“In tutte le lingue europee tradizionali non c’è
una parola che non abbia connotazioni
denigratorie o paternalistiche nei confronti
dei poveri delle città. Ecco che cos’è il potere”.
Ritratti, John Berger
Alle sei e mezza di una domenica mattina di metà inverno il gelo comincia a sciogliersi e il nero della notte si addolcisce con qualche tono di blu. Roma è ancora sospesa nel torpore del sonno, illuminata dall’arancio dei lampioni. Per le strade di San Lorenzo, il quartiere che confina con la stazione Termini, il silenzio è rotto ogni tanto dai passi di qualche persona, dallo sferragliare di un autobus, dalla zuffa di due gatti randagi. I comignoli sui tetti fumano e le case cominciano a riscaldarsi. Per strada ci sono tre gradi e all’angolo tra via dei Ramni e viale di Porta Tiburtina Omar sta dicendo il suo rosario quotidiano di maledizioni e benedizioni. Alto quasi due metri, spalle secche e mani enormi, ha le braccia tese verso l’esterno, a metà tra un bambino che mima un aereo e un prete che invita alla preghiera.
Occhi verdi e pelle olivastra, Omar ha trent’anni e origini tedesche e marocchine. Da più di dieci anni soffre di schizofrenia e sente delle voci che lo umiliano e che tormentano lui e la Luna: “Vogliono farle male. Voglio che questa gente che ho nel cuore bruci”. Le maledice e benedice il satellite in maniera ossessiva. Da più di quattro anni è scappato di casa, a Tangeri, e vive per le strade di San Lorenzo. Tutto in lui è stato piegato dalla malattia, la capacità di distinguere tra allucinazioni e realtà, la fiducia nei medici e nelle medicine, la speranza di poterne uscire: ma il volto gli è rimasto dolce. Anche quando si è spaccato la fronte picchiandola contro un palo della luce per fermare le voci; anche quando è uscito dal Policlinico dopo un trattamento sanitario obbligatorio; anche quando i piedi gli si erano spaccati perché le voci gli avevano detto di non indossare le scarpe e lui aveva camminato per una settimana a piedi nudi.
Quando mi vede si blocca. “Che è successo?”. L’ho conosciuto quasi tre anni fa e come tante persone che vivono nel quartiere ho provato a dargli una mano. Cosa che mai, nonostante i tentativi, si è tradotta in una qualche forma di cura, ma che più spesso ha significato fare colazione insieme, o scambiare due parole, oppure mangiare una pizza sulle panchine di piazza dei Siculi. L’incontro a un orario così insolito lo sorprende. Dice qualcosa in francese tra sé e sé, poi chiede di nuovo se è tutto a posto. Gli dico di sì, che ho appena passato la notte a Termini per scrivere un articolo: te ne avevo parlato, ti ricordi? Non si ricorda, ma è incuriosito, sorride e domanda: “E com’è andata?”.
Il piano
Omar è una delle cinquantamila persone in Italia che vivono per strada. Nella capitale, secondo la comunità di Sant’Egidio, sono ottomila, ma è una cifra prudente. “Altre proiezioni su dati della sala operativa sociale stimano che i senza dimora siano tra le 14mila e le 16mila persone”, scrive la Caritas.
Per loro la giunta guidata da Virginia Raggi ha organizzato un “piano gelo” che prevede la possibilità di dormire nelle metro Piramide e Flaminio, o in uno dei 1.661 posti ricavati nelle stazioni di Termini, di Tiburtina e in altre strutture.
Nonostante i letti siano pochi, tanti stanno rimanendo vuoti. In poche settimane undici persone sono morte per strada, e migliaia di altre preferiscono continuare a dormire sui marciapiedi, nei parchi e nei sottopassaggi, invece che nei luoghi messi a disposizione dal comune. Raggi è arrivata a immaginare un “trattamento sanitario obbligatorio” per costringerle a non dormire per strada, ma oltre alla difficoltà di realizzare quest’idea, la proposta non risponde alla domanda: perché così tanti rinunciano? Un buon modo per capirlo è andare a vedere come sono questi posti.
