Tra pubblici e privati, a Roma si contano 171 musei. Per saperlo li ho prima contati uno per uno su Wikipedia, poi mi sono fatto confermare il dato da un ragazzo gentile che lavora allo 060606 che ha chiesto a qualche collega dimenticandosi di mettermi in attesa. Per la maggior parte sono musei piccoli e bellissimi che sono fuori dei grandi circuiti museali, delle grandi opere d’arte che costellano il patrimonio storico cittadino.
Tanti languiscono nella solitudine, in situazioni lavorative precarie, a volte senza direttori, e senza una promozione adeguata che sia al livello delle loro esposizioni. I musei vuoti di Roma raccontano una storia di scollamento tra la città e la sua storia, tra la città e i suoi abitanti. Per fornire un esempio, il museo nazionale dell’alto medioevo, secondo i dati rilasciati per il 2015 dal ministero dei beni cultarali, in un anno ha avuto 9.466 visitatori, di cui solo un terzo paganti, per un incasso totale di 12.750 euro.
Questo vuol dire che la maggior parte dei visitatori ha preferito visitare il museo in una prima domenica del mese, quando il biglietto è gratuito per tutti (a fronte di una spesa di quattro euro) o si trattava per lo più di persone sotto i diciotto anni per le quali il biglietto è sempre gratuito.
Ma i dati per i piccoli musei sono simili: se si escludono i grandi circuiti come quello dell’Anfiteatro Flavio o di Villa Borghese, di solito, nonostante la possibilità di entrate gratuite, le visite rimangono limitate.
Silenzio imbarazzante
Il museo nazionale dell’alto medioevo è un piccolo gioiello incastonato tra le bianche linee verticali dell’architettura razionalista dell’Eur. Avevo letto che quei palazzi, che ospitano anche il museo etnografico Pigorini e il museo delle arti e tradizioni popolari, erano stati venduti per finanziare il completamento della Nuvola di Fuksas poco distante.
Il museo era completamente vuoto, le luci abbassate, i monitor spenti. Quando sono entrato la signora della biglietteria mi ha guardato stupita ed è accorsa ad accendere le luci. “Sono tre giorni che non viene nessuno”, ha detto. Come mi aspettavo, il museo era splendido e il silenzio era imbarazzante: era come se in una riflessione inusuale dei miei neuroni specchio fossi entrato in empatia per la solitudine di un posto che in qualche modo sembrava che avessi contribuito a creare.
La vuotezza di quel museo mi faceva sentire in colpa, e tutti i corni potori, tutti gli umboni di scudo, tutte le fibbie, fino a tutte le tessere del meraviglioso Opus sectile della domus di porta Marina sistemato al termine del percorso didattico parlavano di un luogo dimenticato. Quando me ne sono andato ho chiesto alla signora perché non ci fosse nessuno e lei ha alzato le spalle: “Non abbiamo neanche il direttore”, e mentre me ne andavo ho pensato che non era giusto, anche se mi era piaciuto.
Non era tanto la retorica della conservazione della memoria di un passato comune che mi faceva impallidire (che in qualche modo in effetti era preservata) ma il fatto che quei luoghi non interessassero a nessuno. Mi sono chiesto se un museo che non ha visitatori effettivamente continuasse a esistere o se una volta chiusa la porta svanisse in un mondo delle idee platonico per difendere la sua vocazione e non diventare un polveroso magazzino buono per le visite dei laureandi, esperti del settore e pochi altri.
Sale enormi e altissime piene di reperti: la proporzione con il numero di visitatori è impietosa
Era evidente che quello non fosse l’unico, che a Roma i musei vuoti fossero una specie di luogo sacro che la città continuava ad accogliere dentro di sé come sacche di resistenza a una barbarie qualsiasi, non meglio specificata, combattuta a colpi di talloncini verde scuro di tassonomie novecentesche, di calligrafie antiche fatte a matita.
Mi sono chiesto dove fossero, questi piccoli musei di storia e di archeologia pubblicizzati pochissimo, fuori del circuito delle grandi esposizioni museali che richiamano la folla globalizzata dei fruitori d’arte contemporanea.
