Sulle tracce di Michelangelo Antonioni in Cina
La donna avrà avuto più o meno ottant’anni. Seduta dall’altro lato del corridoio sul treno superveloce Shanghai-Pechino – 1.350 chilometri in meno di cinque ore – allungava il collo attirata dalle immagini sullo schermo del computer che avevo di fronte, cercando però di non darlo a vedere. Il resto del vagone sonnecchiava, mentre fuori dai finestrini giungle di palazzoni si alternavano a impianti industriali e alla campagna disordinata che circonda le città cinesi. Nella carrozza ristorante, occupata da un gruppo di pensionati e dai loro thermos di tè, era in corso un torneo di carte. Considerata l’età della donna, le immagini che tenevano il suo sguardo incollato al mio computer dovevano esserle familiari. Con la stessa finta indifferenza, girai il portatile in modo che potesse sbirciare meglio.
Avevo trovato una copia di Chung Kuo, Cina, il documentario girato in Cina da Michelangelo Antonioni nel 1972, in uno dei tanti negozi di dvd piratati di Shanghai, dove accanto agli ultimi blockbuster si potevano trovare film d’essai e alcune rarità della cinematografia mondiale in confezioni più che dignitose e a prezzi irrisori. Era il 2013 e in Cina il boom dei film online sarebbe arrivato di lì a poco.
Prima ancora che l’opera di uno dei giganti della storia del cinema, Chung Kuo, Cina è uno dei pochi materiali video girati nella Cina di quegli anni disponibili oggi, un documento prezioso per chi dell’epoca di Mao Zedong e della rivoluzione culturale ha sentito solo i racconti da genitori e nonni. Senza sapere chi sia Antonioni, né il titolo del film, molti cinesi di venti o trent’anni conoscono quelle immagini dai frammenti di un documentario oggi disponibile in rete, ma fino a pochi anni fa introvabile nel paese. Bandito dalle autorità di Pechino, Chung Kuo, Cina è stato proiettato per la prima volta in Cina solo nel 2004, dopo una riabilitazione del suo autore arrivata molto tardi.
La storia del film che Antonioni realizzò per conto della Rai s’intreccia con quella della Cina e del suo Partito comunista, e oggi anche con quella di un altro film, girato da una casa di produzione indipendente di Pechino nei luoghi di Chung Kuo, Cina per vedere come sono cambiati, e com’è cambiato il paese che sei anni dopo la visita di Antonioni si aprì all’economia di mercato.
Nemico del popolo
L’idea di andare a girare un documentario nella Cina di Mao era stata del regista italiano. Invitato nel 1970 a lavorare per la tv da Furio Colombo – allora responsabile dei programmi culturali della Rai – Antonioni accettò solo a patto di andare nel paese a cui l’intellighenzia di sinistra delusa dal modello sovietico, in Francia e in Italia soprattutto, guardava con speranza. L’Italia e la Cina avevano avviato le relazioni diplomatiche solo da un anno e Zhou Enlai, allora capo del governo, voleva far uscire il paese dall’isolamento. L’idea, quindi, gli piacque, e dopo due anni di trattative l’ambasciata cinese diede il via libera. Partirono in sei: Antonioni, la giovane assistente alla regia Enrica Fico, che in seguito avrebbe sposato il regista, Furio Colombo con la moglie, il giornalista Andrea Barbato e il direttore della fotografia Luciano Tovoli.
Fico racconta che quando Antonioni le propose di andare in Cina lo conosceva da quattro mesi: “Fu la realizzazione di un sogno. All’epoca a Milano partecipavo alla contestazione studentesca e per noi il maoismo era un modello”. Come avrebbe poi spiegato in un’intervista ad Alberto Arbasino, Antonioni non voleva fare un film politico: “Non è la mia materia, né un modo a me congeniale di guardare il mondo”. Il regista voleva mostrare come si viveva in un paese comunista, e per farlo si concentrò sulle persone, esattamente come aveva fatto nei suoi primi due documentari: Gente del Po, undici minuti sulla vita dei pescatori che lavoravano e vivevano sul fiume, uscito nel 1947; e N.U. – Nettezza urbana, uscito l’anno dopo, sui netturbini di Roma.
Come scrive Antonioni nella prefazione alla sceneggiatura di Chung Kuo, Cina, uscita per Einaudi nel 1974:
Ricordo di aver chiesto ai miei ospiti che cosa secondo loro simboleggiava più chiaramente il cambiamento avvenuto dopo la Liberazione. ‘L’uomo’, mi avevano risposto. So che (…) parlavano della coscienza di un uomo, della sua capacità di pensare e vivere giustamente. Tuttavia quest’uomo ha anche uno sguardo, un volto, un modo di parlare e di vestirsi, di lavorare, di camminare nella sua città o nella sua campagna. Ha anche un modo di nascondersi e di voler sembrare, talvolta, migliore o comunque diverso da quello che è. È una presunzione avvicinarsi a questa moltitudine di uomini girando in ventidue giorni trentamila metri di pellicola?