Ore 19:50, 4 gradi
Come tanti altri senza dimora che vivono a San Lorenzo, Omar la sera va a mangiare alla chiesa Cristiana dello Spirito santo in viale di Porta Tiburtina. Basta citofonare al loro portone e aspettare qualche secondo per ricevere un pezzo di pizza o un piatto di pasta. Sacco a pelo, jeans sporchi, stivaletti vecchi, la barba lunga e un giubbotto verde militare di qualche taglia più grande, la sera di sabato 12 gennaio comincio anche io da lì.
Ci trovo un ragazzo, uno del gruppo di persone che fuma eroina e dorme in piazzale Tiburtino, a pochi passi da qui. Sta finendo gli avanzi di qualcun altro. Sul portone dei preti c’è un cartello : “Per i signori fratelli poveri: vi avvisiamo che abbiamo cambiato orario. Da oggi potete venire a chiedere alle 18 e fino alle 19. Prima e dopo non possiamo più servirvi. Ave Maria!”.
Gli chiedo che si fa e si mette a citofonare. Non ricevendo risposta, comincia a sbattere i pugni prima sulla finestra e poi sulla porta. Basso, naso schiacciato e occhi che spesso girano a vuoto, si chiama Ahmed e non ha intenzione di mollare. Intanto arrivano anche due ventenni in bici. Sulle spalle hanno gli zaini di Uber eats, sul polso destro dei navigatori. Sono del Gambia e del Mali, consegnano cibo per una multinazionale con gli uffici in California, ma siccome non guadagnano abbastanza mangiano dai preti o alla mensa della Caritas, a qualche centinaio di metri da qui. Ahmed riesce a farci dare quattro pezzi di pizza. La pasta è fredda e la mozzarella sembra calce. Ci salutiamo e ognuno va per la sua strada.
Ore 20:30
Il posto dove il comune ha pensato di ospitare per la notte i senza dimora è un’ala di Termini lontana dall’ingresso principale e vicina al sottopassaggio che unisce via Marsala a via Giolitti, due arterie che costeggiano la stazione. In questo passaggio alcuni dormono appollaiati sulle grandi finestre di alcuni magazzini, altri tra i pilastri che dividono la strada in due. Il rumore delle automobili rimbomba, mentre i treni che passano qui sopra sembra che possano far venire giù tutto. Conto quattro persone che dormono qui, sotto coperte, sacchi a pelo e cartoni.
All’ingresso dello spazio per l’emergenza freddo un cartello avvisa che apre alle 21.30 e chiude alle 6. Ma dentro ci sono già una decina di persone che aspettano. Su di loro si posano gli sguardi dei turisti, dei viaggiatori che vanno verso i treni e dei passanti. In totale, ogni giorno i frequentatori della stazione sono 420mila. Da qui passa solo una minoranza di loro, ma anche a voler pensare che siano l’1 per cento, sarebbero comunque quasi cinquemila persone. Chissà quante storie e raffreddori e pensieri e sporcizia sotto le suole delle scarpe si lasciano dietro. Nessuno pulisce, né pulirà mai prima che l’area sia preparata per la notte.
Ore 21:20
Il primo a rivolgermi la parola è Franceschino. Berretto di lana rosso con pennacchio, giaccone marrone deforme, tuta logora e scarpe da ginnastica sfondate, Franceschino ha 42 anni ma le rughe sul volto e qualche dente in meno gliene mettono in conto qualcuno in più. “Ahó, zingaro, ahó”. Franceschino si rivolge a tutti con “ahó”, a volte lo grida anche nel vuoto. “Ahó, sto a di’ a te, vie’ qua”. Mi avvicino. “Stai bene? La prima cosa: nun te devi vergognà. Mai. Mettete a sede, dai”. Un polacco gli allunga un bicchiere di vino bianco Tavernello in un bicchiere di plastica. Franceschino beve, poi si accende una sigaretta e comincia a soffiare il fumo dalla mia parte. “Qua comanna Franceschino”, mi dice, “problemi?”. Faccio di no con la testa.
