Questo articolo è uscito il 22 gennaio 2010 nel numero 830 di Internazionale. Era stato pubblicato su XXI con il titolo Phosphate blues.

Ho incontrato Mohammad alla stazione della metropolitana Blanche, tra la collina di Montmartre e il Moulin Rouge. Era raggiante, il suo supplizio era terminato da sei mesi. Mohammad è un profugo iracheno fuggito dal suo paese per finire, dopo un incredibile viaggio, in uno dei luoghi più improbabili del mondo: Nauru.

Mohammad ha vissuto cinque anni in questa isoletta di ventuno chilometri quadrati e settemila abitanti abbandonata in mezzo al Pacifico, a miglia di distanza da qualunque continente. A Nauru era libero ma recluso.

La prima volta
Anno 2005, prima visita. Tre giorni di viaggio, nell’ultimo tratto un volo con Air Nauru. Prendere un aereo di questa compagnia è come salire su un autobus che attraversa il Pacifico. Partito dalle isole Figi, il Boeing 737 fa prima uno scalo a Tarawa (Kiribati), decolla quasi subito per arrivare a Nauru, e un’ora dopo va a Honiara, capitale delle isole Salomone. Il giorno dopo fa di nuovo scalo a Nauru e va a Brisbane, in Australia.

Vista dal cielo, Nauru fa paura. In mezzo al mare, l’isola appare minuscola e ricorda il tappo di una vasca da bagno. La sua costa, tutta curve, è percorsa da una strada che la racchiude e la fa sembrare ancora più piccola. Non ci sono città, solo una pista d’atterraggio che si allunga leggermente sul mare.

A terra, l’aeroporto si dà arie da scalo internazionale: cartelli con scritte giallo-arancioni come Gate 1 e Departures. Ma l’aria condizionata è guasta e la torre di controllo, nel clima caldo umido, ha tutti i vetri aperti. Al piano superiore le grandi vetrine dell’unico negozio di souvenir sono vuote, a parte una vecchia carta dell’isola e alcune collane di conchiglie dimenticate. Nessuno si occupa del negozio. Per recuperare i bagagli, inutile attendere accanto al tapis roulant. Il deposito dove sono ammucchiate le valige è aperto e bisogna andare a cercarsele.

Sul mappamondo, l’isola si trova fra la Papua Nuova Guinea, le isole Salomone e una miriade di piccoli atolli. In mezzo, vicino all’equatore e nell’oceano aperto, c’è questa capocchia di spillo, Nauru, o meglio, la Repubblica di Nauru. Nel Pacifico ci vogliono decine di isole per formare uno stato, ma a Nauru è sufficiente una lingua di terra per esistere.

L’isola deve la sua indipendenza al sottosuolo, ricco di fosfato quasi allo stato puro. “Una manna dal cielo”, dicono gli abitanti dell’isola. Il fosfato è un elemento essenziale nella composizione di fertilizzanti, e qui è stato scoperto all’inizio del novecento. Per decine di anni ha contribuito a sfamare l’Oceania. Quando l’Australia ha sviluppato a tappe forzate la sua agricoltura, lo sfruttamento si è intensificato. Centinaia di braccianti cinesi e di islander, gli abitanti delle isole vicine, erano sbarcati a Nauru e si erano messi a scavare per pochi dollari l’umida roccia color ocra.

Abituati a pescare e a bere sotto il cielo stellato qualche bicchiere di tody, il liquore locale, gli abitanti di Nauru per un po’ erano rimasti a osservare divertiti questa attività frenetica. Fino a quando qualcuno si rese conto di trovarsi sopra una montagna d’oro. Così, per vent’anni, ci fu una lotta per l’indipendenza, strappata all’Australia il 31 gennaio 1968.

Il nuovo stato si impadronì dei preziosi giacimenti di fosfato, costruì un aeroporto internazionale e creò una compagnia aerea. Cinque boeing con l’emblema dell’isola hanno solcato per anni i cieli del Pacifico da e verso Australia, Figi, Giappone e così via. Oggi di questa flotta rimane solo un aereo noleggiato. E tutta l’isola è simile al suo aeroporto, un bella distesa di vernice che comincia a scrostarsi.

