Sulla via Emilia con Vinicio Capossela per scacciare le paure
Ci si allunga, ci si accorcia, ci si espande; ma non ci si scosta da sé.
Massimo Zamboni, L’eco di uno sparo
Sulla via Emilia tra Reggio e Parma, vicino a Sant’Ilario d’Enza, c’è un distributore di benzina dove si sente sempre della musica. Gli altoparlanti la diffondono a tutte le ore del giorno e della notte. Vinicio Capossela scende dall’auto e passeggia tra le pompe della stazione di servizio. Tende l’orecchio per capire che canzone c’è: è Onda su onda, nella versione di Bruno Lauzi. È il 28 dicembre, siamo nei giorni tra Natale e Capodanno e mancano poche ore al suo concerto al Fuori Orario di Taneto di Gattatico, un circolo Arci a cinque minuti di macchina, nei luoghi d’origine dei fratelli Cervi.
Capossela aveva voglia di fermarsi un attimo qui, perché con questo distributore ha un rapporto speciale. Alla fine degli anni ottanta era un punto di ritrovo per lui e i suoi amici, per la “Ghenga”, come la chiama il cantautore. La pompa di benzina, allora come oggi, è gestita da Antonio Mainini, soprannominato “Tony Benzina”. “Tony ha chiamato sua figlia Emilia in onore di questa statale perché, come dice sempre lui, ‘Se ne parla male ma dà da mangiare a parecchia gente’”, dice Capossela. Un paio di macchine entrano a fare rifornimento, e quasi gli fanno il pelo. Lui sembra non farci caso. Indossa un cappello nero con sopra le lucine di Natale, la barba è lunga come al solito. Si copre le spalle e il petto con il tabarro, un mantello un tempo molto diffuso nella pianura padana.
Vinicio Capossela è nato nel 1965 ad Hannover, in Germania, ma è cresciuto poco lontano da qui, a Ca’ de’ Caroli, frazione di Scandiano, un piccolo paese dove vivono i suoi genitori e dove lui ha ancora la residenza, anche se vive a Milano. Qui ha imparato a suonare il pianoforte da bambino. Ha fatto i suoi primi concerti alla fine degli anni ottanta all’Escandalo, un circolo Arci di Parma al tempo gestito dall’amico Franco Bassi, detto “Luce”, un altro della Ghenga, che da anni è anche un suo collaboratore di fiducia. Al tempo Capossela suonava insieme alla fidanzata, Ilaria, in un duo chiamato Blue Valentine, in omaggio a una canzone di Tom Waits. Vinicio Capossela stava al piano e lei cantava.
Da giovane Vinicio Capossela ha percorso la via Emilia parecchie volte e ha frequentato tanti locali della zona, sia da cliente sia da musicista. Dopo la fine dei Blue Valentine, ha cominciato a esibirsi da solo, piano e voce, spesso a notte inoltrata. Verrebbe da dire All’una e trentacinque circa, citando il titolo del suo disco d’esordio. Ai tempi era un cantautore confidenziale, adatto ai piccoli club: il Corallo di Scandiano, il Bainait di Montecchio, il Florida in provincia di Modena, il Pjazza di Bellaria, sulla riviera romagnola.
E ogni anno Capossela torna da queste parti, quasi volesse ricordarsi chi era. I concerti al Fuori Orario durante le feste di Natale per lui sono un appuntamento fisso. Ci ha suonato per la prima volta vent’anni fa. Il locale, di cui Franco Bassi è uno dei fondatori, è stato costruito all’inizio degli anni novanta lungo la ferrovia Milano-Bologna. All’interno Bassi e gli altri soci hanno messo il vagone di un treno che avevano trovato lungo la via Emilia in mezzo a un mucchio di ferri vecchi. Il vagone è ancora lì, le carrozze sono state trasformate in tavolini da bar. Dall’altra parte della sala invece c’è il palco, dietro al quale svetta una grande vetrata. Si vede il cartello Fuori Orario, bianco e blu, come quelli all’entrata delle stazioni, e ogni tanto passa un treno. Ma sono molti meno di un tempo, l’alta velocità ha cambiato un po’ le cose.