La stazione è grande 225mila metri quadrati. Quelli riservati ai senza dimora saranno un paio di centinaia di metri quadrati
Intanto arrivano tre operai con i giacconi gialli e verdi delle Grandi stazioni e prendono delle transenne da un angolo. Franceschino gli grida dietro: “Ahò, e annamo no!?”. Parte un applauso. “Stanno a montà ‘a gabbia”, dice Franceschino. Le transenne – d’acciaio, alte un paio di metri e coperte con della tela bianca – sono messe in modo da dividere lo spazio in due. Uno porta alle scale verso i treni, un altro è riservato ai senza dimora. La tela serve a nascondere i secondi ai primi, ma è un’operazione fallimentare, visto che ci sono delle porte finestre a tutta parete che affacciano sul marciapiede di via Giolitti.
La stazione è grande 225mila metri quadrati, di cui 32mila occupati da negozi, bar e ristoranti. Quelli riservati ai senza dimora saranno un paio di centinaia di metri quadrati, a metà tra una gabbia, come dice Franceschino, e un acquario. Le persone che passano su via Giolitti guardano esattamente come si guarda dentro a un acquario, o a una cella – esperienza riservata a pochi, ma qui garantita a tutti.
Fuori ci sono tre bagni chimici che perdono del liquido scuro.
Ore 21:40
Dentro intanto le persone sono diventate una trentina. Mentre sono fuori che fumo una sigaretta vedo arrivare un ragazzo che conosco. È Fabrizio Schedid di Binario95, un centro diurno per senza dimora a meno di un chilometro da qui. Insieme ad altri operatori della cooperativa sociale Europe consulting gestisce lo spazio aperto a Termini. Ho passato un pomeriggio a raccontargli la storia di Omar, nella speranza che lo potessero aiutare, ma anche per loro è un’impresa complicata. Non vorrei farmi riconoscere e così tiro su il cappuccio della felpa e quello del giaccone. Mi passa accanto, entra e insieme ad Abasi – uno degli altri due operatori in servizio questa sera, l’altro è Daoud – comincia a distribuire i materassini da mare e le coperte per la notte.
“C’è qualcuno che ieri non c’era?”, chiede Schedid, seduto a un tavolo di plastica dove segna nomi e date di nascita. “Lo spiego per chi non c’era. Quelli che erano qui anche ieri hanno la precedenza, poi se restano posti, diamo un materassino anche a voi”. Ieri c’erano 31 persone, i posti in totale sono quaranta, così come a Tiburtina. Dopo un ragazzo del Niger di 21 anni che non parla italiano e un signore algerino con una stampella che si mette a gridare perché è impaziente di prendersi il posto, tocca a me avvicinarmi al banchetto. Schedid alza gli occhi e dopo qualche secondo di silenzio chiede: “Dove ci siamo visti io e te?”. Alzo le spalle. “Alle docce, può essere?”. A Binario95 tanti possono andare a farsene una. “Può essere”, dico, il più possibile a bassa voce. “Eh, può essere”, sorride lui, “nome?”. Raimondo Fragapane, dico. “Come? Remo?”. Raimondo. “Ok Remo, questo è il tuo bigliettino, se domani torni con questo il posto è tuo, ora ti diamo tutto quello che ti serve”. Non è strano che non mi abbia riconosciuto. Gli operatori sono costretti a lavorare in situazioni complicate, e con armi spuntate.
Abasi mi allunga un materassino e una busta nera dell’immondizia con delle coperte dentro.
