Assalto a Las Vegas
Questo articolo è stato pubblicato il 5 agosto 2005 sul numero 602 di Internazionale.
“Il blackjack ti dà un senso come essere umano”, spiega Max Rubin, 55 anni, che potrebbe essere definito l’Apostolo del blackjack. “Quando vinci ti senti da dio, perché sei riuscito a prendere una serie di decisioni tutte giuste, quindi ti sei meritato di giocare la tua partita. Tra i giochi di Las Vegas il blackjack è quello che lascia più possibilità al giocatore. Ed è anche un gioco per il quale devi essere tagliato, il cui esito dipende dalle mosse che fai, dalle decisioni che prendi. Gioca a blackjack e ti sembrerà di avere tutto sotto controllo”.
Rubin, che si è trasferito a Las Vegas dal Texas negli anni sessanta con una borsa di studio, racconta che andare a scuola era l’unico modo per non fare il militare. A 21 anni trovò lavoro come croupier presso il casinò Horseshoe, di Binion, e da quel momento ha fatto tutti i lavori possibili dell’ambiente, da responsabile di sala a direttore di casinò. Poi, dieci anni fa, ha mollato tutto. È diventato ricco con il best seller Comp city, un manuale su come approfittare al massimo di tutte le offerte speciali di Vegas, e ora lavora come consulente per entrambi i lati del tavolo verde.
Ma la sua passione resta il blackjack. A gennaio di ogni anno organizza il Blackjack ball nel seminterrato della sua grande casa, trasformato in casinò. Un festino che attira alcuni dei migliori giocatori del mondo, compresi gli appartenenti ai famigerati team di professionisti a tempo pieno che passano sistematicamente da un casinò all’altro, come locuste silenziose che campano facendo razzia dei proventi del gioco.
Come James Bond
“Ci sono giocatori che prendono l’iniziativa e giocatori che scappano”, mi spiega Rubin. “Quelli che rischiano giocano a blackjack o a craps. Quelli che scappano preferiscono le macchinette. Ma pensa a come ti senti quando giochi: hai mai incontrato uno alla slot machine che dice di sentirsi come James Bond? Non credo proprio!”.
Siamo nel suo salotto e Rubin, con un bicchiere in mano, mi dice: “Supponiamo che hai cinquantamila dollari e apri un chiosco di panini o una roba simile. Quante possibilità hai di fare veramente i soldi? Non molte. Adesso prendiamo il blackjack: lì sì che hai molte possibilità in più di farcela. È vero che comunque parti svantaggiato, ma non è sempre così, in fondo? Per lo meno con il blackjack giochi con un numero di possibilità quasi pari. Quante altre volte ti capita nella vita?”.
La risposta la lasciamo ai filosofi. Rubin però ha senz’altro ragione quando parla delle possibilità offerte dal blackjack. A meno che tu sia il proprietario del casinò, nessun altro gioco ti dà altrettante chance di vittoria. Se scegli la versione giusta del blackjack e se te ne intendi almeno un po’, il banco ha un vantaggio inferiore, ma di molto, allo 0,5 per cento. Paragonalo agli altri giochi succhia soldi, i “giochi della casa” come la ruota della fortuna, che ha una probabilità di vincita per il banco fino al 24 per cento maggiore di quella del giocatore, oppure il Keno, simile al bingo, che arriva al 33 per cento. La roulette – sulla quale il giocatore non esercita alcun controllo e che non richiede abilità se non quella, puramente fisica, di riversare gettoni sul tavolo verde – lascia al banco un vantaggio del 5 per cento (come potrebbe essere altrimenti visto che il banco paga 35 a uno anche se ci sono 38 numeri sulla ruota?). Le slot machine, aggeggi con cui ho giurato di non abbassarmi mai a giocare, possono arrivare a tenersi legalmente fino al 25 per cento di ciò che ingurgitano. Anche macchine che “garantiscono” di restituire il 98 o 99 per cento del denaro puntato, lo fanno sul lungo periodo, cioè circa un milione di giocate. Il che significa che potresti capitare nel mezzo milione di giocate sfortunate dove chi punta perde il 98 o il 99 per cento dei suoi soldi. O il 200, o il 300.
I giocatori di solito sono dei brocchi. Non sanno giocare e non vogliono neppure imparare
Il videopoker, il crack del giocatore d’azzardo moderno, lascia più o meno le stesse possibilità del blackjack, ma solo se giochi con la perfezione di un computer. E stare seduti da soli di fronte a uno schermo a premere bottoni ogni otto secondi non mi sembra proprio la cosa più divertente del mondo. Il craps è equilibrato. Ci gioco quando voglio divertirmi e perché al tavolo si sono sempre dei pittoreschi croupier della vecchia scuola. Però non mi piace l’idea che la mia fortuna dipenda da un semplice lancio di dadi, e così non ci investo troppi soldi. Il baccarat, gioco che inebetisce per la sua semplicità, è solo per i ricchi e stupidi, quindi no, grazie. Il Texas hold’em, una variante a carte scoperte del poker, può regalare milioni, se sei un campione mondiale. Ma richiede troppa abilità: con il poker non giochi le carte, giochi gli altri giocatori. Meglio di no.
