Questo articolo è uscito il 2 agosto 2002 nel numero 448 di Internazionale, a pagina 27. L’originale era uscito su Libération.

Mio padre si chiamava Setrak. Era nato a Karputh, verosimilmente in un secolo che aveva solo otto anni e non manifestava ancora segni di follia. La sua famiglia faceva parte della comunità armena di Anatolia che all’epoca contava due milioni di anime. Mio padre è fuggito dal suo villaggio in una sera di aprile del 1915, dopo che un’orda di soldati, di gendarmi e di ausiliari curdi – i tchété che hanno assillato le nostre notti d’infanzia – ha invaso la fattoria in cui viveva una famiglia di trenta persone.

Questa gente viveva di poco, ma diversi testimoni affermano che si trattava di persone accoglienti, sempre pronte a offrire un tetto e un pasto ai viandanti che si guadagnavano il pane quotidiano in cambio di qualche giornata di lavoro. Preparare delle forme di sterco di vacca facendole seccare per il focolare dell’inverno era un’attività che occupava tutti permanentemente. Quattro mesi di neve con una temperatura che scendeva a dieci gradi sotto lo zero, e delle estati così calde da far spaccare i muri di argilla, paglia e sassi.

La casa aveva un tetto piatto, e il piccolo Setrak aveva scoperto il piacere di giocare con le palle di neve, perché ai bambini era affidato il compito di liberare il tetto dalla neve. Setrak raccontava anche di quando, durante l’estate, sguazzava nello stagno con una zucca secca legata in vita a mo’ di boa. Quel mondo si è dissolto in qualche ora. La casa era abituata alle incursioni di uomini in divisa che venivano a prelevare imposte particolarmente gravose per le famiglie armene, e che portavano via anche pecore e marmellate per migliorare il loro rancio. Come pure delle monete d’oro: di oro si parlava molto, e solo ora ne ho finalmente capito l’importanza.

Pietà filiale, passaggio obbligato di un lutto, bisogno tardivo di vedere se il sangue dei massacri si è essiccato? Non ho una risposta unica, ma ho sentito un bisogno imperioso di percorrere l’Anatolia, come se fosse arrivato il momento di calcare il suolo di questa terra misteriosa. E nelle città ho visto quest’oro grondare dalle vetrine dei gioiellieri. L’oro che tutti i contadini compravano con il ricavato del raccolto e che sotterravano nel punto più remoto della loro casa o in fondo al pozzo, in previsione dei giorni bui. Quel giorno del 1915 gli adulti hanno pensato di placare il furore dei gendarmi offrendogli le loro ricchezze. Ma neanche questo bastava: obbedivano ad altri ordini e avevano una missione ineludibile da portare a termine. Setrak è salito sul tetto e da una botola ha visto lo sterminio di tutti i suoi, i sussulti di suo padre, il cranio fracassato a colpi di pietre.

In quel momento il bambino è diventato adulto. Ha capito l’atmosfera pesante e i mormorii delle donne, le paure delle ultime settimane sulla piazza del mercato dove i turchi portavano alla cintura i loro lunghi pugnali ricurvi e guardavano gli “infedeli” con occhi sospettosi. È fuggito per un vagabondaggio che gli avrebbe fatto capire cosa sono il terrore, la fame, l’odore della morte, le zanne ferine. Per giorni? Per settimane?

Lingua morta
All’aeroporto di Elazig si respira un’aria di campagna, c’è molta gente che continua a occuparsi delle proprie faccende in tutta tranquillità. Un’ostinazione che già rimpiango mi ha spinto a compiere da solo questo strano pellegrinaggio. Pensavo che mi sarei fatto capire, mescolando le lingue, che avrei trovato un vecchio cicerone armeno che mi avrebbe raccontato la storia del mio villaggio. La realtà s’impone sempre in modo brutale: né in questi luoghi né altrove in Anatolia c’è ancora un’anima viva che parli la lingua che il potere dei Giovani Turchi (movimento riformista e ultranazionalista) ha ostinatamente e metodicamente cancellato, a partire dal 24 aprile 1915.