Il Pigorini per dire, il museo etnoantropologico che gli è accanto, è molto diverso, sia per dimensioni sia per stile. I suoi padiglioni sono enormi, le vetrate intarsiate lasciano filtrare la luce azzurra dell’Eur fin sui marmi. La solitudine è massimizzata da tutto quello spazio da riempire. Il primo piano ospita i padiglioni della sezione etnografica: i primi reperti furono raccolti in Africa dal gesuita Athanasius Kircher al quale poi Pigorini aggiunse reperti dalle più importanti collezioni settecentesche.
Manca il padiglione dell’Asia, non ho capito bene perché. Forse perché ho un debole dichiarato per loro, ma il percorso che tocca l’arte delle popolazioni precolombiane è sorprendente. Sale enormi e altissime piene di reperti dall’Africa nera, barche indonesiane, feticci, maschere rituali pellerossa: la proporzione tra il numero dei reperti e quello dei visitatori è impietosa.
Il piano superiore invece ospita un percorso basato sulla preistoria umana e sulla sua evoluzione: le schede introduttive sono attaccate con delle catenelle ai muri, i plastici con le curve di livello marroni e verdi ricordano qualche videogioco obsoleto, i pannelli con le spiegazioni sono scoloriti dal tempo. Ciò nonostante c’è ancora la differenza tra le cose vecchie e le cose antiche, e le incisioni e i capitelli invecchiano molto meglio della plastica.
Per completare il giro dell’Eur bisogna necessariamente finire al museo nazionale delle arti e delle tradizioni popolari. Le scene sono identiche. Il palazzo è speculare e molto simile a quello che ospita il Pigorini ma il percorso espositivo è più breve. La ragazza che mi ha fatto il biglietto mi ha guardato come se fossi una specie in via d’estinzione. “Non viene nessuno da giorni”, mi ha detto e io le ho risposto che mi dispiaceva e che avrei fatto il giro due volte, come se a lei potesse interessare.
Alimentare il rimpianto
Forse il museo è meno spettacolare degli altri due, perché tratta cose che conosciamo, che affondano nell’immaginario collettivo popolare italiano. È un museo densissimo dedicato al lavoro dell’uomo, a come si rappresenta la vita e il tempo che passa, come lo si celebra. Carrozze e bardature siciliane si frappongono a un’immensa gondola nella sala della marineria, vele di lancette sambenedettesi a coltellacci emiliani, i costumi delle feste popolari calabresi alle nasse di vimini usate in Puglia.
I tre musei, che ora sono autonomi, secondo le intenzioni del governo dovrebbero costituire una sorta di polo a sé stante entro la fine dell’anno prossimo, che dovrebbe chiamarsi museo delle civiltà, nome che ricalca il vicino museo della civiltà romana, ormai chiuso definitivamente. Mentre me ne parlava la ragazza non sembrava crederci nemmeno un po’.
Chi volesse alimentare il rimpianto potrebbe passare a vedere l’entrata dell’ex planetario e del museo astronomico, chiuso ormai da qualche anno per lavori di ristrutturazione. Ho fatto in tempo a farne esperienza, quasi per caso, e ogni volta che ci ripenso mi viene una rabbia feroce al pensiero che ora l’unico planetario di Roma sia in una tensostruttura gonfiabile per bambini grande sei metri per sei. Mi ha ricordato con tristezza la necropoli punica di Ibiza, chiusa tra i gangli di una ristrutturazione perenne.
In debito con la città
Quando lasci l’Eur e torni verso il centro puoi imbatterti in un’altra perla sconosciuta, e stavolta anche gratuita. È il museo delle mura aureliane, ospitato dentro la bellissima porta di San Sebastiano. Esattamente dietro al parco, al suo interno ospita l’arco di Druso, un camminamento che vi fa passare sopra le mura, dietro le feritoie, attraverso i merli. Il percorso espositivo è rudimentale, è vero: cartelloni in bianco e nero fitti fitti e praticamente illeggibili raccontano la storia delle mura, dei loro crolli, dei suoi rifacimenti.
L’archeologia industriale che ospita quella classica: ci hanno insegnato ad apprezzarla tutti i discorsi sul postmoderno
È come guardare alla storia di Roma attraverso ciò che la custodisce, vi viene da pensare che le prossimità ci dicano molto di quello che siete all’interno. Sopra, se vi affacciate, si apre il parco dell’Appia antica. È un museo strano, difficilmente catalogabile: come tutte le cose belle ti viene la speranza ipocrita che rimanga così, isolato e al sicuro. Appena esprimi quel desiderio te ne penti, ma sai che probabilmente avrai ragione.