Quest’anno Capossela e la sua band si sono esibiti il 27 e 28 dicembre, in due concerti da tre ore con ospiti e amici di lunga data, dal mago Christopher Wonder, arrivato direttamente dagli Stati Uniti in veste di guastatore d’onore, al poeta milanese Cinaski, organizzati per festeggiare il successo del suo ultimo disco Ballate per uomini e bestie, vincitore della Targa Tenco per il miglior album.
La piana ipermercata
“La pianura tra Parma e Reggio è un posto strano. Nel mio libro Non si muore tutte le mattine l’ho chiamata la ‘piana ipermercata’, perché qui convivono due realtà apparentemente inconciliabili: quella industriale, con tanti capannoni, centri commerciali sparsi lungo la strada, e quella rurale, della quale sopravvivono piccole sacche di civiltà contadina”, racconta Capossela mentre fa un ultimo giro in mezzo alle pompe del distributore.
“Al tempo stesso però la provincia tra Reggio Emilia e Parma è stata sempre un luogo abbastanza attento alla cultura e alla musica. Alla fine degli anni ottanta c’erano rassegne musicali nei vari circoli Arci e il comune di Reggio metteva a disposizione spazi pubblici e sale prove. E qui ovviamente c’è una grande tradizione, a partire dalla musica da ballo e dal liscio”, aggiunge il cantautore. “Da giovane io avevo un gruppo hard rock chiamato Hurricane. A Scandiano abbiamo suonato a un festival chiamato Piastrelle rock, perché il paese fa parte del comprensorio della ceramica”.
Capossela è da sempre attento alle realtà più piccole dell’Italia. Da nomade e instancabile performer, ha sempre cercato di esibirsi nelle zone meno battute del nostro paese. E con lo Sponz Fest, la manifestazione che organizza in Alta Irpinia, ha cercato di portare la musica nei luoghi d’origine di suo padre. “I posti con meno densità di popolazione da un lato sono più fuori dai circuiti principali, ma dall’altro danno una sensazione di frontiera e di libertà. Io sono cresciuto muovendomi in macchina, esplorando i negozi e i bar lungo la via Emilia. Mi sentivo un po’ negli Stati Uniti, da questo punto di vista. Non è un caso che qui in pianura i rocker stradali come Bruce Springsteen, John Mellencamp o perfino i Calexico siano stati sempre molto popolari e che Francesco Guccini, una delle voci più autorevoli della musica emiliana, abbia intitolato il suo disco dal vivo Fra la via Emilia e il West”, spiega il musicista aggiustandosi il cappello.
Poi saliamo in macchina, diretti verso un altro luogo caro a Capossela: il Chiavicone, un gruppo di case che si trova lungo la riva del fiume Enza. Mentre Franco Bassi è al volante, il cantautore racconta come ha scoperto la sua musica preferita da adolescente: in macchina, ovviamente. Da giovane ascoltava sempre le radio libere emiliane, le stesse raccontate da Luciano Ligabue nel film Radiofreccia, e frequentava locali come il Corallo, evocato anche nel suo brano Sabato al Corallo, una storia di vita di provincia sospesa tra malinconia e ironia, il cui testo recita: “E la pianura s’è vestita di luci gialle nella foschia, la provinciale si fa scintillante (…) ma eccolo qua il nostro locale mai finito sul giornale perso nelle nebbie di paese, ma pieno di macchine che sembra una città”. Erano anni in cui Capossela inseguiva il mito del cantautore confidenziale e leggeva Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli, una raccolta di racconti ambientata proprio tra Reggio, Parma e il modenese, e si faceva affascinare dalle foto di Luigi Ghirri, originario anche lui di Scandiano.
Forse in questo caso conviene ascoltare direttamente le parole del cantautore, registrate sul sedile posteriore dell’auto, in viaggio verso il Chiavicone.
Siamo arrivati al Chiavicone. Mentre parcheggiamo, Capossela prosegue nel racconto: “Nel 2008 con la mia band ho fatto un concerto di Capodanno al Corallo, nel periodo del Solo show.