La città nuova si estende come un lungo nastro che percorre la vallata. Dovrò proprio far pace con questa sensazione di cantiere permanente, con i tondini di ferro che spuntano dappertutto, con le strade dissestate, e la polvere che avvolge tutto. Già in aereo le donne anziane coperte dal velo e le ragazze vestite secondo la moda occidentale mi avevano fatto ricordare che mi trovavo in un altro continente. Però questi uomini… Hanno un che di familiare.

Mi sembra di essere uno straniero che arriva troppo tardi per seppellire le sue illusioni

La forma dei loro baffi è indice, a quanto pare, del loro impegno politico. Di loro ho sempre sentito dire che erano nostri nemici.

A parte qualche frase di cortesia, non parlo il turco. Ma è una lingua che mi è familiare, che riconosco anche se non la capisco. Era la lingua segreta degli adulti, riservata a raccontare le sciagure dalle quali si volevano proteggere i bambini. Quanto all’autista del mio taxi che ha vissuto per alcuni anni in Germania, la nozione di quartiere armeno gli è oscura quanto il linguaggio dei semafori.

A parte l’eleganza dei minareti, l’esotismo dei negozi di “fotocopi”, gli “ambulans”, la “polis” e le cabine di “telefon”, la città trasuda noia non appena ci si allontana dall’opulenza del mercato che trabocca di legumi e di frutti estivi. Melanzane, peperoni, montagne di menta, angurie, ciliegie, albicocche e nespole (che chiamavamo yeni dugna): la cucina, i gusti e gli odori che mi pervadono mi stanno facendo rituffare nella mia Little Armenia di Marsiglia, dove gli esuli dell’Anatolia hanno ricreato i loro villaggi perduti. A dire il vero, e questo nonostante la familiarità dell’ambiente, non mi sento per niente a mio agio, oppresso dal fatto di assomigliare a un turista senza storia in quei luoghi dove la mia immaginazione riesce a scovare solo qualche piccolo frammento della barbarie passata.

Dismisura
Ci siamo lasciati alle spalle la città senz’anima per arrampicarci verso le alture della mitica Karputh. Karputh che mi hanno sempre descritto come un punto d’incontro importante per gli intellettuali armeni, una città dove un tempo si viveva in pace con i turchi in un paesaggio ricco di vigneti, di allevamenti di bachi da seta e di frutteti. Un luogo dove si dividevano le seterie, le fabbriche di tappeti, dove i conciatori di pelli vivevano fianco a fianco con gli artigiani che lavoravano il rame. Dai racconti dell’infanzia di Setrak mi sono fatta un’immagine smisurata del suo borgo. Mi raccontava della cinquantina di città e villaggi che erano legati al suo paradiso perduto dell’infanzia, delle sessanta chiese, dei nove monasteri. Karputh e la sua popolazione di quarantamila armeni che potevano disporre di novanta scuole.

La catena del Tauro svetta all’improvviso sul nostro orizzonte e la cittadella in rovina si staglia sull’alto delle montagne. La fattoria della mia famiglia si doveva trovare da quelle parti, avevo coltivato il sogno che un giorno mi sarei trovato sotto il tiglio a chiacchierare con i nipoti dei curdi, del tutto ignari delle spoliazioni.

Le sorgenti dell’Eufrate nella regione di Erzurum, Anatolia sudorientale, 1997. (Rainer Drexel)

Con la pianta dei luoghi tra le mani il tassista si addentra nelle stradine, ma le immagini impresse nella mia immaginazione si sfilacciano e le ricche abitazioni annidate ai piedi della scarpata scompaiono. Nella parte più bassa ci sono ancora i resti delle case in rovina, invasi dalle erbacce, dai papaveri che fanno venire la tristezza, dalle lucertole che s’infilano dappertutto. E grandi fosse che squarciano il paesaggio morto. La Karputh dei miei sogni è scomparsa. E con lei il prestigioso collegio dell’Eufrate che immaginavo simile al mio liceo, le missioni protestanti, la chiesa.