René, il re di Nauru
“Non ti puoi sbagliare. Quando vedi le due teste di leone dorate, sei arrivato”, mi avevano detto. Le due teste si vedono bene all’entrata della proprietà. Si vedono solo loro, placcate d’oro. Ci sono due guardie che controllano. L’accoglienza è glaciale. Si sentono dei rumori leggeri. La porta si socchiude e s’intravede una stanza buia e umida. Una lampada illumina il volto di un vecchio in un letto, sfinito. L’uomo si alza, cerca goffamente di scendere dal letto. Si chiama René Harris, sono tre giorni che lo cerco. Eletto presidente più volte, magari solo per qualche settimana, o solo per qualche giorno, quest’uomo è una delle persone più influenti di questo stato lillipuziano.

Il giorno in cui ci incontriamo, davanti a me, in canottiera e boxer, Harris è semplicemente René. Ma in fondo questo non cambia molto, gli abitanti dell’isola l’hanno sempre chiamato così, René. In questa manciata di chilometri quadrati tutti si conoscono.

“Non posso riceverla, sono appena uscito dall’ospedale”, dice seccamente. Mostra un braccio con la pelle rovinata, le tracce fresche di un catetere messo male. “Sono stanco. Torni in serata. Farà più fresco e potremo discutere”. Dico qualche parola di circostanza. L’ex presidente taglia corto: “Lo so chi è. Lei è il giornalista francese, non è vero?”, dice indicandomi la porta. “A Nauru si sa tutto, tutto”.

Qualche giorno dopo René Harris, rasato e pettinato, seduto nel cortile della sua casa, si pulisce gli occhiali e assume una posizione dignitosa, le mani appoggiate su un bastone. Il suo volto paffuto si anima ricordando il passato. “Negli anni settanta eravamo il paese più ricco del mondo. Con i redditi del fosfato qui era un paradiso terrestre. Non ci mancava nulla e ci godevamo tranquillamente la vita”.

Subito dopo l’indipendenza, Nauru era entrata in un’altra dimensione: dalla cornucopia del fosfato cominciarono a scorrere fiumi di denaro. Il fosfato si vendeva a 50 dollari alla tonnellata, e il paese ne esportava due milioni di tonnellate all’anno. Il conto è presto fatto: i quattromila abitanti dell’epoca erano sommersi da una fortuna generosamente ridistribuita.

L’isola fu divisa in lotti minerari tra gli abitanti e lo stato pagava un affitto ai proprietari. Adam Ribaun possiede “alcune centinaia di metri quadrati, in alto, sull’altopiano” che gli fruttavano circa 40mila dollari all’anno. “Ho comprato una macchina, poi un’altra e anche una moto. Dopo non sapevo più cosa fare del denaro e così l’ho messo nella Bank of Nauru”. Adesso Adam ha i capelli grigi, vive in una piccola casetta a schiera e gli unici mobili che possiede sono un tavolo e due sedie.

I grandi proprietari terrieri avevano messo le loro terre a disposizione della Nauru Phosphate Corporation, l’impresa statale responsabile dell’estrazione. Senza alcuno sforzo ricevevano ogni anno milioni di dollari di royalty. Gli isolani vivevano da nababbi: pick-up fiammanti, Cadillac importate dagli Stati Uniti, berline scaricate dai cargo. L’isola non ha molti divertimenti da proporre, così si andava in macchina in giro sulla litoranea, l’unica strada del paese. Questa sorta di carosello è chiamato il Nauru time. Una mano sul volante, lo sguardo perso sull’oceano, giravano instancabilmente, si fermavano per fare il pieno in una delle numerose stazioni di servizio, poi ripartivano per un altro giro, fino a notte inoltrata.

La vita a Nauru ha un ritmo indolente e scorre come una piacevole giornata senza fine. Le persone si alzano tardi e l’unico pensiero è come riempire le giornate. La maggior parte di loro adesso non lavora più. Quando funzionavano le miniere, grazie agli islander, i negozi erano gestiti dalla comunità cinese. La vita era semplice: una macchina, qualche giro dell’isola, un colpo di clacson davanti a un ristorante, una ragazza cinese che prendeva l’ordinazione, qualche minuto di attesa, pollo all’ananas davanti al tramonto sul mare e una videocassetta presa in affitto prima di addormentarsi tra il rumore delle onde.