I cosiddetti giochi da carnevale come il poker caraibico, il poker a tre carte e la casino war sono fatti per far vincere il banco, vere e proprie rapine a danno degli ingenui inguaribili. Dovrebbero essere solo l’ultima alternativa valida alla roulette russa, le cui possibilità di vincita sono di poco peggiori. Eccoci quindi al blackjack.
Regole semplici
Bisogna saperci giocare e bisogna saper puntare. I negozi di articoli da regalo di tutti i casinò vendono delle schede plastificate con istruzioni spicciole su quando chieder carta e quando no. I casinò le vendono ad appena un dollaro o due perché sono pochi quelli che le prendono in considerazione.
Invece dovrebbero. Detto in modo telegrafico, con un sacco di eccezioni alla regola e, come se non bastasse, una decina di casi particolari da tenere a mente, il gioco sta tutto in poche dritte: se basta una carta per far saltare sia te sia il banco, stai e fallo giocare. Allo stesso modo, se il banco ha diciassette o più, con un dieci, allora devi rischiare e cercare di fare diciassette o più anche tu.
Abbastanza semplice. Eppure gli esperti dicono che a Las Vegas una mano su sei di blackjack viene giocata in modo sbagliato. Secondo le mie osservazioni le mani sbagliate sono almeno il doppio. Questo spiega perché un gioco che dà al banco una possibilità di vincita tra l’1 e il 2 per cento in più rispetto al giocatore genera comunque un utile che va dall’11 al 15 per cento.
Nonostante la proliferazione di manuali, siti internet e seminari sull’argomento, secondo Rubin “i giocatori di solito sono dei brocchi, lo sono sempre stati. Non sanno giocare e non vogliono neppure imparare. Non gliene frega niente. Molti pensano di poter vincere applicando le strategie fondamentali, ma solo il 10 per cento ci riesce davvero”.
L’atteggiamento più comune al tavolo da gioco è di spavalderia, e gli uomini, soprattutto i giovani, sono restii ad ammettere che ci vorrebbe almeno un minimo di applicazione e di studio prima di buttar soldi sul tavolo. Credono che basti una buona dose di testosterone e di tequila per spianarsi la strada verso la vittoria come bulldozer. Dovreste vedere le facce che fanno quando una nonnetta grassottella, che vanta anni di esperienza come croupier e che non vede l’ora di tornare a casa a sferruzzare la coperta, li distrugge in dieci minuti. Inoltre nel blackjack alcune mani non sono particolarmente difficili ma richiedono delle mosse strategiche controintuitive, che al giocatore medio sembrano sbagliate e illogiche. Non importa: gli otto devono essere sdoppiati se il croupier ha un dieci o anche un nove. E il giocatore deve puntare al diciassette o più se il banco ha una carta dal sette in su, e così via. Sono migliaia i giocatori che non vogliono capire la parte logica del gioco e che preferiscono adottare i loro “sistemi”. È con i loro soldi che sono stati costruiti i megacasinò. Mia madre, una fanatica del blackjack, mi insegnò a giocare quando ero piccolo e mi diede consigli completamente sbagliati, come quello di non andare mai oltre il dodici. Ci sono voluti anni di gioco da adulto per capire che dovevo dimenticare il sistema che l’aveva resa un’eterna perdente.
Le strategie funzionano solo per chi gioca molto. Gli altri devono affidarsi soprattutto alla fortuna
Un posto di Las Vegas dove so che mia madre non è mai stata è il Gamblers book club, una libreria dal pavimento scricchiolante e dalla luce violenta, allo squallido incrocio downtown tra l’Undicesima e la Charleston. Aperta nel 1969 dal giocatore incallito John Luckman – mai nome fu più adatto! – e da sua moglie Edna, oggi ha un fatturato di un milione di dollari. Solo la sezione dedicata al blackjack ha più di cento titoli.
“Abbiamo una nuova generazione di clienti”, mi dice il nuovo proprietario Howard Schwartz, 63 anni. “Il nostro software per il gioco d’azzardo si vende benissimo”. Intellettuale spiritoso con un’aria da gufo e una marcata somiglianza con Woody Allen, Schwartz – che tra le tante altre occupazioni precedenti è stato un attivista per Ralph Nader – fu assunto venticinque anni fa dopo una semplice telefonata con il proprietario di allora e dopo essersi bruciato una carriera come insegnante a Littleton, in Colorado. Ha ereditato il negozio qualche mese fa, dopo la morte di Edna.
“Quando arrivai qui”, mi confida, “avevo paura di rispondere al telefono su questioni legate al gioco. Non ne sapevo nulla”. Altri tempi. Ora i consigli di Schwartz sono ricercatissimi. In effetti, la nostra conversazione è interrotta da una telefonata dalla redazione della rivista Horse Player che gli chiede un articolo. Howard ne scrive molti.