Le immagini, accompagnate da una voce narrante che interviene con discrezione e commenti essenziali, furono accolte da giudizi contrapposti: non esaltavano a sufficienza la rivoluzione secondo i filomaoisti italiani, non criticavano abbastanza il comunismo secondo i moderati. Ma la reazione più violenta arrivò da Pechino: Antonioni e il suo documentario furono vittime di una lotta di potere in corso allora all’interno del Partito comunista cinese. Da una parte Zhou Enlai, favorevole a una maggiore apertura della Cina al mondo, e dall’altra la “Banda dei quattro”, con Jiang Qing, moglie di Mao, e i responsabili della propaganda, intransigenti depositari del maoismo e sostenitori della rivoluzione culturale ancora in corso.
Prevalse la linea dei duri e puri, secondo cui il film di Antonioni invece di ritrarre i progressi della nuova Cina dipingeva un paese povero e arretrato. Non aiutò il fatto che il progetto avesse avuto l’avallo di Zhou Enlai in persona. Così, nonostante il documentario fosse piaciuto ai funzionari dell’ambasciata cinese a Roma, in Cina fu messo al bando e nel 1974 Antonioni fu dichiarato “nemico del popolo cinese”, oggetto di una campagna nazionale in cui quasi quotidianamente i cittadini erano chiamati a dichiarare il loro disprezzo per un film mai visto, fatto da un italiano sconosciuto.
Il clima surreale di quel periodo è reso bene da un aneddoto raccontato dalla giornalista inglese Isabel Hilton, che all’epoca studiava all’università di lingue e culture straniere di Pechino:
La campagna diventò nazionale e denunciare Antonioni un rito quotidiano per i nostri compagni di studi cinesi. In maniera inusuale, l’ufficio per gli affari esteri dell’istituto ci chiamò a partecipare a una riunione per discutere del film in cui elencarono la lista di crimini contro la Cina commessi dal regista italiano. Eravamo in difficoltà: non volevamo scontentare i nostri ospiti, ma non potevamo nemmeno concordare o meno sulle critiche perché non avevamo visto il film. Ci dissero che vedere il documentario era fuori questione. Milioni di cittadini lo stavano denunciando senza averlo visto, ci dissero. Perché non potevamo farlo anche noi?
La proiezione di Chung Kuo, Cina alla Biennale di Venezia fu un caso “tra la fantascienza e la commedia all’italiana, con un pizzico di western”, scrisse Umberto Eco nel 1974:
“Dentro il recinto dei carri stavano Ripa di Meana (allora presidente della manifestazione, ndr) con gli uomini della Biennale, in una disperata resistenza. Intorno, a carosello cavalcavano il governo cinese, il ministro italiano degli esteri, l’ambasciata italiana a Pechino, l’associazione Italia-Cina, la polizia, i pompieri e alcuni filocinesi sciolti. La storia è nota, la Cina protestava per l’imminente proiezione alla Fenice del documentario di Antonioni Chung Kuo, il governo italiano aveva fatto di tutto per impedire l’evento, la Biennale aveva resistito in nome del diritto all’informazione e all’espressione artistica, all’ultimo momento il prefetto di Venezia, correndo in aiuto alle autorità di Pechino, aveva scoperto che la Fenice era inagibile come sala cinematografica (dopo che da una settimana non si faceva altro che proiettarvi film), Meana spendeva nel corso di una conferenza stampa poche e sentite parole di ‘pena’ per il signor prefetto, (…) si attaccava al telefono coi suoi collaboratori, in mezz’ora liberava la sala del cinema Olimpia (…), e quivi avveniva la proiezione mentre la polizia teneva a bada una folla strabocchevole e tesa (…). Antonioni, nervoso e sconvolto, soffriva ancora una volta il suo personalissimo e paradossale dramma di un artista antifascista che era andato in Cina animato da affetto e rispetto e che si trovava accusato di essere un fascista, un reazionario al soldo del revisionismo sovietico e dell’imperialismo americano, odiato da ottocento milioni di persone.
Enrica Fico racconta che il regista ne fu “completamente distrutto” e che quando nel 2004 il documentario fu proiettato per la prima volta a Pechino “è stato felice. Se fosse stato in grado di parlare sarebbe andato alla proiezione a discutere con il pubblico”.
Un errore
Oggi in Cina la rivoluzione culturale è il ricordo lontano di un errore, mentre è celebrato a dovere il 40° anniversario delle riforme avviate da Deng Xiaoping, che aprirono la Cina all’economia di mercato portandola a diventare la seconda potenza mondiale. Ogni sera, da mesi, lo skyline di Shenzhen s’illumina di luci colorate in uno spettacolo pirotecnico senza fuochi d’artificio, ma con i grattacieli trasformati in fasci luminosi puntati verso l’alto.