Come in questi giorni al Fuori Orario, anche quella volta c’era il mago Christopher Wonder, che si accompagnava con una bellissima ragazza chiamata Jessica Love. Dopo un’ora che erano arrivati hanno cominciato a bere e a litigare. Alla fine Wonder è stato cacciato fuori dai buttafuori del locale. È successo anche a me varie volte di essere messo alla porta, nell’epoca in cui ci andavo da cliente, mi ubriacavo e diventavo molesto. Ma è ancora più divertente se ti cacciano quando sei ingaggiato! Per questo suono da vent’anni al Fuori Orario, perché anche da quel posto mi hanno già cacciato e posso permettermi di fare figuracce”.
Una casa sull’acqua
Il Chiavicone è un gruppo di case circondato da campi e viti. Non ha niente a che fare con il paesaggio industriale che ci siamo appena lasciati alle spalle. Qua e là si vedono delle baracche e delle abitazioni di fortuna fatte con le reti dei materassi. Galline e animali da cortile scorrazzano in mezzo alla strada. Questo luogo ha ispirato una canzone di Capossela, Contrada chiavicone, pubblicata nell’album Il ballo di San Vito, oltre che alcuni racconti di Non si muore tutte le mattine. Al Chiavicone vive da anni Marco Stefanini, detto Dum Dum, un altro personaggio della Ghenga. Oggi Stefanini non c’è, è in viaggio all’estero, ma da fuori la sua casa si riconosce subito. È l’ex torre di un acquedotto del 1915, alta tredici metri, costruita sopra un pozzo. È stata restaurata con materiali naturali e trasformata dallo stesso Stefanini in un appartamento di 120 metri quadrati.
Ci spostiamo sotto la casa-torre. Nel giardino c’è un tronco d’albero e spiccano diverse installazioni artistiche realizzate da Stefanini. Capossela si guarda intorno, accarezzandosi la barba nera. “È Dum Dum che mi ha ispirato la mitologia di questo luogo. Venivamo sempre a trovarlo qui. Il Chiavicone mi ricorda i Balcani. Qui negli anni ottanta usavamo macchine fuori ordinanza, con più di vent’anni di età, adatte a girare di notte e a perderci nelle nostre fantasie. E il posto somiglia alla parte più selvatica d’Europa, per esempio all’Albania. Potrebbe essere tranquillamente il set di un film di Emir Kusturica, e infatti quando ho registrato il brano Contrada Chiavicone ho scelto un arrangiamento balcanico. Ma in fondo qui non c’è niente di esotico, è semplicemente un residuo del mondo contadino. Mi ricorda un po’ l’Irpinia degli anni settanta, dove andavo da bambino con mio padre. Al Chiavicone la modernità è arrivata in forma di rottame, di congegno. Quand’ero giovane c’era un inventore di cose inutili, il Tarasconi, che cercava di costruire la macchina per il moto perpetuo assemblando grossi bobine di rame. E poi c’era pieno di scassi, cimiteri di macchine e di scarti della società industriale”.
Uno dei racconti di Non si muore tutte le mattine infatti è dedicato all’Animale del Chiavicone: una bestia anfibia, spiega il cantautore, che esiste ma che nessuno ha mai visto, ghiotta “del tubo della sommersa”. Che non si accoppia con nessuno e non fa nessun verso. Di lui si sente solo “il borbottio”.
“Una volta che il mondo contadino è finito, rimangono delle sacche di clandestinità. I non luoghi come questo si riempiono di cose improbabili, e talvolta tristi: per esempio lungo la via Emilia oggi ci sono molte prostitute nere che vivono nelle baracche in mezzo ai boschi circondate dalle auto”, aggiunge Capossela.
La danza macabra
Ci allontaniamo dalla casa di Stefanini e facciamo una passeggiata in mezzo ai campi. In lontananza si sente scorrere l’Enza. Mentre camminiamo spaventiamo un uccello, che si alza in volo all’improvviso. A un certo punto ci ritroviamo dentro un campo da calcio abbandonato, del quale sono rimaste solo le porte arrugginite.