Ma non sono solo le riviste e i quotidiani che lo chiamano a collaborare: “Ricevo di continuo chiamate direttamente dai tavoli dei casinò. A volte dai cellulari dei giocatori ai tavoli del poker del Taj Mahal di Atlantic City: ‘Cosa devo fare con una mano così?’, è la domanda più ricorrente. ‘Prega!’, rispondo di solito”.
Buon amico di Archie Karras, famoso per aver perso 18 milioni di dollari a poker e a craps, Howard non va matto per il gioco: “Dopo ventiquattro anni vissuti qui ho un margine di 1.700 dollari, circa 82 centesimi a settimana”. Schwartz non è neppure un grande fan della New Vegas, di cui critica la “sterile atmosfera aziendale e il modo paranoico e iperefficiente di affrontare le cose”.
Senza dubbio la libreria di Schwartz ha dato il suo contributo alla crescente ostilità dei casinò locali nei confronti del blackjack. I tanti manuali su come ottenere la vincita che ti cambia la vita contengono tutti, in un modo o nell’altro, lo stesso consiglio di base: tieni il conto delle carte, scemo! O per lo meno cerca di capire se ci sono ancora in giro carte alte o basse. Più carte alte ci sono maggiore è la probabilità che il banco sballi, quindi maggiore dovrebbe essere la puntata del giocatore.
Fino alla pubblicazione del famoso Beat the dealer di Ed Thorpe, nel 1962, il blackjack dei casinò di Vegas si basava su una mano giocata con un mazzo di 52 carte. Il libro di Thorpe diede il via a una guerra, in corso ancora oggi, di misure e contromisure strategiche. Per sfidare e confondere i giocatori appena convertiti al conteggio delle carte e ansiosi di verificare il sistema di Thorpe, i casinò cominciarono a personalizzare il gioco. Si aggiunse un secondo mazzo di carte, raddoppiando la difficoltà del conteggio. Poi diventò sempre più comune l’abitudine di giocare con sei o sette mazzi. Per limitare gli imbrogli dei croupier e permettere un adeguato alloggiamento di tutti questi mazzi di carte, le mani del croupier furono sostituite dal sabot, una scatola per la distribuzione automatica. Il blackjack giocato con un mazzo o due diventò una specie in via d’estinzione, sempre più relegato a pochi, squallidi casinò di serie B, downtown, lontani dallo Strip.
“La formula è semplice”, spiega Max Rubin. “Meno mazzi ci sono, meglio è per il giocatore”. Il vantaggio del mazzo singolo è il cosiddetto “effetto rimozione”. “Quando ti capita una combinazione cinque/sei, per esempio, se vuoi chiedere una carta più alta sai già che almeno un quarto dei cinque e dei sei sono già usciti”, mi spiega. Al contrario, in un gioco con sei mazzi, possono esserci ancora decine di carte simili pronte a essere scoperte dal croupier.
Guerra psicologica e nuovi trucchi
Man mano che i casinò moltiplicavano i mazzi, gli strateghi del computer trovavano e pubblicavano tecniche nuove e più efficienti per contare o, perlomeno, per cercare di prevedere cos’era rimasto nel mazzo. Una guerra psicologica che fa sempre un gran piacere ai casinò. Circa dieci anni fa comparvero le macchine per mischiare e distribuire automaticamente le carte, togliendo un altro possibile vantaggio al giocatore: il tentativo di carpire qualche dettaglio da queste operazioni. Inoltre la velocità del gioco aumentò del 20 per cento circa, con un’inevitabile crescita del 20 per cento anche delle perdite. Negli ultimi anni, i grandi casinò hanno presentato un’altra innovazione: le mischiatrici perpetue. Dopo ogni mano, le carte vengono inserite in una scatola nera che non si ferma mai; il gioco è senza interruzioni e il giocatore non riesce contare niente, se non le perdite accumulate.
Nei casinò di nuova generazione come il Palms l’obiettivo era di attirare una clientela giovane che non conosce le regole del blackjack. Il gioco è stato quindi “arricchito” da una serie di possibilità di puntate collaterali, tanto “divertenti” quanto svantaggiose per i giocatori. Punta un dollaro in più o – se sei proprio stupido – dieci dollari in più, per ciascuna mano della versione di blackjack che si chiama Lucky ladies, e se le due carte che ti arrivano sono due donne dello stesso seme porti a casa un bel bottino. Le uniche donne fortunate sono le ragazze dell’amministrazione, che accumulano allegre le vincite del banco.