È il modo in cui la città celebra orgogliosa i valori che incarna: era il 1978 quando il governo cinese inaugurò l’era del “socialismo con caratteristiche cinesi”, affermando che “arricchirsi è glorioso”, e due anni dopo sperimentò qui l’apertura all’economia di mercato, prima di estenderla al resto del paese, creando una zona economica speciale.
Gli investitori da Taiwan e dalla vicina Hong Kong arrivarono a frotte, dando il via al miracolo cinese. Sei anni prima, quando Antonioni aveva messo piede in Cina passando proprio dalla colonia britannica che nel 1997 sarebbe tornata sotto il controllo cinese, Shenzhen non era altro che campagna.
Oggi è una metropoli di quasi tredici milioni di abitanti, nota come “la Silicon Valley cinese” per via della concentrazione di grandi aziende tecnologiche. Ci arriviamo a metà settembre al termine di un viaggio cominciato a Pechino alla fine di agosto insieme alla troupe del documentario: il regista Liu Weifu, i due cameramen Zhang Jingyu e Xu Peng, e il giornalista italiano Gabriele Battaglia.
Linzhou, Henan
La prima tappa è Linzhou, nello Henan, il cuore rurale della Cina, una città di un milione di abitanti e specchio di un paese in transizione. Linzhou è una città-contea, cioè una città che amministrativamente comprende sia una zona urbana sia una rurale, con diversi villaggi. Non più la “terra di villaggi arcaici e di vita completamente fuori dal tempo” descritta da Antonioni, dove “l’arrivo di un europeo provoca immenso stupore”, ma comunque un posto dove non è raro che si fermi una persona straniera per chiederle un selfie.
Ci arriviamo in macchina da Anyang, il capoluogo della regione a tre ore di treno da Pechino, la cui stazione si affaccia su un piazzale dalle dimensioni esagerate. Nell’urbanistica della Cina moderna, la monumentalità continua a essere un elemento essenziale, e la grandiosità espressa da questo immenso spazio vuoto, vietato alle auto e solo pedonale (da tenere a mente quando si ha un treno da prendere carichi di bagagli), si dissolve nella desolazione del contesto. Una strada dritta a quattro corsie che costeggia la stazione la separa da una grande area in corso di “riqualificazione”: i rendering stampati sulla staccionata alta due metri che ne impediscono la vista promettono una città nuova con il cielo blu, grattacieli scintillanti da minimo trenta piani e tanto verde curato dove le famiglie potranno vivere felici come quella sorridente ritratta nel poster, giusto il tempo di finire i lavori.
Nell’attesa, in sella a uno scooter parcheggiato lì davanti, una coppia – lui a torso nudo, lei in ciabatte con in braccio un neonato avvolto in un fagotto – aspetta annoiata le jianbing, delle specie di crêpe, che una venditrice ambulante sta cuocendo su una piastra a gas montata su una motoretta.
Il governo spera di colmare la distanza tra il poster e la realtà disseminando il paese di progetti di riqualificazione urbana e ricollocando gli abitanti delle vecchie case in moderni condomini con la luce e l’acqua corrente. È il destino di chi abita nelle città di provincia, o nei quartieri vecchi di metropoli come Pechino e Shanghai. Negli ultimi anni, infatti, in Cina si è versato più cemento che negli Stati Uniti in tutto il novecento. Oggi è un altro paese rispetto a quello visitato da Antonioni all’inizio degli anni settanta, certo, ma nonostante sia ormai la seconda economia mondiale ha ancora da risolvere un grande problema di distribuzione della ricchezza, e il fatto che si trovi a metà tra paese in via di sviluppo e paese ricco è visibile soprattutto nelle città medio-piccole come Anyang e nelle zone rurali come quelle intorno a Linzhou.
Dacaiyuan
Negli anni settanta, Dacaiyuan (pronuncia Tatsaiyuan) era in condizioni migliori rispetto ad altri villaggi della zona: grazie al Canale Bandiera rossa – un sistema d’irrigazione per un totale di 1.500 chilometri ancora adesso orgoglio della regione – c’era l’acqua. Oggi il villaggio è un’enclave recintata in mezzo alla città. La parte più esterna, vicino all’ingresso, è già stata demolita, e il terreno ripulito dalle macerie delle vecchie costruzioni è ricoperto dalla rete di plastica scura ormai tipica del paesaggio cinese. L’odore di fogna proveniente dai rivoli che costeggiano la strada in cemento spegne ogni tentazione nostalgica rispetto ai bei tempi andati e rende più accettabili i palazzoni tutt’intorno, che incombono sulle vecchie case basse con il tetto a pagoda e i mesi contati. La riqualificazione presto inghiottirà anche l’ultima reliquia di Dacaiyuan, una casa di fango disabitata che ricorda come si viveva fino a pochi anni fa.