Mi sono seduto ai piedi della montagna per impregnarmi del paesaggio dei miei, stringere tra le mani le foglie lanuginose del cotogno, inebriarmi del colore dei melograni, ritrovare il profumo degli alberi di fico. E mi sembra di essere uno straniero che arriva troppo tardi per seppellire le sue illusioni. Devo guardare ancora i noci e gli olivi, riscaldare le mie mani sulle pietre coperte di muschio. Tracce di un ambiente che i miei hanno guardato, calpestato sotto i loro piedi. Forse Setrak
si sarà arrampicato su uno di quegli alberi, un po’ meno alto, in questa luce stranamente provenzale. È là che i bambini giocavano nelle loro capanne? Nella vallata la costruzione di una diga ha sconvolto tutto il paesaggio, e i contadini che si sono arricchiti con i terreni espropriati si sono fatti costruire delle abitazioni di quattro piani, degli “apartman” di tipo cittadino.

Fifty-fifty
Il tassista ha finalmente compreso la mia ricerca e si ferma davanti a delle case dove non risuonano voci, ma io non oso varcarne la soglia. Brilla solo l’immagine del televisore, annunciato dalle parabole che ricoprono i tetti piatti di quest’immutabile architettura di terra. Alcuni giovani vengono verso di noi. I Geld, i “soldi” tedeschi, i gesti, i segni tracciati sul suolo, ma soprattutto il ricordo dei racconti ascoltati con scetticismo, mi fanno capire che per loro io sono uno di quegli armeni che hanno in tasca i punti di riferimento, una mappa, un albero, un pozzo che indica dove è sepolto il tesoro.

Attraverso gesti punteggiati dalle parole “fifty-fifty”, mi fanno capire che si può fare a metà, che loro sono abituati a trattare con i Kharpertsi di Los Angeles, eredi delle grandi famiglie che avevano introdotto la fotografia e la stampa nell’Impero ottomano.

Qui si pubblicava un quotidiano che prendeva posizioni politiche e che alimentava dibattiti e polemiche: nelle mie fantasticherie ho immaginato che in quei luoghi si potevano ancora trovare, nascosti da qualche parte, i caratteri di piombo nelle loro casse, i fantasmi dei tipografi, la loro allegria mentre fumavano le sigarette che dividevano tra loro, il senso di fierezza che dovevano provare guardando l’ultima bozza del giornale.

Sì, in quei luoghi c’è stata una civiltà. E le civiltà possono essere annientate da cause di varia natura, non solo dai terremoti.

Mai più
Mio caro Setrak, sono scappato, lasciandomi alle spalle dei luoghi pieni di rovine dove non metterò mai più piede. Né con mio figlio né con i miei nipoti, che adesso sono apparsi nella mia memoria in fiamme. Ho anche un po’ pregato perché i cercatori di tesori armeni mi lasciassero in pace e non mi seguissero fino all’aeroporto e ti ho ringraziato per non avermi mai parlato di oro, salvo quando il giorno del mio matrimonio, mi hai regalato un napoleone d’oro raccomandandomi di custodirlo con cura.

Non so per quanto tempo hai costeggiato l’Eufrate, sfuggendo da quelli che volevano farla finita con tutti gli armeni. Anche lì non riconosceresti più gli argini e nemmeno i fiumi che oggi vengono canalizzati per alimentare la diga. L’Eufrate, tu ne parlavi come di una distesa d’acqua insormontabile, tu che ti eri legato in vita delle zucche disseccate per lanciarti verso l’ignoto della sopravvivenza.

Da Karputh a Marsiglia
Non so in grazia di quale miracolo sei arrivato fin qui. Sono nel cortile del tuo orfanotrofio nel quartiere di Chichli, a Istanbul. Il sole infrange anche le emozioni e sorrido nel vedere il custode che dalla sua garitta sorveglia l’ingresso del pensionato e le sue pecore che pascolano al centro della città, quasi per niente turbate dal gregge dei taxi gialli che fa risuonare i suoi sonagli lungo i viali.

Superato il busto di Atatürk posto davanti all’impeccabile facciata rosa e bianca, mi lascio avvolgere dalla frescura dell’atrio: gli enormi gradini che ti colpivano tanto sono sempre lì, e la ringhiera in ferro battuto è ben conservata, come i rubinetti di rame che le tue dita devono aver toccato in questa strana sala delle abluzioni di moschea. L’orfanotrofio che Dikran effendi Karagueuzian ha creato dopo i massacri di armeni nella sua città di Adana. Era il 1908 e un’ondata di nazionalismo delirante si diffondeva quasi si trattasse di una prova generale.