Ore 22, 3 gradi
Una la uso per coprire il materassino, perché è sporco. L’altra la metto sopra al sacco a pelo che mi sono portato. Visto che un po’ di persone escono a fumare, faccio lo stesso. Fuori conosco Filippo, 42 anni. Alto un metro e ottanta, indossa un piumino con sopra un giubbotto marrone, dei pantaloni blu e degli stivaletti di pelle. Il vecchio cappello di lana in testa è l’unica cosa che un po’ sgualcisce l’insieme. La pelle del viso olivastra e l’accento tradiscono le sue origini. Gli chiedo se è di Catania. “Sì, ‘nbare, e tu?”. Rispondo che sono di Agrigento. “Minchia, ma che dici vero?”. Sorride e mi presenta Angelo, un ragazzo calabrese minuto, con i denti storti e un ritardo mentale. “Ma chi ti ci portò da Agrigento a Roma?”, chiede Filippo. Gli dico che cerco lavoro e lui annuisce. Gli chiedo che ci faccia qui. “A Roma, dici, o qui alla stazione? Lascia stare, ‘nbare, a me un cornuto mi ha rovinato”. La storia del cornuto che lo ha rovinato è questa:
Nel 2008 avevo fatto un lavoro, e tu mi capisci di che lavoro parlo, no? L’ho fatto per aiutare i miei figli, per dargli un futuro, ed ero tranquillo. Ma questo cornuto con cui lo avevo fatto si mette a spendere e spandere, e si fa beccare: 32mila euro dentro l’armadio, gli hanno trovato, al grandissimo pezzo di cornuto. Dalla sera alla mattina mi trovo dieci poliziotti a casa. Processo per direttissima e condanna a quattro anni. Mi sono fatto le carceri da Catania a Milano, compare, mi sono pure beccato due coltellate nella pancia e ora eccomi qui. Tu lo sai che significa cercare lavoro quando sei uscito, no? Ma io c’ho due figli, li devo campare.
Ore 22:20
Una volta entrati, Filippo dice di stare attenti che “qui si drogano, bevono, è un manicomio”. E quando vede che avevo messo il materassino nella parte opposta della sala grida: “Agrigento, vieni qua, questo è l’angolo degli italiani”.
L’angolo è stato creato con una transenna messa in modo da formare un quadrato aperto su un lato. Filippo, Angelo e una coppia ci hanno sistemato le loro cose. Mi metto dall’altro lato della transenna. “Ma che fai”, dice Filippo, “così quando ti guardo mi sembra di stare in galera”. E unisce le mani per formare un megafono: “Agrigento, a rapporto! Questa cosa non mi piace”. Gli dico che non c’è abbastanza posto per tutti e Angelo conferma: “Ha ragione”. Il ragazzo e la ragazza sorridono, hanno due zaini da campeggiatori, i capelli lunghi e rasati ai lati, e due cuccioli di cane. Lui tiene il suo dentro la tasca davanti della felpa, lei dentro a una borsa. Ogni tanto tirano fuori la testa, impazienti di scendere a terra e giocare, ma i padroni non glielo permettono: nella sala c’è un altro ragazzo, un romeno, che ha un cane di taglia media che gli ha già ringhiato.
Nel tempo che Filippo ci mette a raccontare questa storia, due persone hanno usato delle fascette di plastica per montarsi delle piccole case di cartone davanti alle vetrate dello spazio per il “piano freddo”, una con il tetto e l’altra senza. Dormono già, ma preferiscono farlo fuori. Dentro, le luci non si spegneranno mai e gli annunci degli arrivi e delle partenze si interromperanno solo per qualche ora.
In tutto siamo una trentina: dieci italiani, altrettante persone dell’Europa orientale, qualche ragazzo africano e cinque donne, quattro italiane e una straniera, che dorme sul lato dove dormono romeni, polacchi e ucraini.
Ore 23, 2 gradi
È con lei che se la prende Franceschino. Le si avvicina, la insulta e la provoca. Infine la spinge sul materassino e le dà una botta in testa. Lei risponde come può. Lui la sovrasta per qualche secondo, ma lei riesce a divincolarsi e a colpirlo con una scarpa. Lui si allontana e lei gliela tira. Nessuno muove un dito. A un certo punto si avvicina uno dei due operatori della cooperativa e una guardia della sicurezza privata delle Grandi stazioni. “Franceschì ti devi calmare, se no ti facciamo uscire”, gli dice con l’accento napoletano. Lui continua a insultarla e intanto se la prende pure con la guardia. Poi si allontana.