Quando lo incontro, Gordon lavora sull’isola da diversi mesi. È australiano e mangia tutte le sere in un ristorante cinese. Non ha scelta, c’è solo questo e il menù è sempre lo stesso: maiale in agrodolce, anatra laccata, riso cantonese. “Ho sentito parlare di Nauru la prima volta nel 1977, quando a Melbourne è stata inaugurata la Nauru House. Era il più alto edificio d’Australia e nessuno sapeva dove si trovasse questo
paese. Poi Nauru ha investito in altri quartieri di Melbourne. Ogni volta che apriva un albergo organizzava feste meravigliose, offrendo champagne, caviale e grossi sigari”. “La grandezza del nostro paese ha oltrepassato le nostre coste”, dice liricamente René Harris. Il Nauru Royalties Trust, il fondo sovrano del paese, aveva investito in molti progetti alberghieri di lusso e organizzato una joint venture con l’India per sfruttare il fosfato in Asia. In poco tempo Nauru aveva realizzato il sogno americano: aveva immobili a Houston e a Honolulu, terreni a Portland, e si era lanciata nella costruzione di campi da golf in tutto il mondo. “Anche sull’isola abbiamo il nostro campo”, sottolinea René. “A pochi metri da casa mia, l’ha visto? Non è più in ottimo stato, ma all’epoca tutti gli abitanti dell’isola giocavano lì. Era il nostro passatempo preferito”.

Poi incontro Mohammad. È in piedi sulla diga, immobile, con lo sguardo fisso sull’orizzonte. Il suo volto, rotondo, è nascosto da un berretto. In un primo tempo scuote la testa, poi dice: “Non so dove andare”. Come a malincuore, distoglie lo sguardo dalle onde: “Ho chiesto asilo politico”. Ma non aveva chiesto di venire qui. Prima di arrivare non ne aveva mai sentito parlare.

Lentamente Mohammad racconta la sua storia, mentre le onde tiepide bagnano la riva: “Mi chiamo Mohammad Sagar, ho 29 anni, sono iracheno. Sono a Nauru da tre anni e aspetto. Aspetto di essere liberato”.

Un iracheno, studente in microbiologia, confinato su un’isola in mezzo all’oceano. Tutto ciò ha un nome tanto dolce quanto ingannevole: la “Pacific solution”. La “Pacific solution” è stata creata nel 2001, in piena guerra al terrorismo, quando improvvisamente l’Australia ha chiuso le sue frontiere a chi chiedeva asilo. Il primo ministro dell’epoca, John Howard, aveva adottato una linea intransigente: “Decideremo noi chi potrà entrare nel nostro paese e a quali condizioni”.

Così, centinaia di uomini, donne e bambini fuggiti dai loro paesi e lanciati in una corsa disperata verso una vita migliore sono stati bloccati in mare aperto, prima di raggiungere le coste australiane. Ma Howard non poteva gettarli in acqua. Bisognava trovare una terra disposta ad accoglierli. Nauru, lontana dall’Australia e dai mezzi d’informazione, era il posto perfetto.

Howard ha concluso un accordo con René Harris molto rapidamente. “John è un buon amico. Ci sentivamo spesso. Mi ha detto: ‘Abbiamo un problema, troppi profughi vogliono entrare nel nostro territorio’. Ho capito che voleva che Nauru li accogliesse e io ho accettato”. In cambio di questo “favore”, Howard ha promesso all’isola 30 milioni di dollari all’anno.

A Nauru il denaro scarseggia. Dopo aver sfruttato il sottosuolo per decenni, l’isola comincia a essere in difficoltà. Si sta esaurendo un ciclo fortunato, lasciando una serie di cave vuote e infrastrutture cadenti. Ovunque si vedono colonne di corallo morto, alte 3-4 metri. Tra questi pinnacoli si estraeva il fosfato con la ruspa. A forza di investimenti azzardati all’estero, in meno di trent’anni Nauru si è rovinata.

Molti imprenditori hanno fatto fortuna sulle spalle degli isolani. Nel 1993, per esempio, un consulente finanziario australiano aveva convinto il governo a investire in un suo progetto, una commedia musicale sulla vita di Leonardo da Vinci. Il governo offrì quattro milioni di dollari. La prima dello spettacolo sarebbe stata a Londra, seguita da un ricevimento fastoso. Incuriositi, i mezzi d’informazione britannici ne parlarono molto. Ma lo spettacolo fu un fiasco clamoroso e rimase in scena solo un mese.