“C’è un libro che mi è molto caro e che parla proprio di queste zone: è L’eco di uno sparo di Massimo Zamboni, il fondatore dei Cccp e dei Csi. Comincia in un giorno di febbraio del 1944 quando Ulisse, un fascista, il nonno di Zamboni, cade dalla bicicletta colpito alle spalle da alcuni partigiani a Campegine, poco lontano da qui. Diciassette anni dopo un’altra pallottola uccide il partigiano che aveva sparato quel giorno, ma a impugnare l’arma è un compagno dei Gruppi di azione patriottica, quello che insieme a lui aveva ucciso Ulisse”, racconta Capossela, “Zamboni, attraverso un esame attento delle fonti, ricostruisce la storia della sua famiglia, e rievoca al tempo stesso il paesaggio rurale della pianura padana, le sue nebbie e i suoi campi. Nel 2015 con Massimo abbiamo organizzato un evento all’Arci Le Ciminiere di Scandiano, presentando il suo libro insieme al mio romanzo Il paese dei Coppoloni. È stato molto bello”.
Verso la fine dell’Eco di uno sparo, Massimo Zamboni va al Cimitero monumentale di Reggio Emilia, a visitare la tomba della famiglia di sua madre perché, come scrive Zamboni: “Possiamo dire ‘casa’ soltanto quel paese dove riposano i nostri morti”.
Non siate tristi per me, per questo insistere sui morti. Io non lo sono. Non sono fissato. Chi ci spaventa con la morte, chi la reclude e la separa da ognuno di noi, ci inganna e ci defrauda della vita.
Queste parole fanno venire in mente due brani di Ballate per uomini e bestie, l’ultimo disco di Capossela: Danza macabra (che ci ricorda che “La morte vien da fuori eppure sta nella vita”) e Nuove tentazioni di Sant’Antonio (“Metter la morte fuori dai vivi che non danneggi la produzione, tenerla a parte negli ospedali”, scritta insieme a Massimo Zamboni).
In queste canzoni Capossela parla della paura della morte, l’ultimo grande tabù della società del consumo, e invita a diffidare di chi separa i vivi dai defunti. Ed è lui stesso a spiegare perché, mentre ci allontaniamo dal campo di calcio abbandonato:
Pochi minuti dopo ci rimettiamo in macchina per tornare al Fuori Orario, dove Capossela dovrà fare le prove con la band. E lui prosegue il discorso:
“Dobbiamo sconfiggere questa paura che ci circonda. È anche per questo che mi sono sempre sentito a casa nella cultura contadina, che contempla i morti come presenze. Per questo nel concerto al Fuori Orario evochiamo le dodici notti tra il 25 dicembre e il 6 gennaio, nelle quali i morti ritornano. Queste feste tengono vivo il nostro rapporto con la terra e la natura delle cose. Rimuovere la morte e agire sulla paura è sempre funzionale al potere e al capitalismo, che vuole che moriamo da soli, nelle cliniche e negli ospedali, lontani dagli altri. Per questo ogni tanto ho ancora bisogno di trovare rifugio nelle sacche rurali come il Chiavicone e Scandiano”.
Un concerto per uomini e bestie
Sono passate un paio d’ore, manca poco alle 19. Il Fuori Orario è ancora chiuso ma la gente è già in fila. All’ingresso del locale c’è una targa, dove c’è scritto “Il circolo Arci Fuori Orario è dedicato alla memoria delle vittime del terrorismo fascista per le stragi Treno Italicus, Bologna, Rapido 904. Per non dimenticare”.
Franco Bassi è dentro, in piedi dietro al lunghissimo bancone del locale – “A me piace così, come in America”, spiega – beve un caffè e taglia il pane per metterci dentro i salumi, mentre dà le ultime disposizioni ai camerieri che preparano la sala. Sulle pareti alle sue spalle spiccano alcuni simboli del passato comunista reggiano: illustrazioni di Che Guevara, immagini di Lenin e una foto di Roberto Benigni che prende in braccio Enrico Berlinguer.