Ma Yongxi, il presidente del comitato rivoluzionario del villaggio che aveva accompagnato Antonioni in giro per la comune agricola, oggi ha ottant’anni e vive ancora nella sua casa a due piani tipica delle campagne. Ambienti spaziosi e spogli che si sviluppano intorno a una corte, alla parete della camera da letto-soggiorno un grande poster di Mao e poco altro, un po’ casa, un po’ magazzino per gli attrezzi, un po’ dispensa. Nel gennaio 2019 Ma si trasferirà con la moglie in un grande appartamento nella torre in costruzione lì vicino, appena fuori dall’enclave. Come gli altri abitanti del villaggio, riceverà il triplo dei metri quadri che possiede oggi: nel suo caso, tre appartamenti dove sistemerà anche due dei cinque figli che vivono ancora a Dacaiyuan. Non gli dispiacerà lasciare la casa dove ha vissuto tutta la vita? No, per niente. Lì finalmente avranno riscaldamento, elettrodomestici e una vita più comoda.
Il suo vice di allora, Ma Dongsheng, ha già fatto il salto mesi fa. Sette anni meno del vecchio Ma, lo troviamo che gioca a carte con gli amici, seduto a uno dei tavolini da campeggio sistemati ai piedi delle torri color caffelatte dov’è stato trasferito insieme ad altri abitanti del villaggio. La dimensione comunitaria si è ricomposta su quel marciapiedi, diventato una specie di centro anziani a cielo aperto, nato spontaneamente in barba all’isolamento della vita di città.
Ma Dongsheng abbandona la partita e ci fa strada verso il comprensorio dove vive. L’appartamento al settimo piano è molto grande: ci fa accomodare nel soggiorno illuminato da una grande finestra che dà sulla torre di fronte. Si siede su una poltrona in finta pelle che massaggia anche i piedi, il pavimento bianco è lucido e alla parete un calendario digitale segna ora, temperatura e umidità con l’immagine di una cascata in un paesaggio idilliaco retroilluminato.
“È come vivere in paradiso”, ammette. “Negli anni settanta un abitante di Dacaiyuan guadagnava cento yuan all’anno e le uniche cose che possedeva erano un orologio, una bicicletta, un telaio e una radio. Oggi il reddito medio è salito a diecimila yuan, abbiamo l’aria condizionata, l’auto, quasi tutto quello di cui un cittadino ha bisogno. L’80 per cento degli abitanti del villaggio ha un’auto di proprietà: nella mia famiglia ne abbiamo addirittura tre”.
Nel suo documentario Antonioni aveva filmato una riunione del comitato rivoluzionario locale presieduta dai due Ma, in cui si leggevano e commentavano delle frasi di Mao dopo il lavoro nei campi. “Allora dovevamo farlo quasi ogni giorno, serviva a ispirare il lavoro, ma dopo l’apertura abbiamo smesso”, racconta ridendo l’ex vicepresidente del comitato riferendosi alle riforme economiche di Deng Xiaoping. “In quella Cina, Mao andava bene, oggi va bene Xi Jinping”.
Rencun
A pochi chilometri da Dacaiyuan, lungo una strada dritta che esce da Linzhou e va verso la campagna, c’è Rencun (si pronuncia Renzun), un villaggio per ora risparmiato dallo sviluppo urbano. Su un muro bianco all’ingresso del villaggio, una grande scritta rossa recita: “Prendiamoci cura dei poveri. Lavoriamo insieme per dare alla gente una vita migliore”.
Ecco, questo posto si avvicina molto al racconto di Antonioni: “Un uomo si nasconde dietro una casupola di pietra, cercando di guardare senza farsi vedere, poi esce guardando un po’ incuriosito e un po’ attonito verso la camera”, scriveva il regista nelle note a margine della sceneggiatura. “Un gruppo di bambini fugge all’avvicinarsi della macchina da presa. Tre bambine appoggiate ad un muro: hanno un’espressione curiosa e spaurita insieme. Altra gente si affaccia sugli usci, uomini, donne, bambini”.
Sono passati 46 anni ma più o meno è quello che potremmo scrivere anche noi del nostro arrivo nel villaggio, che alle dieci di mattina sembra deserto. Mentre camminiamo tra le case di fango – qui ce ne sono ancora tante – un gruppo di bambini ci segue a distanza, spiandoci dai portoni quando entriamo a curiosare nei cortili.
