Al Salone internazionale del libro d’Algeri si è propagata per giorni un’onda femminista tra gli stand e padiglioni di oltre mille case editrici. È la fiera del libro più grande del continente africano e del mondo arabo e, dopo due anni di pandemia, più di un milione di visitatori e visitatrici hanno varcato l’ingresso dell’esposizione. Numeri già consolidati da anni – il salone si è svolto tra il 24 marzo e il 1 aprile ed è alla sua venticinquesima edizione – ma che nessuno tra organizzatori ed editori si aspettava dopo la chiusura causata dal covid e una crisi socioeconomica in corso. Oltretutto a ridosso del mese di Ramadan, durante il quale le spese per cibo e vestiti aumentano. “La partecipazione del pubblico algerino ci ha stupito”, racconta Selma Hellal, fondatrice insieme a Sofiane Hadjadj della casa editrice Barzakh. “Un flusso regolare di persone curiose, interessate, che chiedono titoli che già conoscono”.
Maya Oubadi, 33 anni, anche lei fondatrice ed editrice della piccola e preziosa Editions Motifs, era impaziente ed emozionata soprattutto per la presentazione della loro nuova rivista femminista bilingue, La Place, in arabo algerino El Blasa (il posto). “La rivista è appena nata, il numero zero è stato lanciato l’8 marzo”, ha esordito. “Da tempo però mi chiedevo: che cosa manca nell’offerta editoriale? Volevo creare qualcosa che non trova spazio altrove. E la risposta era evidente: il femminismo, i racconti femministi, il posto, la place appunto, per il pensiero femminista. Percorsi di militanti e lotte del passato e del presente, ma anche profili, esperienze di donne che non ti aspetteresti di leggere”. Ed è così che insieme alla sua amica Saadia Gacem, antropologa del diritto e attivista che collabora all’Archivio di lotte di donne in Algeria, hanno messo su una rivista dai colori accesi perché così volevano apparire: con grandi caratteri per non rischiare di essere invisibili, al contrario prendersi tutto lo spazio possibile.
Con lo stesso spirito pochi anni fa Oubadi aveva fondato Edition Motifs per pubblicare la rivista di critica letteraria Fasl (virgola in arabo), sempre bilingue arabo e francese, che è giunta al suo quinto numero. “Scrittori e scrittrici creano le loro opere, ma non ci sono abbastanza finestre per parlare in profondità della letteratura. Le pagine di cultura dei giornali sono poche e devono coprire anche il cinema, la musica, le arti. Per me letteratura significa andare in profondità”. Stessa intuizione per il femminismo, racconta seduta di fronte alla pila fosforescente di copie di La Place. “Sappiamo che ci sono state riviste femministe algerine, come tanti sono i collettivi e le associazioni. Ma ne esistono oggi? Ognuna delle nostre storie è una microstoria, la loro composizione forma la riflessione della rivista, la nostra analisi del mondo”.
Un punto di vista differente
La scelta del titolo è stata frutto di un lungo processo. Si ispira a quello di uno dei bellissimi romanzi di Annie Ernaux, Il posto. “L’autrice femminista francese è ampiamente tradotta e letta nel mondo arabo. Solo che il sostantivo in arabo standard per il posto, al makan, non ha una risonanza diretta nel pubblico locale. Invece in arabo algerino era perfetto: El Blasa!”. Con questo termine, Maya Oubadi e Saadia Gacem sfidano contemporaneamente uno stereotipo, una frase ripetuta spesso alle donne in Algeria, “blastek fil cusina”, il tuo posto è in cucina. In questo caso invece il posto della rivista è al Salone internazionale del libro tra migliaia di titoli.
Sfogliando le pagine dalla carta spessa, di un bianco avorio, ci si imbatte nell’intervista con un’attrice teatrale e psicologa di Orano, nella lista dei femminicidi in Algeria nel 2021, nelle cronache giudiziarie di un divorzio basato sugli abusi e in quelle sulla maternità, oltre a racconti di lotta femminista dagli anni ottanta all’hirak del 2019, il movimento di sollevamento popolare algerino che ha portato alla fine del ventennio del presidente Bouteflika. Tre anni dopo però la speranza che l’hirak aveva acceso in milioni di algerini si è spenta. Al cambiamento del presidente non ha corrisposto un cambiamento di sistema. “L’hirak mi mancava già prima che terminasse”, ricorda Oubadi. “Avevo intuito che non bastava scendere in strada e ci siamo tutti un po’ depressi quando è finito davvero. Ma portare avanti il mio lavoro mi ha motivato: bisogna continuare a fare”. E con questo numero zero, sembra che lei e Gacem abbiano pubblicato solo una parte di una lunga lista di donne da ascoltare, coinvolgere, ripubblicare. “Il femminismo l’ho scoperto leggendo, fa parte di una di quelle rivelazioni”, dice Oubadi, “non vedo perché ad altre persone non possa succedere la stessa cosa con La Place”.
