Lunedì 24 febbraio 2020. È una bella giornata, l’ennesima. Il sole di questo lunedì è lo stesso delle ultime settimane, anzi è più forte, l’eco ideale dell’anomalia che sta attraversando Milano, la seconda città più popolosa della terza nazione più contagiata al mondo dal nuovo coronavirus; una città che deve ancora capire come rispondere a un’emergenza sanitaria e alle misure preventive che ne conseguono – e se queste misure hanno ragion d’essere o meno.

L’unico modo per conoscere una città e sondarne lo stato d’animo è camminarci e il migliore punto di partenza, in questo caso, è la stazione Centrale. L’atmosfera è tesa, quasi silenziosa, non c’è traccia di frenesia. Per scendere verso il centro bisogna uscire in piazza Duca d’Aosta e imboccare via Vittor Pisani lasciandosi sulla destra il Pirellone e, dietro a questo, il palazzo della regione da cui si diramano le misure preventive.

Sembra una mattina di maggio: l’aria è quella di una domenica ecologica, di fine settimana ai tempi dell’austerità, di inizio vacanze. Le persone sui marciapiedi sembrano proteggersi in una membrana del raggio di qualche metro, studiando con attenzione la coreografia del passeggio urbano. Sarebbe utile un drone, oggi.

Il racconto dell’assenza
Via della Spiga è deserta. Fino all’orizzonte di San Babila si intravedono otto-dieci persone, a coppie. I negozi dell’alta moda sono vuoti, fatta eccezione per quattro ragazzi giapponesi incorniciati dalla vetrina di una bottega fiorentina. Incontro un fotografo inginocchiato di fronte a una scuola elementare, mi racconta che sta lavorando per l’Ansa. “Non è esattamente la storia più avventurosa da fotografare. Questa è la terza scuola chiusa, prima ho fatto il liceo Parini… Poi vado alla Statale e vedo com’è, di solito lì è pieno di gente”. Il racconto dell’assenza, del vuoto, della materia scavata; un esercizio che può tornare utile nelle prossime settimane, o più avanti nel tempo, quando l’accumularsi di anomalie le renderà indistinguibili.

Tornato su via Turati supero due sorelle che fingono di starnutire al telefono con la nonna, e ridono appoggiandosi l’una all’altra. Se lavori a Milano non capita spesso di passeggiare con calma lungo via Manzoni, la strada che porta alla Scala. Non capita spesso d’incrociare le commesse degli show room che ascoltano i vocali dei parenti preoccupati fumando una sigaretta, i bambini ricchi in passeggino, i turisti riverenti.

In tempi di telecamere e riconoscimenti facciali, il virus si muove su un’altra dimensione

Supero anche la Scala, chiusa “in relazione all’evolversi della diffusione del coronavirus”. In centro si può attraversare qualsiasi strada, si va veloci: i semafori rossi e le convenzioni, in tempi di anomalia, si svuotano di significato. In galleria Vittorio Emanuele II tra i turisti resiste però il rito delle palle del toro; c’è un centinaio di persone, forse qualcosa in più. Non sono poche, ma meno del solito.

Uscendo dalla galleria, all’improvviso, si ripresenta la tentazione di cedere al pensiero del contagio, alimentata forse dal brusio irreale, i respiri che sembrano risalire a spirale fino alla cupola, dove si incontrano le gallerie ortogonali. A mezzogiorno, di fronte al Duomo, leggo che un aereo Alitalia è stato bloccato alle Mauritius, così come un pullman di italiani a Lione. E che il collegamento tra i focolai lombardi e veneti deve ancora essere individuato, o forse non c’è. L’incertezza alimenta il pensiero del contagio, ma è una delle astrazioni con cui bisogna imparare a convivere: in tempi di controllo totale e sorveglianza, di telecamere e riconoscimenti facciali, il virus si muove su un’altra dimensione.

In piazza del Duomo sembra ci siano almeno 20 gradi, e non i 15 segnalati dalle app. All’altezza dell’abside si vede prima comparire un elicottero della forestale, e subito dopo uno della polizia da via Torino, un’arteria che porta verso sud; il frullare delle pale per un minuto si mescola al volo caotico dei piccioni e copre il canto di un artista di strada neomelodico avvolto in un piumino troppo pesante. Il caldo dei 20 gradi, le correnti ventose, i piccioni che sfiorano i cappotti appesi agli avambracci ricreano quell’aura che gli allergici conoscono bene, il senso di un contagio innocuo, ciclico.

La seduta peggiore
In ogni caso, la situazione sospesa non ha tolto la voglia di cantare, né in Duomo né in Cordusio, la piazza accanto, dove una signora vestita di viola intona La camisa negra inventandosene la melodia. Una nenia che mi accompagna fino all’imbocco di via Negri, dove si affaccia piazza Affari.

In termini finanziari questo lunedì 24 febbraio 2020, che sembra maggio, è stato un disastro. Il principale indice azionario della borsa italiana, il Ftse-Mib, ha chiuso al -5,4 per cento. La seduta peggiore degli ultimi quattro anni, anche se il dramma si consuma tra server e cavi in fibra ottica, e lascia la piazza libera ai perditempo e all’indifferenza dei passanti.

Perdere tempo. Tra tutte le città italiane, Milano è indubbiamente quella che ne ha più bisogno. Telelavoro allora, ma ancora meglio zero lavoro, zero ufficio. Se vivi a Milano, è probabile che tu sia stanco. I dipendenti non possono nascondere insomma una certa dose di sollievo. Per i liberi professionisti invece, è più complesso: c’è chi può lavorare come prima e chi da un giorno all’altro (lavorando nell’arte, nello sport, nei luoghi che rendono vivibile una città) si trova al momento senza un compenso e senza le garanzie del lavoro dipendente.