Supervisori dagli occhi di falco, aiutati da esperti con gli sguardi fissi sui monitor delle telecamere, cercano di capire se c’è qualche giocatore che riesce a contare le carte. Non è illecito. Ma non è tollerato. Quando un responsabile di sala spia qualche scemotto che punta con regolarità dieci dollari ogni mano e improvvisamente vince cento dollari o più, subito pensa che abbia tenuto i conti e sappia cosa accadrà. Capita sempre più spesso che gli addetti non permettano ai giocatori di puntare cifre maggiori del quadruplo del minimo. Se cercate di puntare di più forse non vi spaccheranno la mano o non vi romperanno una gamba, ma sicuramente vi chiederanno di essere così cortesi da andarvene.
È l’Hilton che ha forse passato il segno nella sua guerra ai giocatori capaci. Al costo di ventimila dollari l’uno, sono stati installati tra molti dei ventuno tavoli da gioco un certo numero di Mindplay, apparecchietti per la scansione a infrarossi che creano istantaneamente un database computerizzato con le varie mosse di ciascuna mano giocata: una miniera d’oro per mettere a punto stratagemmi per difendere il banco e svelare, vanificandole, le strategie dei giocatori.
La maggior parte dei casinò offre molte varianti di blackjack. Le mischiatrici automatiche e le variazioni “divertenti” delle regole stanno rapidamente guadagnando terreno. Secondo quanto ho potuto osservare, la maggior parte dei giocatori non nota questi particolari e non pensa neppure per un istante che ci sia differenza tra una partita con una decina di mazzi di carte e il sistema del “moto perpetuo” della terribile mischiatrice Quick draw.
Una volta Ziggy, il mio croupier di fiducia, mi ha raccontato: “Al mio tavolo della Quick draw ci sono momenti in cui ho di fronte dieci giocatori, con biglietti da cento in mano, che vogliono comprare i gettoni e che aspettano, aspettano e aspettano che finisca la mano. Non riescono a capire perché la mano non finisce mai, perché io non devo mai mischiare il mazzo e perché non faccio mai una pausa. Ma i giocatori esperti odiano la macchinetta, e di solito non tornano più”.
Buona parte dei giocatori, almeno i non professionisti, non ha molta esperienza ed è comunque convinta di perdere. A ragione. “Molti giocano per puro divertimento e non c’è problema”, dice Rubin. “Comunque, le strategie funzionano solo per chi gioca molto. Il giocatore occasionale deve affidarsi soprattutto alla fortuna. La fortuna ha la meglio su tutto”.
Ovviamente preferisco le partite con un mazzo singolo, che un casinò snob dello Strip come il Mandalay bay è troppo furbo per ospitare nelle sue sale. Però, come dice Rubin, anch’io voglio divertirmi quando gioco. Giocare a blackjack non significa solo voler vincere quattrini. Sono le storie di Ziggy che mi tengono incollato o che mi fanno passare ore e ore a ciondolare intorno ai tavoli. Ziggy alla fine mi racconta di quella vecchietta che l’anno scorso entrò al Mandalay bay e vinse, incredibilmente, 28 mani di seguito. Un evento storico, che capita solo una volta nella vita e che avrebbe fatto vincere anche al giocatore più inesperto sacchi di soldi. E invece la signora, che testardamente si era rifiutata di aumentare le sue puntate a più di cinque dollari, il minimo del tavolo, o di puntare anche la minima parte delle sue vincite, se ne andò con appena 140 dollari anziché quella che avrebbe dovuto essere una vincita record. Poi arriva una storia che è tutto il contrario: un tipo entrò allo Horseshoe e cominciò con mille dollari. In poche ore era riuscito ad accumulare la somma stratosferica di 460mila dollari. Invece di andarsene ricco e felice, continuò a giocare per ore e finì per andarsene con appena novemila dollari. Il giorno dopo tornò per cercare di riottenere le vincite astronomiche della serata prima. Perse tutti i novemila dollari, più altri mille.
“Non vado in vacanza da quattro anni”, dice Ziggy, croupier. “Vorrei lavorare per sempre”
La gentilezza e la sagacia di Ziggy, il suo modo di raccontare aneddoti, il suo ricordare i bei tempi di Las Vegas, tutto ciò mi rende sopportabile l’idea di fare, ogni tanto, una turbolenta partita con tutti questi mazzi di carte. Quindi resto al tavolo anche dopo che Ziggy ha finito il suo turno e viene sostituito da una giovane asiatica. Non avevo mai visto nessuno condurre il gioco e mischiare le carte a una tale velocità, qualcosa come 150 mani all’ora.
Non tento neppure di contare la cascata di carte che esce dal box della croupier, è troppo veloce per il mio rudimentale sistema di conteggio. In ogni caso cerco di giocare ogni mano meticolosamente, affidandomi sempre alla strategia di base, cercando di non essere mai emotivo o di non affidarmi troppo al caso. E funziona. I miei rilanci vanno a buon fine, il banco salta regolarmente e io mi becco un aiuto generoso con una serie di diciannove e venti vincenti. Mi alzo tre ore dopo, stanco morto.