Ore 23:30
Ghedid è andato a prendere altre coperte. Lo vedo arrivare con la coda dell’occhio mentre sono fuori a fumare. Mi giro per dargli le spalle e incrocio lo sguardo di un ragazzo romeno che fa un cenno col capo per salutare. “Franceschino è matto, fa così con tutte le donne, le odia”, dice. Poi fa un tiro e aggiunge: “Difficile qua”. Gli chiedo se c’era anche ieri e questo è quello che dice prima di finire la sigaretta:
Dormo qui da quattro giorni. Prima avevo un lavoro, facevo il muratore, ma la ditta si è fermata e puff, niente più affitto, niente più soldi a casa. Faccio avanti e indietro da quattro anni, vengo da Brașov, ma neanche lì c’è lavoro. Ora puzzo, mi vedi con i vestiti tutti sporchi, ma ho una valigia a casa di un amico. Ho dato a lui anche i documenti perché per strada ti rubano tutto. Tornerei in Romania, ma mi vergogno, devo prima trovare qualcosa qui e poi posso tornare.
Nei giorni scorsi mi ero appuntato sul telefono un passaggio del libro Le nuove povertà di Zygmunt Bauman, che torna utile di fronte a storie come questa. “All’inizio l’etica del lavoro”, scrive il sociologo polacco, “è stata uno strumento molto efficace per riempire le fabbriche affamate di manodopera. Ma pur se in seguito il lavoro (delle persone) è diventato un ostacolo all’aumento della produttività (per via dei costi), ha ancora un ruolo da svolgere. Oggi è un efficace pretesto per scaricare il senso di colpa di una società che abbandona all’inattività permanente larga parte dei suoi membri, e si lava le mani e la coscienza grazie al duplice artificio della condanna morale dei poveri e dell’assoluzione di tutti gli altri”.
Ore 23:50
Ghedid se n’è andato. Angelo, il ragazzo calabrese che tutti chiamano Fantocci, si è tolto le scarpe e le calze. Si massaggia il piede destro, su cui ha delle vesciche rosse e gialle. Poi si pulisce le unghie.
Franceschino intanto è tornato alla carica con un’altra donna. Più giovane di quella con cui ha litigato prima, più alta e più incazzata, non gli permette neanche di avvicinarsi. La guardia privata e uno dei due operatori della Europe consulting si avvicinano e gli dicono di smetterla. Gli altri lo incitano: “Digli che sei un criminale, Franceschì”. Lei, che intanto ha preso un ombrello dal trolley che si porta dietro e glielo agita contro, prova a zittirlo: “La gente iperattiva qua non la vogliamo”. Ma lui non ci vede più e la insulta ancora. “Io ti denuncio, questa è violenza sessuale”, grida lei. Intanto si è tolta un cappotto nero che le arrivava fino alle caviglie per muoversi meglio. Indossa un piumino, una maglia termica e dei pantaloni tecnici, tutto in nero.
Come una falena intorno a una lampadina, vicino a Franceschino si muove una signora bassa e minuta, con un giaccone nero che le cade addosso e delle scarpe aperte da infermiera. È comparsa da poco ed è entrata in scena con il preciso compito di aizzarlo. Gli dice che quella donna non vale niente e si mette anche lei a insultarla. La guardia privata e l’operatore buttano fuori prima Franceschino e poi lei.
La donna vestita di nero si sistema a letto e dice tra sé e sé: “Eh, povera me”. Accanto a lei c’è una sua amica, capelli bianchi, bassa, più anziana. Finisce anche lei di sistemarsi e si mette a letto. Chiacchierano un po’, poi la più giovane comincia a compulsare un telefono mentre quella più grande si mette a leggere un giallo Mondadori.
Ore 24, 1 grado
È curioso. Il rumore delle auto a pochi metri dai materassini è continuo e quasi scompare. Quello dei trolley dei viaggiatori no, stride sul marmo del pavimento, sbatte contro i gradini, finisce per rompersi nelle orecchie di tutti.