Tutto era gestito in questo modo. “Sull’isola le persone non si rendevano più conto di quello che facevano”, dice Violette, un’abitante di Nauru. “C’era chi andava a mangiare al ristorante cinese e pagava tirando fuori i soldi da una valigetta piena di mazzette di dollari”. Caduto dal cielo, il denaro perde valore. Gli abitanti sperperavano l’improvvisa ricchezza come vincitori al lotto. Joy ha conosciuto questo periodo d’oro, e scuote la testa nel ricordarlo. “A ripensarci oggi era un periodo allucinante. Era come dare mille dollari di paghetta settimanale a tuo figlio di 12 anni. Ovviamente li metterà in banca. Era questo lo stato d’animo generale”.

La ricchezza si esaurì alla fine degli anni novanta. Gli anni del lusso erano ormai alle spalle, ma il governo, abituato a un’ingenua politica di laissez-faire, continuava a inseguire progetti grandiosi. Nauru cominciò a indebitarsi sempre di più per pagare gli interessi del debito e cominciarono i problemi.

Sempre seduto sulla sua poltrona, con il bastone in mano, René non vuole parlare di quel periodo. Governando per procura dal cinquantunesimo piano della Nauru House Building a Melbourne, negli anni novanta spendeva tutte le sue forze contro il rivale, Bernard Dowiyogo, altro giovane ambizioso dell’epoca. I due cercavano di farsi lo sgambetto a vicenda: se uno diventava presidente, pochi giorni dopo il suo rivale lo spodestava. Questa lotta senza quartiere, in un paese milionario in cui la presidenza è sempre stata a portata di mano di chiunque, mise definitivamente in ginocchio Nauru.

Dopo aver incassato più di due miliardi di dollari di profitti con la vendita del fosfato, l’isola aveva ormai un debito di diverse centinaia di milioni. Strozzata economicamente, Nauru cominciò a chiedere aiuto. E l’Australia ne approfittò per proporre la “Pacific solution”. Nell’ottobre 2001 sono arrivati i primi esuli. Un primo campo è stato costruito sull’altopiano centrale, ben presto seguito da un secondo a causa dell’afflusso massiccio di profughi.

Un ristorante di Nauru, 2001. (Jocelyn Carlin, Panos/Luz)

Mohammad aveva deciso di fuggire dall’Iraq nello stesso periodo. Il suo viaggio l’ha portato in Iran, in Malesia, in Indonesia, dove ha pagato un contrabbandiere per salire su una nave diretta in Australia. “In Asia tutti sognano di andarci. Ci sono molte opportunità”. La traversata è stata difficile. La barca stracolma ha rischiato più volte di rovesciarsi. Poi i guardacoste l’hanno fermata. Mohammad è stato trasferito in un campo di transito sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, dove è rimasto per settimane. “Poi, un giorno, ci hanno fatto preparare, dovevamo andare a Nauru”. Al suo arrivo è stato portato in uno dei campi profughi costruiti sull’isola. “Eravamo tanti e gli arrivi erano regolari. Stavamo ammucchiati nelle baracche. Il calore era opprimente, non c’era abbastanza acqua”. Per Mohammad sono cominciati tre lunghi anni di disperazione. “Ci sentivamo abbandonati. Non avevamo notizie dei nostri parenti, nessuna informazione da parte delle autorità. Sono stato ricevuto dal servizio immigrazione australiano solo dopo un mese”.

Nel momento più acuto della crisi legata alla “Pacific solution”, sull’isola c’erano quasi 1.200 detenuti. Anche gli australiani erano molti: guardie, personale amministrativo e operai, tutti vivevano all’albergo Menen, l’unico ancora aperto. Le tensioni erano forti. Per ridurre la pressione, i profughi hanno ottenuto l’apertura delle porte dei campi. I detenuti potevano uscire, vivendo tra gli abitanti dell’isola che grazie alla “Pacific solution” ricevevano un reddito regolare. “Pensavo di rimanere a Nauru qualche settimana. Dopo diversi mesi mi hanno detto che c’era un problema con la mia richiesta”. Sono passati anni. Mohammad girovaga per l’isola. “Ho visto partire i miei amici che hanno ricevuto il visto per l’Australia. Ero contento per loro. Io invece sono rimasto bloccato qui. Pensare tutto il giorno al proprio destino è la cosa peggiore che ci sia”.