“Da giovane Vinicio era molto bohemién, portava sempre il borsalino. Era bello, piaceva alle donne”, racconta Bassi. “Una sera nel 1986 venne all’Escandalo, il mio locale. Si sedette al piano, che era in un angolo e non lo usava nessuno, noi ci appoggiavamo sopra i bicchieri. Cominciò a suonare dei pezzi di Tom Waits e pensai: ‘Mica male questo qui’. Poi ci sedemmo al bancone e cominciammo a parlare, mi è stato simpatico fin dal primo momento. Avevamo entrambi il fegato nuovo e decidemmo di darci da fare con il vino. Lui mi spiegò che era a Parma per studiare economia e commercio e viveva alla casa dello studente, dentro un loculo con i letti a castello. Voleva andarsene. Allora io la sera dopo gli proposi di venire ad abitare a casa con me in Borgo Bernabei. In cambio lui avrebbe suonato all’Escandalo una volta alla settimana. In quella casa scrisse diverse canzoni che gli avrebbero aperto le porte del successo. Gli stessi brani che erano dentro la cassettina che diede a Francesco Guccini nel 1989, e che Guccini consegnò al discografico Renzo Fantini, produttore di All’una e trentacinque circa”.
Sono passate da poco le 22, Capossela sale sul palco, con un cappello nero e un paio di occhiali da sole a forma di albero di Natale. Lancia coriandoli al pubblico e attacca il primo pezzo: Bianco Natale. Il locale è pieno, per la seconda serata di fila, ci saranno più di mille persone.
Il repertorio del concerto pesca a piene mani da Ballate per uomini e bestie. Ecco allora brani come La peste e I musicanti di Brema. Visto il contesto però Capossela si concede anche dei brani dei suoi primi dischi che non capita spesso di ascoltare: L’accolita dei rancorosi , dove nel descrivere il suo gruppo di amici omaggia lo scrittore John Fante, ma anche La notte se n’è andata. C’è spazio anche per il pezzo All’una e trentacinque circa, con il suo ritornello: “Chimay, Bacardi Jamaican rhum, white Lady, Beck’s beer, tequila bum bum, dry gin, Charrington, Four Roses Bourbon”.
Il concerto dura tre ore e Capossela come al solito si diverte a mettere in gioco le sue doti da trasformista: cambia cappello a ogni pezzo, si traveste ora da licantropo ora da Sante Nicola, il santo impostore protettore delle “vittime dei propri errori”. Canta un brano composto per l’occasione, intitolato In taberna, un inno alle bevute tra amici ispirato ai Carmina burana e sfodera classici del suo repertorio come L’uomo vivo, omaggio alla processione del Cristo risorto di Scicli, in Sicilia.
Ogni tanto sul palco fa capolino Christopher Wonder, il mago guastatore, che mostra la pancia dove si è tatuato la scritta “Ta da”. Uno dei numeri che propone è la finta decapitazione di una gallina. Durante L’uomo vivo Wonder si tuffa dal palco con indosso una camicia di forza, dalla quale si libera mentre fluttua sul pubblico. A un certo punto fa partire un petardo dal sedere, dove si è tatuato “The end”. E beve, beve, beve. Capossela, ogni tanto, gli fa compagnia più che volentieri e leva il suo bicchiere al cielo. Attorno al lunghissimo bancone del Fuori Orario c’è una via vai continuo.
Si capisce che per Capossela questo non è un posto come gli altri. Durante il bis fa salire sul palco Franco Bassi mentre canta Christmas song, altro brano composto a Borgo Bernabei. Poi, per salutare definitivamente il pubblico, suona Ovunque proteggi, la sua ballata più famosa. La voce di Capossela se n’è quasi andata, ma non importa. Anche quest’anno è tornato in pianura, in mezzo ai campi e ai capannoni, per salutare l’anno vecchio e prepararsi a quello nuovo. Alla fine del 2020 sarà di nuovo qui. C’è da scommetterci.
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