Guido lungo lo Strip, in quest’alba grigia e deserta, e guardo le luci dei casinò ancora tutte accese. Ho gli occhi stanchi e indolenziti, la gola secca per il fumo che ho respirato, lo stomaco ormai vuoto che protesta, la schiena a pezzi, le gambe insensibili, le orecchie assordate dai rumori del casinò, il cervello che funziona a malapena, sepolto da una ridda di pensieri indistinti che mi impediscono la concentrazione. Non ho la più pallida idea di come farò a fare tutte le interviste previste per oggi.
Ma sono felice. Penso ai 1.475 dollari che mi porto a casa dal Mandalay e mi sento un genio. Anche se so che ha ragione Max Rubin: è stata quasi solo pura, stupida fortuna.
La storia di Ziggy
Qualche giorno dopo pranzo con Ziggy, e trovarmelo di fronte in borghese, con i jeans stirati, un maglione bianco morbido e i capelli grigiastri e cotonati, invece che con la sua divisa fatta di pantaloni neri, camicia bianca e gilet aderente verde oro del Mandalay, mi ricorda un po’ la prima volta che mi capitò di vedere uno dei miei professori del liceo che bighellonava tra le corsie di Sears con una camicia di cotone a colori vivaci. A volte l’idea e l’immagine che si hanno di una persona sono indissolubilmente, e ingiustamente, legate al suo lavoro.
Ziggy è croupier da quasi trent’anni, ma è solo qualcosa che fa per vivere. Oggi ha il turno di notte. Visto così potrebbe essere un professore o un impiegato. È in tutto e per tutto un tranquillo, educato, sposato signore della media borghesia, un americano medio vicino alla sessantina e padre di tre figlie che odia le carte e non gioca assolutamente mai d’azzardo. “Quand’ero piccolo mia nonna mi faceva sempre giocare a canasta con lei e mi costringeva a tenere in mano tutte e quindici le carte”, mi racconta. “E come se non bastasse, barava pure”. Ziggy evita i tavoli e le slot machine che infestano ogni angolo di Las Vegas, compresi supermercati e distributori di benzina. In genere si diverte guardando la tv con sua moglie o badando alle piante di peperoncino che coltiva nel giardino della sua confortevole casa fuori città. Ma l’ascesa di Ziggy verso la rispettabilità e la tipica American way of life, ottenuta attraverso l’industria del gioco d’azzardo, riflette quasi perfettamente la trasformazione di Las Vegas.
Suo padre, nato in Svezia, salì a bordo di un mercantile a ventiquattro anni e sbarcò a Los Angeles giusto in tempo per lavorare alle olimpiadi del 1932. Dopo un incidente in cui andò a sbattere contro l’auto di Freeman Godfrey e dovette portare all’ospedale l’attore ferito, fu preso in simpatia da dei tipi di Hollywood, lavorò a un film con Errol Flynn e una volta uscì con Gloria Swanson.
A metà degli anni trenta, il padre di Ziggy si trovò a lavorare nel bar di un casinò illegale di proprietà della mafia al Raquet club, nel centro turistico del deserto californiano di Palm Springs. Come molti altri giocatori d’azzardo della zona di Los Angeles e dei loro cosiddetti soci, “emigrò” a Las Vegas nel 1939 e lavorò con quelli che due anni dopo avrebbero creato il primo locale sullo Strip, l’El rancho Vegas. Poi fu assunto per progettare e gestire il bar del Desert inn, nel 1950, e ne uscì solo per andare in pensione alla fine degli anni sessanta, quando Howard Hughes rilevò il locale dalla banda di Dalitz.
Gli anni d’oro
Secondo Ziggy non c’era “nulla di eccezionale” nell’essere bambino a Las Vegas negli anni quaranta e cinquanta. Avere compagni di classe con madri showgirl o padri croupier (il padre di uno dei suoi compagni era il proprietario del Dunes) gli sembrava del tutto naturale. Da adolescente Ziggy aveva deciso che gli sarebbe piaciuto fare l’elettricista, ma non riuscì a entrare nel sindacato perché, così dice, c’era troppo nepotismo. Era circondato dal gioco d’azzardo che, direttamente o indirettamente, dava lavoro quasi a tutti. Il suo primo impiego, quando faceva il liceo, fu come aiutocameriere al casinò del Flamingo. “Poco dopo scoprii le gallerie segrete che aveva costruito Bugsy, compresa quella che portava al suo ufficio privato”, mi confida. “I mafiosi non erano tutti cool e affascinanti come nei film. Alcuni non avevano affatto classe. Ricordo Sam Giancana al Flamingo che girava per il locale lanciando occhiatacce a tutti, me compreso. Quando la mafia vendette il Flamingo a Kerkorian, li aiutai a rubare l’argenteria dall’hotel”, ricorda con un sorrisetto. “Ero aiutocameriere e loro mi dissero che dovevo caricare l’argenteria in certi furgoni che aspettavano sul retro prima di dare le chiavi ai nuovi proprietari”.