A chi offre di più
Mohammad si alza, deve rientrare prima del coprifuoco. Al campo si sale lungo una piccola strada con l’asfalto dissestato, protetta dall’ombra di grandi alberi. Il campo è una linea di baracche circondato da alte recinzioni. L’elettricità arriva da un gruppo elettrogeno. All’entrata ci sono delle guardie australiane. Mohammad supera la barriera. Dopo quattro anni di “Pacific solution”, è l’ultimo richiedente asilo presente a Nauru e il campo è tutto per lui.

“Non abbiamo mai avuto scelta”, ripete con insistenza René Harris, raddrizzandosi sulla sua poltrona. René non si lascia mai prendere dall’emozione: “Come avremmo fatto senza l’aiuto degli australiani? Le casse dello stato erano vuote. Non avevamo più denaro per pagare i nostri impiegati. La Bank of Nauru era fallita. Questi campi ci hanno permesso di sopravvivere; senza i profughi per Nauru sarebbe stata la fine. No refugees, no Nauru”.

Seduto davanti a un piatto di calamari fritti, King Yu chiede se conosco Courtrai.

“Sì, Courtrai in Belgio. Ho avuto la fortuna di viverci per qualche anno. Parlo un po’ di francese, ma ormai è tanto tempo che non lo pratico più”.

Sono le due del mattino. Scarpe in cuoio lavorato, modi distinti e sempre vestito con eleganza, King Yu è l’ambasciatore di Taiwan a Nauru. Canticchia: “Ne me quitte pas. Il faut oublier. Tout peut s’oublier”. Poi il diplomatico spiega perché si trova lì: “Il mio paese, Taiwan, non è riconosciuto nel mondo e dobbiamo necessariamente avere relazioni con paesi come Nauru”. Dal settembre 1999, infatti, l’isola del fosfato siede e vota alle Nazioni Unite, mentre i 23 milioni di taiwanesi non sono rappresentati. È un cavallo di Troia diplomatico: “Nauru ci sostiene e noi in cambio l’aiutiamo nel suo sviluppo economico”. Per anni Taiwan ha tenuto in piedi Air Nauru. “Il loro voto, il nostro sostegno”, ripete King Yu.

Ma Nauru è un piccolo pezzo di terra senza grande importanza, pronta a vendersi al migliore offerente. E Taiwan se n’è resa conto a sue spese. Infatti René ha stabilito dei legami con la Cina “senza avvertire”, provocando una nuova piccola crisi tra Pechino e Taipei. “I cinesi offrivano di più”, ha spiegato René.

Il motorino tossisce e si accende, da dietro sale una nuvola di fumo azzurrognolo. “Senti l’odore? È cherosene che ho succhiato al serbatoio dell’aeroporto”. Il conducente ride come un bambino. “Non dire niente, mi raccomando”. Oggi non c’è più benzina sull’isola, le navi cisterna australiane che dovrebbero fornirla si fanno attendere e gli isolani si spostano come possono. Nelle discese l’autista spegne il motore: a destra e a sinistra centinaia di case fatiscenti, con il tetto pieno di buchi e i muri sventrati, cortili pieni di oggetti arrugginiti, carcasse di macchine, impianti stereo e televisori rotti: Nauru è una discarica a cielo aperto.

Sull’isola è rimasto un centinaio di ristoranti, tutti cinesi tranne uno. Il Reinaldo’s è di proprietà di René, che gli ha dato il nome di uno dei suoi figli. È vicino all’aeroporto e serve da mensa a molti lavoratori stranieri. Qui, a volte, si può incontrarlo a mezzogiorno mentre mangia.

Sulla porta chiacchierano quattro ragazzi cinesi, il turno di mezzogiorno è finito. Poco più in là, una di loro è pensierosa: “My name is June”. Il suo inglese mi sorprende, di solito i cinesi parlano il pidgin, un miscuglio di inglese e di espressioni locali. June ha 19 anni: “A forza di servire espatriati al ristorante il mio inglese è migliorato”.

