A Napoli la musica dal vivo resiste alla gentrificazione
Sono quasi le cinque del pomeriggio. Di fronte alla Sala Assoli, un piccolo spazio nel cuore dei Quartieri spagnoli di Napoli dove si tengono concerti e spettacoli teatrali, comincia a fare buio. In queste strade, del resto, non c’è mai tantissimo sole neanche di giorno. Marco Stangherlin, che di mestiere organizza concerti, è qui per il secondo appuntamento della rassegna Epifonie. Sta facendo gli ultimi preparativi per l’evento di stasera, che ospita il chitarrista e produttore Alessandro “Asso” Stefana, collaboratore di artisti come Pj Harvey, Mike Patton e Vinicio Capossela. Stefana è appena sceso dal treno e arriverà a breve per fare le prove.
Mentre parliamo, veniamo spesso interrotti dai motorini che sfrecciano per le vie strette. A pochi metri da noi c’è la bancarella Spasso e taralli da zio Lello, dove ogni tanto qualche ragazzo si ferma a fare uno spuntino o a bere uno spritz. Basta fare due passi poco più in là per toccare con mano la gentrificazione in corso da anni: in vico Cariati spicca il museo Maradona, che mette in mostra diversi cimeli appartenuti al calciatore argentino nei suoi sette anni in maglia azzurra.
Di fronte al museo un bar offre un apericena a tema Pibe de Oro. Anche lo stadio della città dal 2020 è intitolato alla memoria del giocatore argentino, e oltre a ospitare le partite del Napoli, l’impianto è tornato a essere teatro di concerti importanti: nel giugno 2023 i Coldplay hanno tenuto lì due date del loro tour mondiale. La prossima estate si esibiranno Vasco Rossi, gli Imagine Dragons, Elodie e altri. Perfino Scampia ormai è diventata lo scenario ideale per grandi eventi come il Marrageddon Festival e il Red Bull 64 Bars.
La Sala Assoli resta però uno spazio diverso, anche se è accerchiata dalla gentrificazione dei Quartieri. A fianco all’entrata spiccano due murales degli artisti napoletani Cyop&Kaf, mentre sopra l’ingresso c’è un graffito dedicato all’attore e drammaturgo Enzo Moscato, cresciuto proprio nei Quartieri Spagnoli. Accanto al suo ritratto spicca la frase: “Giesù Giesù! A morte, ccà, è ssulo festa ammare nu rinfresco, un giro pirotecnico” (Gesù Gesù! La morte, qui, è solo festa al mare un rinfresco, un giro pirotecnico).
“La Sala Assoli una volta era lo spazio off del Teatro nuovo, un teatro sperimentale che risale al settecento. Da qualche anno è una realtà autonoma che fa capo al centro di produzione Casa del contemporaneo, racconta Stangherlin. “Qui vicino c’è un altro luogo di cultura, ormai purtroppo poco utilizzato: la Galleria Toledo. Lì ho fatto per anni delle rassegne, portando musicisti stranieri come Tom Verlaine dei Television, Bill Callahan, i Dirty Three di Warren Ellis”.
Anche se il nome può ingannare, Marco Stangherlin è napoletano. Organizza concerti in tutta Italia, ma i suoi i primi eventi li ha messi in piedi proprio nella sua città, seppur con fatica: “Sono cresciuto sulla collina di Pizzofalcone, ma da quindici anni vivo nella prima parte dei Quartieri, che s’incontra salendo da via Toledo e che è stata presa d’assalto dal turismo. Un tempo qui era molto diverso: quando sono arrivato con la mia famiglia ci siamo sentiti accolti, il quartiere era vivo, nonostante molte persone vivessero in condizioni economiche precarie. C’erano anche tanti studenti o lavoratori venuti da fuori in cerca di appartamenti a basso prezzo. Con l’esplosione del turismo, però, le cose sono cambiate e molti luoghi hanno chiuso: dalla gelateria artigianale al calzolaio. Le piccole attività di quartiere sono diventate tutte trattorie o pizzerie e i prezzi delle case sono saliti. Tanti bassi, le abitazioni al piano terra, sono stati trasformati in case vacanze e le strade sono piene di tavolini. Il paesaggio urbano è stato stravolto”.
