dal governo francese nelle ultime settimane, all’interno di 287 Cao sparsi in undici regioni, su tutto il territorio nazionale. I più controversi portano i nomi di Allex, Saint Denis de Cabanne, Pierrefeu e San Brevin. Qui si sono levate le maggiori proteste contro l’arrivo dei migranti per l’emergenza Calais. “Non ci vogliono da nessuna parte”, dice ancora Okot, “ma ormai ci siamo abituati. Certo, se ho una possibilità di ottenere una protezione in Francia, sono contento di restarci”.
Rahim, appena uscito, mostra il braccialetto azzurro legato al polso. Significa che sarà condotto in un centro d’accoglienza della Bretagna, la regione nordoccidentale affacciata sulla Manica. “Mi hanno detto che è una buona scelta”, racconta, in attesa del pullman che lo porterà via, “io non ne sono convinto. Sulla mappa che mi hanno mostrato, il posto dove andrò io non è affatto vicino a Parigi. Almeno però, potrò farmi una doccia”.
Rahim ha 21 anni e viene da Kandahar, in Afghanistan. È partito a gennaio, attraversando l’Iran, la Turchia, la Grecia e mezza Europa dell’est, per giungere a Calais. “Volevo andare in Inghilterra”, spiega, “dove vivono alcuni miei amici. Ma sono stanco. Meglio restare qui, in Francia”.
Calais in fiamme
I primi pullman escono dal cortile dello stabile. Alla fine dell’operazione, nella serata del 27 ottobre, saranno circa 120, per un totale di quasi seimila persone trasferite. Ma quelli che mancano all’appello sono molti. “A noi risulta che tra i tre e i quattromila migranti abbiano abbandonato l’accampamento rifiutando di essere portati via con gli autobus”, rivela François Guennoc, segretario dell’Auberge des migrants, una delle associazioni che censivano la popolazione nel campo. “Il governo non ne ha fatto alcuna menzione. Ma resta una grande incognita su di loro”, afferma Guennoc.
L’esodo di chi non accetta il braccialetto è già cominciato. “C’è chi sta andando a Parigi, qualcuno va in Belgio”, testimonia in un italiano perfetto Awate Mebrathu, che nel campo faceva il barbiere, il suo mestiere ad Asmara.
“C’è anche chi si sta spostando in altri accampamenti improvvisati qui attorno”. Lo spauracchio, per molti di quelli che hanno registrato le impronte digitali in Italia, è proprio quello di essere riportati al di là delle Alpi, in base al regolamento di Dublino. Anche se la sensazione è che il regolamento possa venir congelato in questo caso.
C’è chi parla di militanti di estrema destra infiltrati nel campo, per appiccare il fuoco
“Ho lasciato le impronte a Reggio Calabria”, sorride Awate, sbarcato dalla Libia lo scorso marzo. A San Severo, nel foggiano, è vissuto qualche mese, cercando un lavoro che non è mai arrivato. “L’Italia è bella, ma non possiamo viverci”, dice, “e io non posso correre il rischio di tornarci”. Alle sue spalle, le prime ruspe cominciano a smantellare tende e baracche. È il 24 ottobre e all’interno dell’accampamento, l’atmosfera è surreale. Al clima di smobilitazione fa da contraltare il gran numero di persone che ancora affollano le strade. Tutto cambierà in poche ore. Dopo la prima scintilla.
Lo racconta Ibrahim che, nel frattempo, ha abbandonato il campo. “I roghi sono scoppiati all’improvviso nella notte del 26 ottobre”, testimonia in un buon italiano, retaggio dei tre anni trascorsi tra Crotone e Reggio Calabria, dopo essere sbarcato in Italia.
“Le baracche sono andate in fiamme, una dopo l’altra. Ormai non c’è più nulla”, dice. Ristoranti, piccoli locali, persino moschee e scuole, tirate su con legno e plastica. Tutto è andato a fuoco nel giro di poche ore. “Sulle prime abbiamo pensato fossero stati alcuni migranti afgani”, dice Nathalie, giovane attivista No Border, “sembrava una sfida contro la polizia. Ma c’è chi parla di militanti di estrema destra infiltrati nel campo, per appiccare il fuoco e accelerare l’evacuazione”.
I minorenni che rimangono nel campo
Quel che è certo, è che nel giro di 24 ore, il campo si svuota. All’interno restano circa 400 donne e 1.500 minorenni non accompagnati. L’ultimo rilevamento dell’organizzazione francese Terre d’asile, prima dello sgombero, ne aveva contati duecento in meno. Per alcuni di loro, si sono già aperte le porte del Regno Unito. “I minori resteranno nella giungla”, spiega Samuel Hanryon, della comunicazione di Medici senza frontiere.
“In questi giorni sono stati trasferiti nei container bianchi allestiti dal governo. Alloggeranno lì finché non verrà accertata la loro situazione”, afferma. I minorenni, infatti, possono essere ammessi nel Regno Unito attraverso il ricongiungimento familiare previsto dal regolamento di Dublino. Non sempre, tuttavia, si è concordi sulla nozione di “familiare”. “Io ho mio cugino a Londra”, dice Mustafa, uno dei sedicenni sudanesi che affollano l’area container, “ma dicono che un cugino non sia sufficiente. I miei genitori e i miei fratelli sono rimasti in Sudan. E io non so dove andare”.
La notizia che i “bambino” (come vengono chiamati i minori del campo di Calais) sono rimasti, si è diffusa velocemente, causando tensioni. “È verosimile che decine di minorenni siano arrivati a Calais da Parigi cercando di mescolarsi a quelli del campo”, spiega Hanryon. “Fino a ieri c’erano almeno un centinaio di ragazzini costretti a dormire all’addiaccio fuori dal campo oramai sgomberato. L’evacuazione è terminata. Ma resta ancora molta confusione sul futuro di chi è stato portato via da qui”.
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