“Oggi le ragazze sono più consapevoli. Sono femministe senza sapere di esserlo”
Selma Hellal, una delle fondatrici delle edizioni Barzakh, la propria epifania l’ha avuta quando, proprio nel periodo in cui cominciava l’hirak nel 2019, si è ritrovata tra le mani un testo sullo stupro, scritto dall’autrice algerina Souad Labbize. “Questi momenti nella vita di un editore sono davvero pochi. Il breve, poetico, efficace testo di Labbize si è imposto su di me”, racconta Hellal, interrotta spesso da lettori e lettrici al suo stand di Barzakh. “Nei momenti di crisi, come editrice mi sono chiesta spesso a che servisse pubblicare testi, cosa può mai cambiare. Nei giorni dell’hirak ho dato un senso a queste domande e non solo ho pubblicato Dire le viol (dire lo stupro) in arabo e francese, ma ho cominciato a distribuirlo gratuitamente. La riflessione dolorosa, l’urlo di questa scrittrice nell’impossibilità di dirlo a sua madre mi ha fatto pensare che tutti dovessero leggerlo. Era il mio modo di partecipare alla rivoluzione”. L’eco suscitata dal testo è stata confermata a distanza di tre anni quando l’ha contattata al telefono una donna che in tono di rimprovero le ha detto: “E perché non l’hai distribuito pure agli imam nelle moschee?”.
Nella sua coscienza di editrice qualcosa si era già mosso in precedenza: si chiedeva perché ci fossero poche pubblicazioni di donne nel suo catalogo. “Spesso le donne si nascondono dietro pseudonimi. Volevo cominciare a pubblicare più autrici ma anche suscitare in loro il desiderio di scrivere”. L’esordio di Assia Djebar, Le soif (La sete), scritto quando Djebar aveva solo vent’anni nel 1957, per Hellal era più che un capolavoro, “ma era introvabile. Solo ripubblicandolo poteva tornare a essere letto”.
Contro le discriminazioni
Al più grande padiglione della fiera, dedicato quest’anno all’Italia, paese ospite di questa edizione, anche l’arabista Jolanda Guardi riparte dalla scrittura negli anni della lotta anticoloniale francese. “Le donne hanno un punto di vista differente. La narrazione dell’indipendenza algerina l’hanno fatta gli uomini, nonostante le donne abbiano avuto un ruolo fondamentale durante la battaglia. La prima che ha cominciato a scriverne è stata Zouhour Wanissi, prima dell’indipendenza, dalla madrasa al hurra (scuola libera) dove si insegnava l’arabo di nascosto. Poi Ahlam Mosteghanemi ha ripercorso gli ideali della rivoluzione e come stessero andando le cose dopo l’indipendenza. Infine, è arrivato il decennio nero, gli anni novanta, con il terrorismo e la guerra civile. Anche lì è stata necessaria una riscrittura da parte delle donne. L’ha fatto nei primi anni duemila Fadhila el Faroukh”. Oggi però, secondo Guardi, nella costellazione di scritture al femminile è più difficile fare un nome. “Gli uomini sono la maggior parte degli scrittori in arabo. Le donne scrivono più in francese. Ho tradotto dall’arabo Il bianco e il nero di Amal Bouchareb, che vive in Italia. Sono qui in ascolto, per trovare nuovi talenti e portare libri a casa. Prontissima per una nuova traduzione”.
Prima della lunga fila che precede i metal detector all’ingresso del salone, uno stand tutto al femminile ha una sua coda a parte, con ragazzi o ragazze curiose di capire di cosa si tratta. Oltre alle studenti con la divisa scolastica, si avvicinano coppie di amiche per chiedere. È la web radio Voix des femmes (Voci di donne), che insieme alle associazioni Tbd e Salamat, presidia il salone per informare sulla violenza online. “Molte ragazze sono insultate sui profili social, ricattate con foto, non tutte sanno come rispondere. Siamo qui per fare un sondaggio e approfondire l’argomento”, spiega Samira Dehri, tra le fondatrici della radio. “Altre invece, anche tra le giovanissime, sono molto forti, ci hanno raccontato di essersi difese, di aver risposto ‘non mi parlare in questo modo’ ai loro aggressori online. La generazione precedente aveva paura. Oggi le ragazze sono più consapevoli. Sono femministe senza sapere di esserlo”.
La radio è presente al Salone del libro per parlare di tutte le scrittrici e le iniziative al femminile, come la rivista La Place. “Facciamo rete, ci sosteniamo a vicenda. Difficile che le donne siano ascoltate come esperte ma piuttosto vengono chiamate per raccontare la loro testimonianza. Noi pensiamo il mondo e le donne nei mezzi d’informazione in maniera diversa”.
Amal Hadjaj è una delle fondatrici del Journal Féministe Algérien, presente al salone, e riguardo ai giornali e allo spazio per il racconto femminista la pensa proprio come Dehri, Hellal, Gacem e Oubadi. E aggiunge: “Deve cambiare il linguaggio, dobbiamo avere un linguaggio femminista e algerino”. Non a caso quando il giorno della chiusura il Salone del libro ha pubblicato il numero delle persone che hanno visitato la grande fiera “1,3 milioni di visitatori” con la precisazione “*escluse donne incinte e bambini”, il Journal Féministe Algérien ha immediatamente denunciato insieme ad altre reti “le statistiche ufficiali che escludono le donne e identificano quelle incinte come categoria minore, tanto da non comparire”, ricordando che “la discriminazione è punita dalla legge algerina e la costituzione garantisce l’uguaglianza tra cittadini e cittadine”. La pagina ufficiale del salone ha cancellato quell’asterisco che escludeva. Una piccola battaglia vinta. Le femministe algerine non risparmiano le critiche a nessuno.
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