Karputh, l’Eufrate, Istanbul, Marsiglia. Che fede devi aver avuto, mio caro Setrak, per avermi insegnato il perdono e la tolleranza fino all’ultimo istante della tua vita.

La piccola rosa del deserto

Güldene, che sarà l’ultimogenita della famiglia Tarnedjan, stando ai suoi documenti d’identità è nata a Karakagoub, in Asia minore. Quando da adolescente dovevo leggere lettera per lettera per la polizia i nomi del padre, della madre, i loro luoghi di nascita, più che straniero mi sentivo strano. La piccola rosa, così i curdi avevano soprannominato mia madre, era venuta alla luce nel giugno 1914, un anno prima dell’inizio della fine per gli armeni di Anatolia.

Durante tutta la sua vita, questa bellissima donna dagli occhi chiari ha fatto finta di non sapere nulla della sua sopravvivenza miracolosa. Come se fosse stata colta da amnesia. Non soltanto non si lamentava mai, ma ringraziava il cielo per ogni giorno che le donava. Oggi sono certo che custodiva il suo segreto perché nessuna ombra
venisse a incrinare la felicità dei suoi tre figli. Ma sapeva: i suoi occhi si riempivano di lacrime ogni volta che si parlava di un viaggio o di una storia che si svolgeva in un deserto. Deserto senza limiti che fu per la sua generazione la lunga marcia verso la soluzione finale.

Per troppo tempo ho fatto come lo struzzo, nascondendo la testa sotto la sabbia di un’ignoranza appena sopportabile. Fino al giorno in cui…

Nel deserto
Güldene era morta da poco. Nel tempio del quartiere di Saint Loup, dove abitavamo a Marsiglia, risuonavano ancora gli accordi dell’armonium e l’eco di Più vicini a te, Signore. Azniv Kouyr che svolgeva la funzione di custode mi portò con sé nell’oscuro sottosuolo dove abitava. Con lei c’era Yersa Moussa, una donna minuta dagli occhi di topo, sempre molto riservata. I loro volti solcati da troppi dolori terrorizzavano i miei figli.

Yersa Moussa aveva scelto questo momento per liberarsi dal suo segreto, lei che passava pomeriggi misteriosi con mia madre, a leggere la Bibbia e a pregare. Senza preamboli mi trasportò nel deserto di Der es Zor, in Siria, in un tardo pomeriggio.
La colonna degli esiliati vestiti di stracci avanza lentamente nella sabbia dei destini. La piccola Güldene non smette di piangere tra le braccia di sua madre che non può allattarla e che non riesce a trovare una goccia d’acqua per calmare i suoi spasmi. La compassione delle madri, i lamenti che implorano un cielo muto, ritardano la marcia della carovana. I gendarmi turchi strappano la neonata dalle braccia della mamma e la sotterrano rapidamente nella sabbia, trascurando di darle una pugnalata al cuore come fanno di solito con i lattanti.

Alcuni giorni dopo la stessa Yersa Moussa, creduta morta, sarà abbandonata e sopravviverà grazie a dei missionari evangelici americani che seguono le colonne di esiliati, fanno tutto il possibile per salvarli, pagando i gendarmi addetti alla scorta. Sotto le tende dove sono curati i feriti, la ragazzina viene a sapere che l’auto si è fermata vicino a un monticello. I missionari hanno sentito la sabbia che piangeva e hanno dissotterrato Güldene.

Un pugno di terra
La bara è stata chiusa. La vettura nera adornata con qualche fiore attraversa il quartiere per poi imboccare la strada del cimitero dove vado a gettare un pugno di questa terra che è diventata ormai troppo pesante per le mie forze.

Mi ci è voluto più di un anno di lutto prima di avere la forza di fare altre domande a Yersa Moussa per appropriarmi di un racconto che aumenterà il mio sentimento di precarietà, e mi farà ricordare che al liceo un professore esasperato mi aveva detto in faccia con astio: “Lei, lei viene dal nulla”.

Aveva ragione, così come avevano ragione i pastori che facevano di tutto per convincerci che il passaggio su questa terra è solo una tappa dolorosa.