“Una cosa era completamente diversa, questo è sicuro: nessuno era trasandato. Non come oggi, che la gente va a vedere gli spettacoli la sera senza neppure darsi la pena di cambiarsi la maglietta che ha indossato per tutta la giornata. Allora non era così. La malavita manteneva pulita questa città. Importunavi le signore o i bambini? Peggio per te. Ti ammazzavano, semplicemente”.
Ziggy ricorda anche un giorno al Desert inn in cui si trovò con suo padre a guardare Sammy Davis jr che girava una scena del film culto del Rat Pack, Colpo grosso, la famosa sequenza del camion della spazzatura in cui canta il tema del film. “I mafiosi erano volgarotti. Ma quanto a essere cool, nessuno era cool come Cesar Romero in quel film. Neanche Cesar Romero”. Anche se dice di non provare nostalgia per quel periodo, non c’è dubbio che l’era del dominio della mafia su Las Vegas, allora già avviata al tramonto, fu davvero molto, molto proficua per Ziggy e gli permise di farsi una professione stabile, rispettata ed economicamente vantaggiosa. Oggi i dealer e i croupier di tutta Las Vegas sono assunti con il salario minimo. Il resto dei loro guadagni arriva dai “tiri”, le mance lasciate dai giocatori riconoscenti o superstiziosi (i tanti che sono convinti che se oliano i croupier, loro faranno qualche prezioso segnale quando distribuiranno le carte). Nella maggior parte dei casinò, le mance vengono equamente distribuite tra tutti i dealer. In un articolo pubblicato dal bollettino Dealers News si dice che il totale di mance guadagnate in media ogni notte dai dealer dei casinò fuori dallo Strip è di appena 60 dollari; quelli che lavorano al Bellagio o al Mandalay bay, invece, riescono a fare fino a 225 dollari a turno, quasi quanto gli undicimila dollari all’anno delle cameriere nei cocktail bar.
Ma ottenere un lavoro in un posto come il Mandalay significa dover pagare qualcosa a qualcuno. Fu così anche per Ziggy. Il suo primo posto di dealer lo ebbe a ventun anni al Carousel, un localaccio downtown dove si giocava blackjack con gettoni da 25 centesimi e craps con quelli da cinque. Da lì fece la tipica scalata dei casinò: lo Slot-a-fun, poi il Thunderbird, ora chiuso e all’epoca gestito dalla mafia, poi il grande salto, quando fu assunto al Desert inn all’inizio degli anni ottanta. “Il Desert inn era fantastico”, dice Ziggy. “L’ultimo posto rimasto dove i dealer erano trattati come gente speciale. Avevamo un salotto per rilassarci, ci davano lo stesso cibo che si serviva al ristorante, ci offrivano di tutto e di più. George Deverall, che gestiva il locale, aveva assunto personalmente tutti i dealer e ci conosceva tutti per nome”. Quando Deverall lasciò il locale, Ziggy lo seguì: prima al Dunes, poi al Tropicana, infine al Mandalay bay. “Fare questo lavoro mi ha sempre permesso di vivere bene. Anche il primo giorno al Carousel, quando ho guadagnato solo 75 centesimi”, continua Ziggy. “E ho sempre preso il lavoro seriamente come una professione, una carriera. E lo stesso vale per molti della mia generazione. Oggi invece un sacco di giovani croupier fanno questo lavoro transitoriamente. Vanno e vengono, lo considerano un ponte per poi fare qualcos’altro, in genere per lavorare nella compravendita di case. Ma io no. Dopo 27 anni, ogni sera quando arrivo al tavolo sono felice. E quando devo andarmene mi sento, come dire, bleah! Non vorrei fare nient’altro. Mi diverto lavorando e mi divertono i giocatori. Parlo molto e i capi mi lasciano fare. Mi piace insegnare il gioco. Voglio che la gente impari a giocare come si deve. Più vincono, più mance mi danno. E mi piace la gente che viene al mio tavolo. I migliori sono i becchini. Si divertono un sacco. Il tavolo da gioco è l’unico posto dove possano divertirsi. Che dirti di più? Mi piace il mio lavoro. Non vado in vacanza da quattro anni. Vorrei lavorare per sempre”.
Quando chiedo a Ziggy qual è la parte peggiore del suo lavoro, esita e poi mi dice con un sorriso: “Credo che non ci sia, davvero”, con un tono di protesta nella voce. “Niente. È raro che mi capiti un giocatore fastidioso, e quando è capitato ho sempre avuto piena comprensione dagli altri che erano al tavolo con me. Credo che sì, a volte sia difficile vedere della brava gente perdere. Direi che il 50 per cento della gente che si siede al mio tavolo non ha la più pallida idea di come affrontare il gioco. E il 75, o forse anche l’85 per cento dei giocatori, quando lascia il tavolo è completamente al verde. La parte più difficile del gioco d’azzardo è riuscire ad alzarsi dal tavolo verde e avere ancora i propri soldi”.