La mancanza del padiglione dell’Asia al Pigorini è invece assorbita del tutto dal museo nazionale d’arte orientale Giuseppe Tucci, che sta come un ospite ingombrante e scomodo tra le scale e gli appartamenti di palazzo Brancaccio, su via Merulana.
Il Tucci è un museo elegantissimo che fa solo sedicimila visitatori l’anno, e che ha una collezione impressionante di opere d’arte asiatiche. La sala del Giappone ha dei reperti che sono frutto di uno scambio con il museo nazionale di Tokyo, e ospita, tra le altre cose, i dipinti su rotolo verticale del periodo Muromachi. Le due mostre temporanee che mi è capitato di vedere non reggono il confronto con la collezione permanente, ma l’arte del Gandhara, le monete iraniche, le statue di Buddha Maitreya o i thangka con il demone Mara che inghiotte il samsara impressionerà chi si interessa di filosofia orientale. È uno di quei posti che ti fanno sentire in debito con la città, come qualcosa che non riuscirai a ripagare, che non potrai mai restituire.
La Centrale Montemartini, su via Ostiense, fa invece parte del polo musei in comune che viene gestito da Zètema, partecipata di Roma Capitale che ha chiuso il 2015 con un utile di 81.687 euro. È uno di quei posti di cui stavolta non ti spieghi la vuotezza, che pure in questo caso è relativa.
L’archeologia industriale che ospita l’archeologia classica: è quello che ci hanno insegnato ad apprezzare con tutti quei discorsi sul postmoderno e sulla dicotomia tra ciò che lasciamo al mondo e ciò che troviamo, un prezzo da scontare rovina per rovina, statua per statua. La riconversione è stata perfetta: l’ex centrale termoelettrica dal 1997 ha ricevuto una ristrutturazione che ha portato al suo interno centinaia di statue romane e mosaici pavimentali. Lo spaesamento è perfetto e godibilissimo.
La complessa ricchezza della città
Se invece percorrete il piazzale di Santa Croce in Gerusalemme e passate davanti al museo della fanteria, che immagino vuotissimo, arrivate dopo un piacevole porticato bianco al museo nazionale degli strumenti musicali. Dentro ci sono due custodi e una ragazza gentile alla cassa che ti offre l’audioguida, non ho capito se perché ero il solo ospite del museo o perché fosse gratuita. Lei giura quasi imbarazzata che di solito c’è più gente e fa battute sul caldo che c’è fuori. Mi accompagna una custode, che non ha niente da fare. Mi spiega che la metà del museo, quella che ospita gli oggetti più antichi, come le tibie forate, i gong e i fischietti in avorio è in ristrutturazione. Le nove sale che restano conservano strumenti dal cinquecento in poi, chitarre, liuti, clavicembali. I pezzi forti sono un pianoforte Cristofori e l’arpa Bernini. “È un museo particolare, questo”, mi dice quando mi riaccompagna all’uscita, “non sanno nemmeno che esistiamo. Tu come l’hai saputo?”.
Il Lazio rimane la regione italiana più visitata con quasi 20 milioni di ingressi dovuti alle grandi attrazioni
Secondo uno studio condotto da Zètema, la maggior parte dei visitatori stranieri, che sono il 55 per cento del totale, viene a conoscenza del museo passando per caso lì davanti o seguendo le indicazioni delle guide turistiche. La paura è che nonostante la rilevazione di un aumento di visitatori del 6 per cento nel 2015 celebrata dal ministero, si allarghi sempre più la forbice tra i musei più conosciuti da una parte e quelli più piccoli dall’altra, considerando i disagi lavorativi delle comunità residenti di studiosi che ne curano le collezioni tra mille difficoltà. Il Lazio rimane comunque la regione d’Italia più visitata, con 19.750.157 ingressi che sono polarizzati dalle grandi attrazioni.
Sarebbe un errore pensare che la scarsa affluenza in questi piccoli musei significhi una loro inutilità di fondo, che non servano, che il loro unico scopo sia quello della conservazione disaffezionata. Queste collezioni devono avere a che fare con l’identità di una comunità e non solo con il turismo: riscoprire questo al di là del mero dato economico, tornare a visitare i musei meno conosciuti per riscoprirne l’utilità potrebbe essere un modo per riavvicinarsi alla complessa ricchezza della città e della sua storia.
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