I fondi del caffè
Con il tempo sono riuscito a procurarmi dei nomi, degli indirizzi di testimoni, e mi sono ritrovato a Istanbul nel quartiere di Kurtuluch, là dove da sessant’anni l’aristocrazia armena ha preso il posto degli ebrei cacciati dalla Turchia.

Mi hanno portato di casa in casa, ci siamo abbracciati, abbiamo bevuto del tan, una bevanda a base di yogurt e acqua ghiacciata, abbiamo bevuto il caffé, cosa che non si può non fare prima di accomiatarsi, e la lettura dei fondi di caffé ha rivelato la buona riuscita della mia missione.

Urfa, 1997. La città, vicina al confine siriano, ospitava una vasta comunità armena. (Rainer Drexel)

Il deserto è molto distante dalla casa luminosa dove, insieme alla mia ospite Aghavnie, convivono quattro generazioni. Questa donna quasi centenaria, si ricorda nei particolari della carovana composta da diverse centinaia di persone.

Il gruppo al quale apparteneva ha camminato per due anni in una colonna che si separava ogni giorno dai suoi morti e alla quale, di villaggio in villaggio, si aggiungevano sempre nuove persone. Il nome di Karakagoub, il villaggio di Aghavnie, è stato cancellato dalle carte geografiche moderne. E le denominazioni che iniziano con “kara”, che significa nero, sono moltissime in Anatolia.

Se la memoria di Aghavnie non s’inganna, se la storia del salvataggio miracoloso è proprio quella di Güldene, allora la famiglia Tarnedjian è stata spinta nella carovana a Karacadaj, tra Diyarbakir e Urfa, là dove ancor oggi ho percorso centinaia di chilometri attraverso le steppe e le montagne aride senza incontrare anima viva.

In un autobus Mercedes, il re delle strade turche, o in un pulmino Ford Transit, che ne è il principe, oppure in una stationwagon Renault 12 Toros, il più fedele servitore, non sono mai riuscito a immaginarmi colonne di morti viventi in questo scenario fatto di villaggi stupiti dall’arrivo di viaggiatori sconosciuti alla ricerca di una bottiglia d’acqua minerale fresca. Sì, mia buona Aghavnie, ho cercato in quei luoghi dell’acqua fresca. Il caffé nero fuma nel djezvé, il bricchetto di rame, e brucia le dita che tengono il fildjan, la tazzina di porcellana.

Questo caffé turco simbolo dell’ospitalità armena. Dà serenità anche la luce che si stende sui mobili dai piedi affusolati, verniciati impeccabilmente, e coperti da centrini ricamati. Ai muri un alfabetario multicolore, un quadro con il monte Ararat e gli oggetti di artigianato usati dal potere sovietico come ambasciatori della madrepatria presso le famiglie della diaspora.

Briganti
Aghavnie continua il suo racconto. La vita quotidiana, l’agitazione, la paura delle bande di briganti non appena cala la sera. Quando si fa buio. E poi i cavalieri che si fermano, discutono a lungo con i gendarmi: dei turchi, dei curdi amici delle famiglie deportate che hanno trovato le monete d’oro e che corrono di città in villaggio per portare un po’ di cibo e di vestiti. A volte sono costretti a comprare i bambini per metterli in salvo. No, dice Aghavnie, la nostra carovana non era un campo di concentramento.

I soldati che ci conducevano verso la morte cambiavano a ogni tappa, e i nostri salvatori potevano ritornare alla carica per fare nuove trattative con altri carnefici, e tra loro c’era anche chi provava compassione per il nostro miserabile gregge. C’erano uomini che avevano avuto amici armeni, c’erano uomini che non condividevano gli ordini ricevuti che gli imponevano di essere crudeli e di tormentarci. All’alba si faceva la conta delle ragazze che mancavano, rapite dai soldati nel migliore dei casi, e nel peggiore portate via dai saccheggiatori.