Ziggy mi guarda fisso. Dopo aver giocato al suo tavolo per ore e ore, anzi giorni e giorni, e dopo che ci siamo detti un sacco di cose in questi ultimi mesi, mi scopro ad arrossire davanti a lui. È come se stessi parlando con il mio medico di famiglia, uno che è al corrente di tutti i segreti – spiacevoli o meno – del suo paziente.
L’adescatore
Un pomeriggio, davanti a un caffè, Bill Friedman – che un tempo gestiva i casinò del Castaway e del Silver slipper per Howard Hughes e che da non molto ha scritto un libro pieno di suggerimenti interessanti su come progettare un casinò – mi dice che diventare croupier a Las Vegas era la sua aspirazione fin da bambino. “A sette anni i miei genitori mi portarono a Lake Tahoe, e ricordo che passai la giornata a osservare i tavoli da gioco”, racconta. “Gli altri bambini volevano tutti fare il pompiere; io no, io volevo essere un dealer”.
Per inseguire il suo sogno lasciò la sua città natale, Oakland, e arrivò a Las Vegas nel 1964. Appena compiuti ventun anni fu assunto come “shill” con la paga di un dollaro all’ora all’hotel Fremont, downtown. Lo shill è una specie di adescatore, di solito stipendiato dal casinò, che finge di essere un giocatore ma in realtà fa di tutto perché a giocare siano gli altri. “A quei tempi il Fremont era un posto molto famoso per i dadi”, mi racconta. “Eravamo in quaranta shill in giro per i tavoli, perché volevano che ci fossero almeno sei giocatori per ogni tavolo di craps. Io andavo al lavoro con un paio di pantaloni neri e una camicia bianca sempre a portata di mano in un sacchetto di plastica: speravo che qualche dealer si beccasse un accidente e che mi dessero la possibilità di sostituirlo e di far vedere quel che sapevo fare”.
La scuola per croupier offre un posto nell’unica nicchia in crescita dell’economia americana
Nella nuova generazione di croupier di Las Vegas ce ne sono pochi che hanno un passato come quello di Ziggy o di Bill Friedman, gente con il gioco nel sangue. La maggior parte di loro entra nel casinò dopo un corso frequentato in una scuola per dealer, posti che hanno lo stesso fascino di una scuola per agenti immobiliari. Ci sono scuole che vengono e scuole che vanno, ovviamente, anche a Las Vegas; cinque o sei sono più stabili delle altre, e sfornano ogni anno migliaia di nuovi dealer diplomati.
Nick Kallos, ex uomo di fatica di una fattoria in Nebraska ed ex dealer, gestisce da quattordici anni la Casino gaming school, con sede al secondo piano di uno stabile commerciale defilato a est dello Strip. È una qualsiasi mattina di un giorno feriale: a scuola c’è una ventina di studenti di tutte le età, fattezze e colori, diligentemente impegnati in esercizi pratici. I nuovi arrivati dispongono le carte su un tavolo e osservano i propri movimenti allo specchio. Altri si allenano a mischiare, fare giochi con le carte riuscendo poi sempre a farne una pila perfetta, oppure a contare i gettoni, a metterli uno sull’altro o a dividerli in file perfettamente allineate, a “proteggere il banco” quando si danno le carte a mano e a dare una sbirciatina alle carte coperte senza mostrarle ai giocatori.
In classe
A un tavolo d’angolo un maestro insegna come tenere il banco del poker. Ci sono anche due tavoli di roulette e uno di craps in piena attività. A uno dei sei tavoli da blackjack, tre signore asiatiche sulla quarantina stanno insegnando a un uomo come gestire un banco multiplo. Il giovane è quasi pronto per il provino con Nick, l’esame da passare prima di ricevere il certificato ufficiale. Il barbuto Nick, che indossa una camicia con disegni hawaiani e un paio di bermuda, sta dicendo qualcosa al giovane sulla sua manicure: “Mi sembra di essere loro padre. Gli ripeto che devono avere le unghie ben tagliate ed essere ben pettinati; o che devono farsi la barba, essere sempre puliti, togliersi gli orecchini e nascondere i tatuaggi. I casinò vogliono croupier che rispecchino l’immagine dell’americano tradizionale”.
Giustamente Nick ci tiene molto al successo della sua scuola e non vuole che per colpa di qualche studente trasandato la sua fama ne risenta. Tre quarti degli iscritti che ogni anno vengono da lui termina il corso, e lui sostiene che dopo il diploma è in grado di trovare subito un posto di lavoro almeno all’80 per cento di loro. Dove altro in America, mi chiede, esci di casa e, indipendentemente da chi sei e cos’hai fatto prima, riesci a prepararti una nuova carriera nel blackjack con un corso di cento ore per appena 249 dollari? O aggiungere una seconda specialità – craps, roulette, baccarat, poker – per altri 200 verdoni?