Ore 24:30
Dall’altro lato della transenna Franceschino riprende a gridare: “Ahó, bum bum bum, la devi smettere. Me fa male la capoccia!”. Non si capisce con chi ce l’abbia. La guardia di Grandi stazioni gli dice che lo sbatte fuori anche da lì. “Ci stanno trenta persone che devono dormire, Francè, la finisci?”, gli dice. Siamo 34, la maggior parte già russa, o tossisce.
Ore 1, zero gradi
Esco a fumare l’ultima sigaretta e poco dopo mi raggiunge Franceschino. “Mamma mia sto a morì, sto’”. Pausa. “Che me fai fumà?”. Gli dico che non ho sigarette e che ho lasciato il tabacco dentro. Ma lui insiste: “E lasciami due tiri, no?”. Faccio qualche tiro e gliel’allungo. Sei romano?, gli chiedo. “Io so criminale”, risponde. Questa è la sua storia:
So’ nato a Casal Bruciato, lo sai ‘ndo sta? La prima banda mia stava là. Rapine, sequestri, facevamo de tutto. A diciott’anni me so’ sfonnato la capoccia in un incidente e m’hanno dato la pensione. So’ annato a sta’ a Torbella e poi ar Pigneto, c’avevo ragazze, macchine. Ma a me la vita tranquilla nun me piace. Facevo lavori de qua e de là. Quarche vorta me prennevano, quarche vorta no. C’ho un sacco di fratelli che quanno uscivo m’aspettavano, me dicevano, vie’ qua, vie’ da me: volevano a pensione. Da qualcuno ce so pure stato, ma non era cosa. C’avevo ‘na banda pure a Brescia. Facevo avanti e indietro, avanti e indietro: quant’è bello il treno! Però quelli so’ zingari, nun ce se po ragionà. A Roma me sento a casa, Roma è casa mia, comando io. A Roma comanda Franceschino, nun te lo scordà.
Un’auto con tre ragazzi a bordo si accosta al marciapiede e tira fuori dal finestrino due buste dell’Hard rock cafè. Ci sono dentro dei panini e delle cose da bere, le hanno prese apposta per poi passare dalla stazione e regalarle a qualcuno. Franceschino le afferra entrambe e se le porta dentro.
Ore 1:15
Angelo è quasi sparito sotto la copertina che si è buttato addosso. Uno dei due cagnetti della coppia ha fatto la pipì per terra. Franceschino si mette a letto e continua a parlare da solo.
“Quello della macchina era uno pericoloso. Uno della banda mia. Ti voleva ammazzà. Gli ho detto lascialo stare che quello è un fratello mio. È apposto. T’ho salvato”.
L’altoparlante dice che il treno per Napoli ha un’ora e mezzo di ritardo.
Ore 1:25
Franceschino si è di nuovo agitato, gli operatori e la guardia di Grandi stazioni lo trascinano fuori con tutta la coperta. Rientra qualche secondo dopo e promette di stare buono, che si è calmato. Gli operatori gli dicono che se sentono anche solo un’altra parola lo sbattono fuori e non lo fanno più entrare.
Ore 1:45
Leggo sul telefono un pezzo di Senza un soldo a Parigi e a Londra, il libro che George Orwell ha scritto dopo aver vissuto da senzatetto per alcuni mesi:
Ci sono alcune cose che, campando senza soldi, ho imparato bene: non penserò mai più che tutti i vagabondi siano furfanti ubriaconi, non mi aspetterò gratitudine da un mendicante quando gli faccio l’elemosina, non mi sorprenderò se i disoccupati mancano di energia, non aderirò all’Esercito della Salvezza, non impegnerò i miei abiti, non rifiuterò un volantino, non gusterò un pranzo in un ristorante di lusso. Questo tanto per cominciare.
Poi crollo.
Ore 3, -1 gradi
Mi sveglia il freddo. Chiedo un’altra coperta e mi metto un secondo paio di calzini che ho nello zainetto.