Il primo concerto organizzato da Stangherlin risale al 2002. “Ho portato i Califone, una band di rock sperimentale di Chicago, in un jazz club vicino a piazza Dante, il Bourbon street. Avevo messo in piedi l’evento insieme a due amici. Ed era andata molto bene, perché a quei tempi i circuiti per la musica indipendente in città non erano molti e c’era terreno fertile. Poi ho organizzato altre cose in città, alcune in un locale al Vomero, altre sempre in centro. Piano piano le cose sono andate sempre meglio, così nel 2012 ho fondato l’agenzia di promozione e booking Wakeupandream, con cui organizzo tour in tutta Italia”.
Fare questo lavoro a Napoli, però, non è per niente facile. “È faticosissimo. In città, nonostante ci siano tanti grandi eventi come i concerti allo stadio Maradona, non ci sono più locali dove farne con artisti medi e piccoli, che sono fondamentali per tutta la filiera. Abbiamo un paio di locali molto piccoli, dai settanta ai cento posti, e un paio più grandi che però non hanno una buona acustica. Le cose migliori negli ultimi anni sono successe negli spazi non ufficiali, come i centri sociali Ex Opg e Scugnizzo Liberato, che con il mandato di Luigi De Magistris sono diventati dei luoghi pieni di fermento. Ogni tanto riesco a fare qualcosa lì: per esempio ci ho portato Elio Germano e Teho Teardo con uno spettacolo dedicato a Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline”, spiega mentre ci spostiamo per far passare un camioncino dal quale scendono i fonici della Sala Assoli.
L’Abbey Road di Napoli
Verso le sei del pomeriggio arriva “Asso”, con l’immancabile cappello a tesa larga. È a piedi e carico di strumenti: chitarra, lap steel, una piccola tastiera e pedaliere. È il momento delle prove. Lascio dunque lui e Stangherlin e mi avvio a piedi verso il centro storico. Le strade sono quasi completamente buie. A illuminarle restano solo i lampioni e le insegne dei negozi e dei bar, dove si vedono diversi studenti universitari. Arrivo all’Auditorium Novecento, uno spazio per concerti e studio di registrazione che sorge nell’ex sede della Phonotype Record, luogo storico per la musica partenopea. Proprio lì, all’angolo tra via De Marinis e via Mezzocannone, nel 1901 nacque la Società fonografica napoletana, la prima azienda a fabbricare dischi in Italia poi diventata Phonotype Record, in una stalla riconvertita a stamperia di 78 giri e casa discografica da Raffaele Esposito, produttore di selle appassionato di lirica. In quelle sale d’incisione registrò, tra gli altri, Enrico Caruso. Solo uno degli eredi della famiglia Esposito, Fernando, è ancora vivo e ha più di novant’anni.
Nel 2018 sei imprenditori napoletani hanno creato il progetto Auditorium novecento, restaurando le vecchie sale e ricominciando a registrare e pubblicare dischi con apparecchiature che ancora oggi sono in grado di creare un suono di alta qualità. Qui negli ultimi anni sono passati numerosi artisti, tra cui i Calibro 35. Ad accogliermi c’è Fabrizio Piccolo, uno dei soci del progetto.
La leggenda vuole che i tecnici di Abbey Road, lo studio dove lavoravano i Beatles, vennero alla Phonotype per prendere ispirazione. E diverse testimonianze riportano anche che Totò registrò in questo studio il brano Malafemmena, insieme al maestro d’orchestra Alfredo Giannini. “Antonio de Curtis passò in studio, una cosa che faceva spesso, e scherzando disse a Giannini ‘ho scritto una canzone’. Si misero insieme al pianoforte e composero il brano. Il musicista si fece dare mille lire. Se si fosse fatto riconoscere come coautore gli sarebbe andata molto meglio”, racconta Piccolo mentre mi fa vedere lo studio, colorato di verde e beige, che conserva ancora un’estetica vintage.