“Di solito da me viene il miglior 3 per cento dei laureati dell’università di Las Vegas”, mi dice. “Tutto quello che hanno è una stanzetta e, se sono fortunati, 25mila dollari all’anno di stipendio, dopo quattro anni passati a studiare. Io gli faccio un corso di quattro settimane che gli permette di mandare a quel paese tutto il resto”, continua Nick citando molti esempi di studenti che guadagnano mille dollari a settimana o anche più al secondo anno di attività. “Ho dei tipi qui che riescono a finire il corso in una decina di giorni perché non hanno scelta: hanno solo soldi abbastanza per tre settimane d’affitto, quindi devono farsi il mazzo”.
Faccio un giretto per la scuola e, devo dire, non trovo nessuno dall’aria troppo disperata. Nella maggior parte dei casi sembra che gli studenti la pensino come Ziggy: vogliono imparare un lavoro che gli piace e che li diverte. È come se i casinò che torreggiano nella città fossero l’unica garanzia solida per il futuro. Le brutte notizie dal resto del mondo – la recessione, la stagnazione, l’aumento della disoccupazione e la perdita di potere d’acquisto degli stipendi – sono forse le cause che li hanno spinti qui, ma non fanno più parte del loro futuro. Per 249 dollari si sono comprati un posticino in quell’unica nicchia di economia statunitense che continua a crescere indipendentemente da tutto il resto. L’unica seria minaccia alla loro stabilità futura, dice Nick, è il loro carattere e le continue tentazioni che la città, come una sirena, mette con un invitante sorriso ai loro piedi.
“Perché c’è sempre una grande richiesta per posti di lavoro così buoni?”, continua Nick. “Be’, non pensi sia difficile per un ragazzino di ventun anni controllarsi in un ambiente come questo? Credimi, è molto difficile. Vedere gente che beve e gioca d’azzardo intorno a te per ventiquattr’ore al giorno è dura. Io dico ai ragazzi di farsi forza e tenere duro perché ne vale la pena. Un’altra bella cosa che gli dico sul gioco d’azzardo è che, una volta preso il diploma qui, se ne possono andare dove vogliono negli Stati Uniti e trovare lavoro. Hanno i ferri del mestiere. E se puoi dire di aver lavorato a Las Vegas… be’, allora, caro mio, sei a posto, blindato. Hai un futuro davanti a te dappertutto”.
Come da copione, alle undici un nuovo potenziale studente entra nello studio di Nick, uno stanzino senza finestre che trabocca di trofei, libri e poster di Elvis, Corvette e del film di Scorsese Casinò. Il ragazzo che si presenta al colloquio è un trentatreenne del Kansas biondo, palestrato e tirato a lucido. Lo chiamerò Jim. Ha lavorato di notte come guardia privata al Sun coast. Nick lo mette un po’ alla prova, ma Jim non deve convincere nessuno. Dopo cinque minuti è pronto per iscriversi e sta già dicendo a Nick che cercherà di fare del suo meglio venendo al corso tre o quattro giorni a settimana per cinque o sei ore al giorno. Nick gli risponde che non si pentirà mai della decisione che ha preso oggi.
Come potrebbe? La moglie di Jim, Delia, è al suo fianco e coccola il loro piccolo di due anni. Una vera bellezza, Delia: 28 anni, mora, jeans stretti, ombelico in mostra e addominali d’acciaio. Anche lei è arrivata qui cinque anni fa al seguito di un ragazzo. Andò tutto a rotoli e lei cominciò a lavorare come ballerina in spettacoli di nudo al club Little darlings. Lì ha conosciuto il suo attuale compagno, Jim, che faceva il buttafuori. “Non so dove sarei finita se avessi continuato a fare la ballerina”, dice. Un amico le ha consigliato la scuola di Nick e tre anni fa ha cominciato a frequentare il corso di craps. Ora è croupier ai dadi al Flamingo. Secondo Nick guadagna 50mila dollari all’anno, forse di più. “Mi piace davvero tanto”, dice Delia del suo lavoro, stringendo al petto il bambino. “Non avrei mai pensato di poter essere così contenta”.
“Appena Jim trova il suo primo lavoro da croupier”, rimette giù il figlio e abbraccia le larghe spalle del marito, “compreremo la casa dei nostri sogni. L’ho già scelta”. Nick le chiede dove e la conversazione si sposta sui vantaggi di comprare a Summerlin, a Green Valley o vicino a Red Rock, le tre zone più gettonate del mercato immobiliare di Las Vegas. Il palpabile entusiasmo di Jim e Delia sembra lontano anni luce dai titoli dei giornali economici, del tutto asincrono rispetto alla catastrofica situazione del lavoro che c’è altrove.
I loro sentimenti devono essere simili a quelli provati dagli operai della catena di montaggio di Henry Ford negli anni dieci, quando furono in grado di permettersi la loro prima Ford T.
(Traduzione di Paolo Maria Noseda )
Questo articolo è stato pubblicato il 5 agosto 2005 sul numero 602 di Internazionale. È un estratto del libro “L’ultimo posto onesto in America” (Fusi Orari 2005)