La ragazza è sull’isola da quattro anni: “Sono venuta per aiutare i miei genitori. Appena posso gli mando del denaro. Qui mi danno da mangiare, un alloggio e una camera che divido con le altre ragazze”. June non ha mai fatto il bagno nel porto di Anibare, a un chilometro dal ristorante. Le sue uscite sono limitate a “fare la spesa al supermercato”.

Un anno dopo
Nel 2006 a Nauru è tornata la benzina. E sulla litoranea è ripreso il carosello del Nauru time. June lavora sempre al Reinaldo’s e mi chiede: “È bella Parigi?”.

“È molto bella, soprattutto la notte, quando tutto è illuminato”.

“Ah, non come qui. Anche questa sera al ristorante abbiamo avuto due blackout. Abbiamo tirato fuori le candele, era più romantico”.

È mezzanotte passata. Come tutte le sere, il cielo di Nauru è pieno di stelle, ma June ha la testa altrove: “Anch’io vorrei lasciare l’isola, ma non posso. Mi piacerebbe lavorare in Australia. Chi mangia al ristorante mi dice che laggiù c’è lavoro. Un giorno ci andrò”. La ragazza fa una pausa. “Oppure andrò negli Stati Uniti per aprire qualcosa di mio, un ristorante, un negozio. Deve essere meraviglioso”. Dall’interno del ristorante una voce chiama. June si volta verso le sue amiche cameriere e dice: “Devo rientrare”. Si volta verso di me e mi chiede: “Vuole che le presenti le mie amiche?”.

Poco dopo incrocio per caso René Harris. È sul molo, non molto lontano dall’incrocio per l’aeroporto. La sua vecchia Honda è ferma, alcuni ragazzi fanno surf su tavole di polistirolo. Immobile, le gambe fuori dall’abitacolo, guarda il tramonto.

Gli dico: “Nauru ha l’aria di andare meglio”. Volta lentamente la testa, prima di fare un timido sorriso. “Sì, in apparenza. Ma i problemi rimangono”.

“Ho appena incontrato il ministro dell’industria. Sembra che lo sfruttamento del fosfato ricomincerà”.

“Il ministro non sa cosa è bene per Nauru. Io sono un vero nauriano, lui ha il passaporto australiano. Io so cosa è bene per il nostro popolo. Non i ministri del nuovo governo, loro non hanno mai vissuto qui”.

La popolazione è giovane ma l’80 per cento è obeso e il 55 per cento diabetico. Nauru paga i suoi trent’anni passati a bere Coca-Cola sulla spiaggia

I nuovi ministri di Nauru hanno tutti sui quarant’anni e incarnano il rinnovamento. Adesso i dipendenti statali sono pagati. Sia i ministri sia le segretarie ricevono un po’ meno di 300 dollari al mese. Per l’isola si profila una nuova speranza, il secondary mining. Si tratta di scavare ancora più in profondità per raggiungere un nuovo strato di fosfato. Con l’aiuto di una multinazionale australiana sono stati fatti alcuni esperimenti per testare il secondo strato. “I risultati sono buoni”, assicura il ministro. “Adesso si dovrà rimettere in movimento tutta l’industria, rivedere le infrastrutture e comprare dei camion. C’è parecchio lavoro da fare, ma siamo fiduciosi. Il nostro primo carico di fosfato è pronto a partire”.

Un incendio doloso nel porto ha ritardato le operazioni. Il ministro è molto critico nei confronti di René: “C’è chi è ostile al progetto. Di fatto si tratta di una sola persona e sappiamo tutti chi è”. Insomma, fosfato e potere, nulla è veramente cambiato.

Tranne il fatto che Mohammad non è più al campo. Adesso ha a disposizione un piccolo prefabbricato e fa ormai parte della comunità dell’isola. Le guardie australiane, che sorvegliano da mesi un campo vuoto, vanno ogni tanto a bere un tè da lui per scacciare la noia. “Ho la televisione, un bollitore e dei libri. Adesso posso andare dove voglio”.

Mohammad è dimagrito. La sua bonarietà si è spenta. “Non ho quasi più nessuna speranza. Non so che ho fatto per meritare una sorte del genere”. La solitudine gli pesa sempre di più: “Ho pochi contatti con gli abitanti dell’isola. Per passare il tempo leggo molto”. Continua a non avere notizie delle sue domande di asilo: “Mi trattano come se fossi un delinquente”.