Ore 5:45, 1 grado
Il primo annuncio che proviene dagli altoparlanti è quello del treno per l’aeroporto di Fiumicino. Si ricomincia a sentire il rumore dei trolley trascinati dai viaggiatori. Mi tiro via dal letto perché vorrei andare a vedere se Omar è già in giro per San Lorenzo, so che si sveglia sempre intorno alle 5. Piego le coperte e le metto nel sacco nero dell’immondizia. Le porto ai ragazzi della cooperativa, ma c’è solo Daoud. Mi dice di aspettare: “Abasi sta arrivando con la colazione”. Mi offrono un po’ di caffè in un bicchiere di plastica, un pacchetto di biscotti e una crostatina all’albicocca. Ringrazio e saluto. Il caffè lo butto per strada perché sa di cenere.
Trovo Omar all’angolo tra via dei Ramni e viale di Porta Tiburtina. Indossa solo una felpetta con il cappuccio e un paio di jeans sfiniti. Cerchiamo un bar aperto per bere qualcosa di caldo e fare colazione. Per strada mangia i biscotti e la crostata che mi hanno dato a Termini. I bar sono tutti chiusi, e così propone di andare al Carrefour, che è aperto 24 ore su 24. Mi sembra strano che lì facciano il caffè, ma lui insiste: “Sì, costa 40 centesimi”. Davanti alle porte scorrevoli chiuse del supermercato Omar alza una mano in direzione di un uomo in divisa e lui si prende qualche secondo prima di aprire. Quando lo fa, Omar entra e saluta, ricambiato. Gli chiedo dov’è che fanno il caffè e con un cenno del capo indica un angolo alle nostre spalle, dove c’è una macchinetta. Poi si rimette a parlare da solo e la guardia non ci toglie gli occhi di dosso. Prendiamo due caffè e usciamo.
Per strada incrociamo una coppia che deve essersi conosciuta la sera prima e che ha fatto mattina. Stanno tornando a casa, forse insieme, lui dice “Allora lavori tutta la settimana e poi il sabato ti sbronzi?” e lei risponde “Non sempre”. Ridono, ci passano accanto come se non ci vedessero, noi comunque abbassiamo le teste.
Poco prima di arrivare a piazza dell’Immacolata, Omar si scusa perché ha un parassita nel cuore che gli impedisce di continuare a chiacchierare, saluta e si mette a cercare qualche pezzo di hashish per terra. Viene qui tutte le mattine – perché sa che è una delle piazze a Roma dove si spaccia di più e perché anche gli spacciatori a quest’ora dormono – e batte marciapiedi, sampietrini, fioriere. Prima di salutarlo, gli chiedo se andrebbe mai a dormire a Termini. “No”, dice. Ma è al chiuso, no? Meglio che stare per strada. “No, non è meglio”. Gli chiedo perché. “È complicato”, dice.
Per immaginare che non lo sia bisogna ridurre i senza dimora a un unico bisogno, quello di un tetto sopra la testa, e allontanare da sé l’idea che come tutte le altre persone abbiano una volontà, delle fragilità e delle paure che per esempio gli impediscono di dormire con altre decine di persone in posti sporchi, esposti allo sguardo degli altri e attraversati dalla violenza. Bisogna sapere che ci sono trentamila famiglie che vivono in occupazioni o condizioni precarie e relegare l’edilizia popolare all’ultimo posto dei propri pensieri, destinando solo il 4,3 per cento delle case sul mercato romano a un “affitto sociale”, mentre in Europa la media è del 13,7. Bisogna chiudere un occhio sugli sfratti che nella capitale cacciano di casa per morosità una persona ogni 279 abitanti, mentre in Italia la media è di una ogni 419. Bisogna, infine, immaginare di poter disporre dei corpi di chi vive o finisce per strada fino a pensare di annientarli con un trattamento sanitario obbligatorio, così da proclamare la guerra alla povertà e fare, o lasciar fare, la guerra ai poveri.
“È complicato”, dice Omar. Prima di girarmi le spalle fa uno di quei sorrisi che nascono da tante cose, ma non dalla felicità. Fa qualche metro, poi si piega dietro alla ruota di una macchina, un gesto che gli ho visto fare tante volte. Quando è fortunato trova qualcosa per rollarsi una canna.
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