Arriviamo a casa di Zhao Guolin, ripreso nel 1972 dalla telecamera di Antonioni. La casa è fatta di due stanze con il pavimento di cemento. Su un mobile qualche statuina di Budda, bandiere rosse e un piccolo ritratto di Mao. Qualcosa non va, perché Zhao è furioso. Urla di spegnere la telecamera e di andare via perché non vuole essere intervistato. Sembra una messinscena, l’uomo urla agitando le braccia mentre i cameramen non sembrano molto preoccupati. Entrano in casa anche i bambini, incuriositi dal baccano. Arriva la moglie di Zhao. L’uomo si calma solo quando il regista gli mostra il fotogramma di Chung Kuo, Cina in cui c’è lui giovane con in braccio la figlia neonata. “Avevi 22 anni”, commenta la moglie.
L’uomo riprende a urlare, deve farsi sentire dai vicini. Il problema, mi spiegheranno poi, è che già due troupe televisive sono andate a intervistarlo e i compaesani pensano che lui si faccia pagare. Una questione di invidia e malelingue che si rivela insormontabile. Ci lasciamo in tono cordiale.
L’orgoglio della regione, si diceva, è il canale Bandiera rossa, opera mastodontica scavata a mano in dieci anni, lunga 1.500 chilometri (così recita la propaganda, ma nessuno l’ha mai misurata) e inaugurata nel 1970 per portare acqua nella zona rocciosa e far fiorire l’agricoltura. I funzionari del Partito comunista che accompagnarono Antonioni e la sua troupe in giro per il paese si accertarono che non mancasse di visitare il fiore all’occhiello del Grande balzo in avanti, oggetto di propaganda in Cina e all’estero, e ancora oggi la principale attrazione turistica della zona.
Scriveva il regista:
Un tempo qui l’acqua, dicono gli uomini che vi abitano, ‘era più rara del petrolio’. Trentamila uomini, che vengono celebrati come ‘gli eroi di Linshien’, hanno impiegato dieci anni a farsi strada nel granito; hanno rimosso 17 milioni di metri cubi di roccia, costruito dighe, serbatori, acquedotti, tutto con utensili elementari. Linshien è celebre oggi in Cina come ‘la prima montagna socialista’.
Linshien, in realtà Linxian (contea di Lin), è il vecchio nome dell’attuale Linzhou. Oggi il luogo ha un po’ perso la sua laica sacralità, stemperata dalla disneyficazione che ha investito tutte le attrazioni turistiche cinesi, ma è ancora meta di pellegrinaggio in quanto “simbolo della benevolenza del partito e dei suoi valori più alti”, mi spiegano. A turno i vari gruppi di pellegrini si dispongono sotto alla parete di roccia con incisa la scritta “grotta della gioventù”, alzano il pugno chiuso e recitano ad alta voce la dichiarazione di fedeltà al partito.
L’atmosfera è da gita al monastero, ma con un risvolto ideologico: una ventina di persone con la giacca a vento blu elettrico, compiuto il rito, lascia il posto ai ragazzi della Lega della gioventù comunista, in tuta bianca e rossa, “più simili agli atleti di una squadra olimpica di badmington o ping pong che agli aspiranti futuri leader del partito”, commenta Gabriele Battaglia. La telecamera attira l’attenzione dei semplici turisti, famiglie con bambini o gruppetti di amiche che individuano nel giornalista italiano un personaggio famoso di un qualche paese straniero con cui val la pena di farsi un selfie, se no perché lo riprenderebbero?
Più in là, sedute all’ombra di una parete di roccia, cinque donne in pantaloni blu da operaie, camicie a quadri con in testa una paglietta e sulle spalle una mantellina bianca cuciono le suole di gomma alle famose scarpe da arti marziali simili a pantofoline in attesa che sia di nuovo il loro turno: ogni mezz’ora mettono in scena per i turisti la fatica delle operaie che negli anni sessanta contribuirono allo scavo armate solo di piccozza. Vengono dallo Shanxi, la regione al di là del confine segnato in parte dal canale Bandiera rossa, e tra uno show e l’altro ne approfittano per fare lavoretti a mano con cui arrotondano.
Suzhou, Jiangsu
Alle otto del mattino di un giorno infrasettimanale, la tavola calda Dongwu nel centro di Suzhou – piastrelle bianche da obitorio per terra e alle pareti – lavora già a pieno ritmo. I clienti sono tutti uomini, ricurvi su scodelle fumanti di pasta in brodo. Un kuaidi (fattorino) in divisa giallo limone ha evidentemente i secondi contati perché senza nemmeno accomodarsi con le gambe sotto il tavolo sorbisce rumorosamente gli spaghetti con il casco in testa e il telefono in mano. Nella cucina a vista, vassoi di pasta fresca, cesti di verdure pulite e pentoloni di brodo da cui escono nuvole di vapore. Il tutto ricorda molto, e non è certo un caso, la scena di Chung Kuo, Cina, quando la telecamera entra in un ristorante di Suzhou.