Mi fa strada nel seminterrato, dove sono accatastati dischi, cd e nastri coperti di polvere e dove potrebbero esserci dei tesori come i primi provini di Pino Daniele. Il problema è che lo spazio andrebbe sanificato e restaurato, ma senza soldi pubblici è impossibile. “Il sindaco è venuto a trovarci, ma al momento non si muove nulla”, spiega. E ci tiene a farmi capire perché questo luogo è così importante per la musica italiana: “All’inizio del novecento la Phonotype stampava i dischi di musica napoletana che diventarono famosi in tutto il mondo. E le etichette straniere che stampavano i 78 giri di musica napoletana usavano i master della Phonotype. Artisti come Fernando De Lucia e Ria Rosa si trasferirono negli Stati Uniti, dove incontrarono gente come Frank Sinatra. Loro hanno il merito di aver dato il via alla diffusione della nostra musica nel mondo”.
Viene spontaneo chiedergli come se la passa la musica dal vivo nelle strade del centro storico, un tempo vivacissime, quando da queste parti era pieno di studenti, oggi scoraggiati dagli affitti sempre più alti. “Per problemi legati alla sicurezza le strutture del centro storico non sono quasi mai adeguate alle leggi per il pubblico spettacolo, e dopo la pandemia le cose sono peggiorate: il 75 per cento dei locali che tenevano viva la scena musicale ha chiuso. I concerti sarebbero importanti anche per i turisti, che quando arrivano trovano solo posti dove mangiare e bere. In centro questo è l’unico posto insieme al Mamamu che ospita concerti di un certo livello”, risponde Piccolo.
Sono le otto. Alessandro “Asso” Stefana ha appena finito di cenare in una trattoria ai Quartieri Spagnoli e si avvia verso la Sala Assoli. Alle nove meno dieci praticamente non c’è ancora nessuno. Dalle nove in poi, gli spettatori cominciano ad arrivare alla spicciolata ed entrano, scendendo una scalinata che li porta nella sala. Si siedono sulla piccola tribuna, aspettando l’inizio. Quando il concerto comincia, alle dieci meno venti, la sala da cento posti è quasi piena. Stefana esce dal camerino, avvolto dal buio, si mette su una sedia di legno e con la chitarra acustica attacca il brano Wandering minstrel, uno dei pezzi estratti dal suo disco solista uscito qualche mese fa, che mescola folk e ambient.
Il pubblico è attento, quasi sempre in religioso silenzio. Tra un brano e l’altro Stefana racconta storie, spiega come sono nati i pezzi del disco e propone aneddoti sulla musica statunitense. Quando suona il cappello gli nasconde quasi completamente il viso. In tre pezzi, Born and raised in Covington, I am a man of constant sorrow e Moonshiner, alla sua chitarra si aggiunge la voce di Roscoe Holcomb, minatore e cantautore folk degli Appalachi morto negli anni ottanta.
Stefana ha recuperato le sue registrazioni dagli archivi della Smithsonian Folkways, aggiungendo i suoi arrangiamenti eterei. “Lui faceva il minatore e ha scavato per tutta la vita, per cui cucirgli attorno una musica un po’ eterea in un certo senso significava portarlo dall’altra parte, verso il cielo”, spiega il musicista sul palco. A metà dell’esibizione Stefana suona con la steel guitar un brano mai pubblicato, che riprende un testo inedito di Hank Williams. E chiude con un pezzo acustico che riprende il tema di Yodel 3 dei Penguin Cafè Orchestra, prima di prendersi un applauso intimo, ma convinto.
Quando usciamo, l’atmosfera ovattata che si respirava nella Sala Assoli svanisce quasi subito in mezzo al rumore. Spasso e taralli da zio Lello si è riempito e i motorini che passano ogni tanto devono farsi strada in mezzo alle persone. Stefana si ferma sulla soglia per parlare con qualche spettatore, è contento di com’è andata. Poi va nel retro a prendere gli strumenti.
Esce, carico come quando era arrivato. Mezz’ora dopo è seduto fuori da un bar dietro l’angolo. Parla con Marco Stangherlin delle prossime date del tour. Fa uno strano effetto vederlo sorseggiare la sua birra, con il cappello in testa e la chitarra acustica appoggiata al muro, mentre dall’interno del locale arriva musica reggaeton a tutto volume. È come fosse arrivato qui a bordo di una macchina del tempo.