In un bar vicino alla borsa, desertificato dalla scomparsa degli impiegati, non si parla d’altro. I camerieri scherzano su una cliente fissa di Lodi che ha chiamato per sapere se il locale fosse aperto a pranzo. “Dille che non le apriamo!”, “le facciamo il panino a 50 euro”, “ma vedi come sei, pensi sempre ai soldi, a me piace la vita, capisci?”.

Il bar è quasi vuoto, eccetto il mio panino e un anziano incollato al telefono con la faccia stravolta. Nel giro di dieci minuti viene raggiunto il record di giornata, una decina di presenze. Mascherine, disinfettanti, percentuali: non si parla d’altro. Cominciano i racconti sull’Esselunga, un supermercato che a Milano è oggetto di culto, un feticismo consumista che spiega perché si sia trattato della prima catena razziata dai milanesi terrorizzati da social network e televisione. Foto di scaffali vuoti, involucri strappati nei corridoi, carrelli presi d’assalto e guidati con i guanti del reparto ortofrutta.

Diretto verso le Colonne di san Lorenzo leggo che il governo italiano ha proposto una riunione con i ministri della salute dei paesi confinanti. Seguendo la direzione dei Navigli, si incontrano soprattutto turisti e modelli usciti da qualche sfilata a porte chiuse. Davanti a Verso, una libreria dove di solito le persone entrano e toccano i libri, si sente l’odore del disinfettante per strada.

Il teatro alla Scala chiuso, Milano, 24 febbraio 2020. (Francesca Volpi, Bloomberg via Getty Images)

Attraverso il parco dedicato a Giovanni Paolo II che collega le Colonne a porta Ticinese e leggo che il traffico ferroviario tra Lodi e Piacenza è stato interrotto. Si conferma, di nuovo, lo scompenso tra il bombardamento mediatico, ansiogeno, e la placidità di certi scenari urbani. Leggo della sesta vittima – una paziente di Crema che purtroppo viveva già un quadro clinico complesso – mentre a qualche metro da me un ragazzo tira un rametto di quercia al suo cane.

Qualcuno si è disteso sulle panchine a leggere, ma sempre ventenni, o pensionati. Non si vedono i bambini, i conciliaboli di nonni e baby sitter: molti genitori, rimasti a casa dal lavoro, passano il tempo in famiglia.

In porta Ticinese capita d’imbattersi in uno di quei nuclei spontanei di rider, mescolati nei pastelli dei vari Deliveroo, Just Eat, Foodora. Oggi c’è un po’ di musica, parlottano in tre o quattro lingue diverse. “Today is the worst”: al contrario di quanto pensassi oggi gli affari vanno male, sembra esserci meno lavoro anche per loro. “Sono tutti chiusi in casa con il cibo di Esselunga”. Risate.

Quando il pensiero del contagio improvvisamente si riaccende, nonostante le mani pulite e la distanza di sicurezza, entrare in un bagno pubblico ricorda l’attraversamento di un portale, l’ingresso in un’area X dal perimetro tremolante. Mentre passo per la Darsena, che è popolata come in una domenica di primavera, arriva la smentita del decesso di Crema. Di nuovo, l’anomalia ci chiede di convivere con l’incertezza.

Salito sul tram che riporta verso nord, una signora in cappotto di cammello e berretto rosa comincia a recitare a beneficio di tutti. “Che uno alla mia età debba morire così è il colmo, avevo appena cominciato a farmi andar bene il diabete”. Risate. “Mi ricordo che nel 1957 c’è stata l’asiatica, sa io sono del 1943, ed eravamo in sei famiglie: tutti appestati, io poi, ero un relitto umano… Avevo uno di quei febbroni, sono pure svenuta. Poi ricordo che è tornata nel 1969, ma devo avere fatto degli anticorpi buoni, quella volta non mi è successo niente. Nel 1957 ci hanno fatto andare a scuola un mese e mezzo dopo, immaginatevi”.

Io e la nipotina di un’altra signora abbiamo qualcosa in comune: il 10 è il nostro tram preferito, anche se il pensiero del contagio prova inutilmente a trasformarlo in un enorme proiettile batteriologico. Per oggi è ancora un tram, un Atm serie 1500, detto anche Ventotto, l’anno del suo disegno originale. Collega i due poli della città seguendo un passo lento, quasi molle, che risalendo costeggia il fianco occidentale del centro, carotando i secoli di Milano. Sessant’anni fa, ai tempi dell’altra influenza cinese, piazza Gae Aulenti e il suo Esselunga e i suoi grattacieli non esistevano. Neanche dieci anni fa, e ora ci si accede da una scala mobile, come fosse un supermercato.

La giornata finisce in discesa, da dove si è partiti. Grazie alla disintossicazione dalle notizie, e alla passeggiata, la corsa dei numeri sembra rallentata, e così il pensiero del contagio. Il parroco di san Gioachimo, una chiesa ottocentesca rimasta incastrata nella nuova Milano, dice che è la prima volta che gli capita di vietare la messa, ma che l’ha trovata una misura ragionevole, sensata insomma. Si rifiuta di parlare di spaesamento, di trauma antropologico, di crisi della presenza. Eppure passeggia su e giù sotto il colonnato, di fronte ai portoni, e sembra che fare due chiacchiere gli faccia piacere.

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