“Gli avventori siedono a gruppi di quattro o più attorno a tavoli quadrati, fra i quali si muovono camerieri e cameriere con grandi grembiuli bianchi. Bevono da larghe tazze, mangiano con i bastoncini, qualcuno anche spaghetti. Il settore delle cucine, dove i cuochi preparano le vivande in grossi pentoloni, usando bastoncini più grandi o mestoli. Ancora sugli avventori, su uno in particolare, che mangiando fuma contemporaneamente una sigaretta”, annotava Antonioni nella sceneggiatura.
Il locale dove nel 1970 andò a girare oggi non esiste più, ma la donna che all’epoca lo gestiva è ancora in grande forma, grazie allo yoga che pratica da tanti anni – ci dice mostrandoci una foto recente in cui fa la spaccata – e a una grinta invidiabile. Ouyang Juanjuan aveva 25 anni all’epoca e il partito l’aveva assegnata al ristorante perché troppo minuta per lavorare in fabbrica. Era uno dei due locali halal della città, chiamata la “Venezia asiatica” per via dei suoi canali. Già allora era una discreta meta turistica e aveva una comunità musulmana, la maggior parte appartenente alla minoranza hui. Ci racconta queste cose nel soggiorno del suo appartamento dove, nonostante le dimensioni ridotte, sono in funzione due condizionatori d’aria impostati sui 16 gradi e altrettanti ventilatori. Per fortuna il marito, ex dirigente locale del partito, si è messo a scaldare il brodo di pollo che la signora ha preparato per farci assaggiare i suoi famosi wanton, i ravioli ripieni di granchio e maiale che, complice un programma tv, l’hanno resa famosa in città.
La signora Ouyang parla senza sosta con una voce vigorosa che si rompe all’improvviso quando le domando cosa vorrebbe dire alla vedova di Antonioni se la incontrasse. Glielo chiedo perché ha appena finito di dire che vorrebbe tanto andare in Italia a trovare Enrica Fico, di cui conserva “un bel ricordo”, e che le manca tanto. La dichiarazione d’affetto sorprende anche perché durante le riprese le due donne, come spiega lei stessa, non avevano mai interagito: “Se ne stava in disparte a osservare e seguiva il regista senza dire nulla”. In quanto responsabile del ristorante, durante la campagna nazionale contro il regista la signora Ouyang era stata costretta a scrivere un articolo contro “il pagliaccio Antonioni nemico della Cina”. E oggi non se lo perdona. Le scendono le lacrime mentre spiega che a Enrica Antonioni vorrebbe chiedere scusa. “Gli ho fatto un torto, il governo cinese li ha fatti soffrire. A quell’epoca il partito ci ha costretto a fare delle cose terribili”, si sfoga scuotendo la testa. Il marito lascia i fornelli e interviene per consolarla: “Non è stata colpa tua, hai dovuto farlo, non avevi scelta”.
La posizione ufficiale del Partito comunista cinese, formulata nel 1981 in occasione del sessantesimo anniversario della sua fondazione, è che la rivoluzione culturale fu un errore. Insieme al Grande balzo in avanti – il disastroso piano che avrebbe dovuto trasformare l’economia cinese da rurale a industriale attraverso la collettivizzazione e a una mobilitazione della popolazione senza precedenti – la campagna di epurazioni e rieducazione lanciata nel 1966 dal Grande timoniere fa parte di quel 30 per cento dell’operato di Mao di cui è stato riconosciuto l’esito fallimentare. Lo sfogo della signora Ouyang, quindi, è perfettamente coerente con la linea ufficiale.
Facciamo un giro lungo i canali, dove i pullman turistici scaricano gruppi di cinesi, giapponesi e coreani che qui possono trovare tutto: Starbucks, negozi di “artigianato tipico”, banchetti di street food e ristoranti sull’acqua. Per essere una metropoli – ha poco meno di cinque milioni di abitanti, che raddoppiano se si considera l’area amministrativa totale – Suzhou è una città piacevole, ingentilita da molto verde e dalla presenza del fiume Yangtze, che sfocia a Shanghai, poco più a est.
È una delle città più sviluppate e ricche del paese e, pur essendo turistica, la sua parte più vecchia non ha ancora ceduto completamente alla gentrificazione. Nella zona dei canali, deliziosi ponticelli in pietra e salici piangenti creano un’immagine da cartolina, ma la riva di fronte a quella di Starbucks è ancora abitata da gente del posto, che vive in vecchie case di corte malandate e affittate a prezzi calmierati: 2-300 renminbi, circa 40 euro, per una casa per quattro persone. Case popolari che per il loro valore storico sono mantenute in piedi tali e quali, e dove il comune contribuisce a sostenere i costi della manutenzione, oltre a garantire le forniture di base.