Rimasto chiuso in casa per qualche mese, adesso René si mostra in giro. Passeggia, esce, va a messa. Come stasera, che se ne sta seduto contro la parete di fondo della chiesa di Meneng. Con un lento movimento della testa saluta di qua e di là. Fuori qualche abitante discute sul sagrato approfittando del fresco della sera. La presenza di René fa mormorare. “Non esce mai per caso dalla sua tana. La prossima estate ci sono le elezioni presidenziali e lui rimane un candidato importante”.

In qualità di imprenditore dei tropici, René è implicato in tutte le vicende dell’isola. È stato coinvolto in oscure storie di frodi e di vendita di passaporti. L’isola era così in difficoltà che per trovare del denaro si sono venduti illegalmente dei passaporti. Due terroristi sono stati arrestati con il passaporto di Nauru. Gli Stati Uniti si sono infuriati e per qualche tempo Nauru è diventato uno stato canaglia. Ma, nonostante i suoi trascorsi, René dispone ancora di un certo sostegno e il governo lo teme. Alcuni ministri gli riconoscono a denti stretti un talento da stratega. “Sa mobilitare il suo popolo”. Ma secondo gli abitanti, “non si sa mai di cosa è capace”.

Finita la messa, Harris esce per ultimo dalla chiesa. Un uomo robusto con giacca scura e occhiali da sole lo spinge sulla sedia a rotelle. Il vecchio leone è stanco. Come la sua isola, sempre più popolata da uomini in sedia a rotelle o con le stampelle. La popolazione è giovane ma l’80 per cento è obeso e il 55 per cento diabetico. Nauru paga i suoi trent’anni passati a bere Coca-Cola sulla spiaggia, con tanto denaro in tasca e sempre più piaceri. Nauru muore a causa dei suoi eccessi.

Joy lavora al governo e si occupa di affari familiari. “Con l’indipendenza abbiamo abbandonato il nostro stile di vita. E adesso la paghiamo cara”. Uno dei compiti di Joy è quello di mandare le ragazze a fare stage alle isole Figi: “Imparano cose semplici come tenere in ordine la casa. Non l’hanno mai imparato dalle loro madri, che non si occupavano della casa perché il governo pagava del personale per farlo”. Ogni settimana c’è un funerale. Persone che muoiono a cinquanta o sessant’anni, stroncate dal diabete. Ozio, consumi smodati, incuria: per trent’anni Nauru ha vissuto in un sogno.

La partenza di Mohammad
Mohammad invece continua a non sapere perché la sua domanda viene respinta. Il suo supplizio a Nauru finisce solo quando la Svezia accetta di accoglierlo a Örnsköldsvik, città portuale 300 chilometri a nord di Stoccolma. Quando lo rivedo a Parigi, nell’estate del 2007, porta i segni dei cinque anni di prigionia. “La transizione non è stata indolore. Sono passato da quaranta gradi all’ombra a meno venti, con due ore di sole al giorno e notti che non finiscono mai”. Fa una pausa. “Adesso è tutto da rifare. Ogni tanto ho l’impressione di essere passato da un isolamento all’altro”. Mohammad combatte la sua malinconia come può, segue corsi di svedese e scrive. “Ho perso cinque anni della mia vita in una no man’s land. Voglio raccontarlo per fare in modo che il mondo lo sappia”.

L’Australia, nel frattempo, ha abbandonato la “Pacific solution”. “È stato un errore”, ha spiegato il nuovo primo ministro, Kevin Rudd. In Australia ha fatto molto scalpore la notizia che venti afgani, detenuti nel campo di transito di Nauru prima di essere rimandati nel loro paese, sono stati uccisi dai taliban.

René è morto nel 2008. Alle ultime elezioni, gli abitanti dell’isola lo avevano snobbato. Ma, astuto e imprevedibile, Harris aveva cercato un’ultima volta di rovesciare il governo. L’isola è stata messa in stato di emergenza. Ma alla fine il diabete ha avuto la meglio. René ha avuto diritto ai funerali di stato. Oggi la miniera di fosfato è di nuovo attiva. Nauru ha di nuovo le sue royalty e, a quanto pare, il secondary mining è un successo.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

Questo articolo è uscito il 22 gennaio 2010 nel numero 830 di Internazionale. Era stato pubblicato su XXI con il titolo Phosphate blues.

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