Questi, prima di sgozzarle, si prendevano gioco di loro: tutti crimini rimasti impuniti perché nessuna legge proteggeva gli armeni. Realizzo che nonostante tutto quel che ho letto, quel che ho sentito, è la prima volta che mi trovo di fronte un testimone oculare, una sorta di monumento alla dolcezza, e ogni sua ruga aggiunge un po’ di
fredda credibilità a quel che è stato. Sono fiero di capire questa vecchia lingua con la quale Aghavnie racconta. E ritrovo il pudore che impedisce alle donne di pronunciare la parola “stupro”, come se si riferisse a qualcosa di più tremendo della morte, lasciando intendere che avevano ragione le donne che si uccidevano piuttosto che trovare scampo nel letto di un turco.

Così come avevano ragione quelle madri che affidavano i loro neonati a una famiglia curda pur di non lasciarli nelle mani della soldataglia.

La porta di Aghavnie è quindi quella buona, lei che ha allevato figli e nipoti nella memoria che diventa tanto più forte in quanto vive in un ambiente che le ricorda il martirio subìto dalla sua terra. Lei che non se l’è mai sentita di tornare sui luoghi di un’impossibile nostalgia. Si scusa perché gli anni hanno portato via il ricordo di tanti dettagli. La parola cane, usata per designare i carnefici è scomparsa dal suo vocabolario: tutti i bambini ronzano intorno a questa dolcissima donna, e le portano ogni giorno un po’ di sollievo a quel dolore che per molto tempo ha pensato che fosse impossibile comunicare.

Ma ne ha sempre parlato. Ancora l’anno scorso, in visita da un figlio in Uruguay, ha accettato di sedersi per ore intere davanti ai microfoni di una stazione radio per raccontare la terribile marcia a degli ascoltatori che ignoravano quel che era avvenuto a Der es Zor.

Alla frontiera siriana
Güldene non ha mai voluto raccontare. Credeva solo nel silenzio e nella parola divina, uniche verità capaci di proteggere la sua discendenza da quegli orrori. Si vergognava di essere sopravvissuta? Perché ha tenuto per sé i suoi segreti? Cammino per le strade di Kilis e aspetto il pulmino che mi porterà alla frontiera siriana. So che prima di essere sistemata in un orfanotrofio di Aleppo, la piccola Güldene è stata accolta da una famiglia curda della città, dove ha imparato l’arte di annodare i tappeti. Non so nient’altro e non ci sarà nessun miracolo.

La città, capitale del bakhlava, delizioso dolce orientale fatto con miele, noci e pasta sfoglia, diventa più gradevole alla vista di un gruppo di ragazzi dall’aspetto spensierato e gioioso. Nel vecchio quartiere armeno, la cattedrale finita nel 1892 da Sarkis Balyan è stata trasformata in moschea dopo un periodo in cui veniva utilizzata come prigione. Per quattro secoli, ebrei, cristiani e musulmani hanno vissuto pacificamente in questa città aperta, dove i commerci non erano tassati.

Non ho più voglia di partire nella notte verso una nuova frontiera, un deserto disseminato di ossari

Oggi alcuni commercianti sono diventati invalidi a causa delle mine che straziano i piedi dei contrabbandieri. Sedika, una giovane architetta, si lamenta della civiltà del cemento che sfigura la sua città. Mi fa notare, dietro ai portali e all’interno dei cortili di alcune case, il nome armeno del proprietario scolpito nella pietra, sormontato dal banale “Dio protegga la mia casa” che acquista qui un significato del tutto particolare. Mi assicura che dei colleghi hanno rilevato la pianta di cinque chiese prima che venissero distrutte, le loro pietre dovevano servire per la costruzione del nuovo commissariato.

Comincia a cadere la notte portando con sé l’inquietudine. Sotto le luci al neon penso al mio incontro mancato di Kharput. All’improvviso mi accorgo che non ho più voglia di partire nella notte verso una nuova frontiera, un nuovo orfanotrofio, un deserto disseminato di ossari. Mi dico, per giustificare la mia debolezza, che a Güldene non avrebbe fatto piacere vedermi percorrere le tracce lasciate dal suo segreto a Der es Zor e Aleppo. O correre dietro ai fantasmi della sua terra che non cessa di gemere nelle mie orecchie.

Prima di morire, Yersa Moussa mi aveva affidato la sua memoria.

(Traduzione di Olga D’Amato)

Questo articolo è uscito il 2 agosto 2002 nel numero 448 di Internazionale, a pagina 27. L’originale era uscito su Libération.

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