Rispetto alla riva di fronte è un altro mondo. Una donna accucciata davanti a casa sua lava le verdure con l’acqua del secchio appena issato da un pozzo scavato nel terreno. Il marito sciacqua lo spazzolone nel canale e una vecchia passa con il carretto a vendere i prodotti del suo orto. Scene di vita di campagna nel cuore della seconda città più importante della regione dopo Nanchino e il cui pil pro capite, si legge su Wikipedia, dalle riforme economiche del 1978 è stato tra quelli che sono cresciuti più rapidamente al mondo. In realtà nelle metropoli cinesi non è così raro trovare sacche di passato, anche se a Pechino e a Shanghai sono sempre meno.
Nanchino, Jiangsu
Una delle critiche ad Antonioni, espresse dai funzionari di partito a cui toccò argomentare nel dettaglio le cattive intenzioni del regista, riguardava l’inquadratura del ponte sullo Yangtze a Nanchino, grande infrastruttura di sei chilometri inaugurata nel 1968 dopo otto anni di lavori.
Nel documentario la voce narrante lo descrive come “un’opera maestosa, che unisce le due sponde del fiume avvicinando le due metà della Cina, che fino a ieri erano separate”, ma le immagini, secondo i canoni cinesi, erano punitive. Scrive ancora Eco nel suo saggio dedicato a Chung Kuo, Cina che la campagna contro il film di Antonioni, al di là delle ragioni politiche interne al Partito comunista cinese, nasceva da un’incomprensione di fondo dovuta alla lontananza delle culture e alla disparità tra le “sovrastrutture simboliche attraverso le quali le civiltà diverse si rappresentano gli stessi problemi politici e sociali”.
Per questo, dice Eco in modo convincente, i cinesi non hanno apprezzato le immagini del ponte sullo Yangtze, interpretandole come “il tentativo di farlo apparire storto e instabile; solo perché una cultura che privilegia la rappresentazione frontale e l’inquadratura simmetrica in campo lungo non può accettare il linguaggio della cinematografia occidentale che, per dare il senso dell’impotenza, inquadra dal basso, e di scorcio, privilegiando la dissimmetria, la tensione contro l’equilibrio”.
La distanza tra le due estetiche creò un equivoco e deluse le aspettative di Pechino. Lo conferma il tono contrariato con cui l’ex direttrice della scuola materna Wu Lao di Nanchino ricorda la visita della troupe italiana. “Ci eravamo preparati a lungo per fare una buona impressione, i bambini avevano imparato canzoni e balletti da fare davanti alla telecamera, invece Antonioni ha voluto riprendere le latrine, che peraltro all’epoca non erano messe bene”.
Lo ripete più volte seduta sul divano della sua stanza da letto, come se gli oltre quarant’anni trascorsi non fossero mai passati e, complice un po’ di nebbia legata all’età, il torto subìto le bruciasse ancora. Dal che si capisce che Chung Kuo, Cina non l’ha mai visto. Nella parte sulla scuola materna, infatti, si vedono i bambini che cantano, recitano, ballano e marciano in onore di Mao. Nessuna traccia delle latrine, evidentemente tagliate durante il montaggio. “E poi”, aggiunge, “dopo due giorni di riprese se ne sono andati senza nemmeno salutare, e non abbiamo più saputo nulla”.
La scuola, aperta nel 1958, esiste ancora; la visitiamo nel giorno di riapertura dopo la pausa estiva. All’ingresso c’è un gran viavai, molta eccitazione e qualche scena straziante, come sempre e ovunque il primo giorno di scuola: frotte di genitori e nonni con i bambini per mano e i piumoni per il riposo pomeridiano sottobraccio sono accolte da maestre sorridenti, mentre qualche bambino disperato del primo anno non ne vuole sapere di entrare.
Finita la fase di ambientamento, nel cortile comincia la cerimonia. Dopo l’alzabandiera fatto da due bambini in divisa e guanti bianchi, comincia la recita dei precetti di Confucio: l’importanza di imparare in tenera età, il ruolo fondamentale dei genitori e degli insegnanti, la pietà filiale come principio a cui rimanere saldi tutta la vita. Confucio è stato riabilitato ufficialmente nel 2015 da Xi Jinping dopo decenni in cui era stato il simbolo del passato imperiale della Cina e di una società tradizionalista e conservatrice. Oggi ha sostituito Mao Zedong come figura a cui ispirarsi, e gli scolari imparano a memoria la raccolta dei suoi precetti al posto del libretto rosso. L’ideale della “società armoniosa” – lanciato nel 2004 dal presidente Hu Jintao per promuovere una società senza spigoli né minacce a turbare la vita serena del popolo cinese – è ancora oggi un mantra del governo di Pechino, che in nome dell’armonia giustifica repressione, ipercontrollo sociale e limitazione della libertà dei cittadini.
Shenzhen, Guangdong
Vista dalla Cina continentale, Hong Kong è una distesa di basse colline verdi al di là del fiume che la divide da Shenzhen, la città simbolo dello sviluppo cinese. Ancora negli anni ottanta molti cinesi cercavano di raggiungere l’ex colonia britannica scavalcando la rete metallica che corre lungo il fiume, mentre oggi è Shenzhen il polo d’attrazione della regione. Sede di Huawei e Tencent (proprietaria dell’app WeChat), per citare le più note, la città ospita alcune delle aziende tecnologiche più importanti del mondo, fedele alla linea inaugurata da Deng Xiaoping nel 1978.
Quando qui fu stabilita, in via sperimentale, la prima zona economica speciale, da Hong Kong cominciarono ad arrivare gli investitori. Negli anni sono tornati i figli degli immigrati cinesi, che hanno visto nell’apertura un’occasione di profitto e di riscatto. È il caso di Yang, un pensionato venuto a vivere a Shuiwei, uno dei villaggi urbani di Shenzhen, dove la sua famiglia aveva lasciato un terreno su cui lui ha costruito un condominio. I villaggi urbani, spiega Battaglia, sono centri inghiottiti dalla città ma dipendenti da un’amministrazione rurale, quindi separata da quella urbana. Sono di fatto indipendenti, per cui i contadini costruiscono 2-3-4 piani sopra le loro case e affittano gli appartamenti, o le singole stanze, ai migranti che vanno lì per lavoro, e loro non devono più spaccarsi la schiena per vivere.
Le autorità cittadine non possono mandarli via se non risarcendoli, ma dato che loro già guadagnano dagli affittuari, pretendono una cifra molto alta. È il caso del signor Yang. “Come si può credere alla rivoluzione economica quando le strade sono in queste condizioni?”, si lamenta e urla perché il marciapiedi davanti alla palazzina è crollato. Sono settimane che chiede di intervenire, ma nessuno fa niente e lui rischia di dover abbassare l’affitto agli inquilini. Mentre nel quartiere, come nel resto della città, il valore degli immobili è in costante aumento (altra analogia con la Silicon valley), la strada dissestata nel villaggio già malmesso potrebbe costargli cara.
Nel caso di Shenzhen i villaggi urbani hanno svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo economico, offrendo alla forza lavoro arrivata dalle altre provincie case a buon mercato. “Oggi, però, anche a Shuiwei i prezzi stanno salendo e le persone fanno fatica”, dice il signor Won, ex vigile urbano, hongkonghese da generazioni, che si è trasferito a Shenzhen per raggiungere la fidanzata e, probabilmente, vivere meglio. Lui ce la fa a pagare l’affitto ma, dice, molti dovranno andarsene.
Rivelazione
Dire che la Cina è molto cambiata da quando la visitò Antonioni è un’ovvietà. Ma la misura di quanto sia un altro universo rispetto non solo ai primi anni settanta di Mao, ma anche agli anni ottanta delle rivendicazioni di piazza Tiananmen, me la dà, alla fine del viaggio, Haijing, la producer che ha percorso con noi una parte del viaggio, figlia esemplare del capitalismo “con caratteristiche cinesi” avviato quarant’anni fa. Trent’anni, intelligente, esuberante, studi negli Stati Uniti e un anno trascorso a Barcellona, dopo aver lavorato per qualche anno come fixer e interprete per i giornalisti occidentali, Haijing si è messa in proprio e nel suo lavoro è un fulmine.
Passa quasi metà dell’anno in giro per la Cina e per il mondo, nel weekend va a fare surf sulla costa di Shenzhen, il dentista ce l’ha a Chongqing, nel sudovest del paese, e il commercialista a Hong Kong. Il prototipo della nuova borghesia istruita e benestante del suo paese, una percentuale in crescita ma pur sempre minima della popolazione. Un giorno, scorrendo sul suo telefono gli articoli postati su WeChat (un’app che aggrega Facebook, Whatsapp e il servizio di pagamento via smartphone), scuote la testa e dice: “I giornalisti occidentali che scrivono di Cina sono ossessionati dalla politica, ma a me e ai miei coetanei istruiti non interessa nulla di quel che dice o fa Xi Jinping. Seguiamo la politica solo se ci riguarda direttamente, quindi a livello locale, non certo quella che si fa a Pechino. Se alzano le tasse sui miei guadagni, per dire, m’interessa, ma per il resto è davvero molto lontana da me, da noi”.
“Capisco, e del resto, dato che non votate, perché dovrebbe interessarvi?”, osservo. E qui la rivelazione, che poi tanto rivelazione non è: “Se avessimo il diritto di voto con il suffragio universale per me sarebbe la fine. Se il miliardo e passa di cinesi che non hanno studiato potessero votare, io lo vivrei come un sopruso: eleggerebbero persone incapaci che distruggerebbero quello che ho e la mia vita così com’è. Preferisco sapere che al governo ci sono persone competenti che non ho scelto io piuttosto che essere in balia del voto della maggioranza dei cinesi”.
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