Questo articolo è uscito il 28 dicembre 2002 nel numero 418 di Internazionale. Il racconto era stato scritto nel 1989 e tradotto sul trimestrale britannico Granta dell’inverno 2000 con il titolo Hotel Capital.

All’Hotel Capital
scendono solo i ricchi. Sono per loro i portieri in livrea e i camerieri in frac, dalle gambe lunghe e dall’accento spagnolo; sono per loro i silenziosi ascensori foderati di specchi, per loro le maniglie in ottone non autorizzate a trattenere impronte digitali e lucidate due volte al giorno da una jugoslava minuta; per loro le scale rivestite di tappeti e usate solo quando arriva l’attacco di claustrofobia da ascensore; per loro i grandi divani, le pesanti trapunte, le colazioni a letto, l’aria condizionata, gli asciugamani più candidi della neve, le saponette, gli shampoo profumati, le seggette dei water in noce, i quotidiani freschi di giornata; per loro Dio ha creato Angelo della Biancheria Sporca e Zapata delle Ordinazioni Speciali; per loro le cameriere in divisa biancorosa sfreccianti nei corridoi e, tra di esse, me. Dire “me” è forse eccessivo: di me resta ben poco dopo che, nel ripostiglio in fondo al corridoio, ho indossato la vestaglietta a righe. Mi spoglio dei miei colori, dei miei odori sicuri, dei miei orecchini preferiti, del mio valoroso maquillage e delle scarpe a tacco alto. Mi spoglio anche della mia lingua esotica, del mio nome strambo, della mia capacità di capire le barzellette, delle rughe d’espressione, della passione per pietanze qui non reperibili, del ricordo di minuti avvenimenti. E resto nuda nella divisa biancorosa, come improvvisamente avvolta dalla spuma di mare. E da quel momento

Il secondo piano è tutto mio
tutti i fine settimana. Arrivo alle otto e non ho bisogno di affrettarmi, perché alle otto i ricchi dormono ancora. L’albergo li coccola, li culla dolcemente come se lui fosse una grandeconchiglia al centro del mondo e loro le perle preziose. Da qualche parte, lontano, si svegliano le automobili e la metropolitana imprime un lieve fremito ai ciuffi d’erba. Il piccolo cortile dell’albergo è ancora invaso dall’ombra fredda.

Entro dalla porta sul cortile e subito il mio olfatto avverte quello strano miscuglio di prodotti per le pulizie, biancheria lavata e pareti che sudano per l’incessante avvicendarsi di gente. L’ascensore, mezzo metro per mezzo metro, mi si ferma davanti pronto a servirmi. Premo il bottone del quarto piano e vado a prendere ordini da Miss Lang, la mia superiore. Tra il secondo e il terzo piano mi sfiora regolarmente il viso qualcosa di molto simile al terrore che l’ascensore si fermi e io resti inglobata per sempre, come un batterio, nel corpo dell’Hotel Capital; e che appena l’Hotel si sveglierà, comincerà lentamente a digerirmi, si impadronirà dei miei pensieri, inghiottirà tutto ciò che resta di me e si nutrirà di me finché non sarò silenziosamente sparita. Ma l’ascensore, misericordioso, mi lascia uscire all’esterno.

Miss Lang siede dietro alla scrivania, gli occhiali sulla punta del naso. Così deve apparire questa regina delle cameriere, presidentessa di otto piani, dispensatrice di centinaia di federe e lenzuola, ciambellana di tappeti e ascensori, scudiera di scope e aspirapolvere. Mi guarda da sopra gli occhiali e pesca la scheda a me destinata dove, su colonne e riquadri, sta scritta, camera per camera, la diagnosi del secondo piano. Miss Lang non fa caso agli ospiti dell’albergo. Forse sono importanti per il personale di livello superiore, anche se è difficile immaginare qualcuno di più importante e di più distinto di Miss Lang.

Per lei l’Hotel è una struttura perfetta, un essere vivente ma immobile, del quale noi dobbiamo prenderci cura. È chiaro che dentro l’Hotel c’è gente che sfreccia, veleggia su e giù,riscalda i letti e beve acqua dai suoi capezzoli di ottone. Ma la gente passa e se ne va. Noi e l’Hotel, invece, restiamo. Per questo Miss Lang mi descrive ogni camera come un luogo visitato, sempre al passivo: occupata, sporca, abbandonata, vuota da vari giorni. Nel farlo osserva con ostilità i miei stracci borghesi e le tracce del mio frettoloso maquillage. Poi, con in mano la scheda vergata dalla bella e vagamente vittoriana calligrafia di Miss L., percorro il corridoio architettando strategie, distribuendo le forze.

La sola cosa che m’interessa adesso nella prospettiva del corridoio sono i rettangoli numerati delle porte

Così facendo passo inavvertitamente dalla zona amministrativa alla zona per gli Ospiti. Me ne accorgo dall’odore: per riconoscerlo devo sollevare a testa. Certe volte ci riesco: Armani per uomo, Lagerfeld, o il supremamente elegante Boucheron. Conosco questi profumi dai campioncini a buon mercato acclusi a Vogue, non ignoro la forma delle bottiglie. Si avvertono anche sentori di cipria, crema antirughe, seta, pelle di coccodrillo, Campari rovesciato sulle lenzuola, sigarette marca Caprice per delicate donne dai capelli castani. È il tipico odore del secondo piano. O meglio: non tutto il suo odore, ma solo il primo strato del tipico odore del secondo piano, che ritrovo come una vecchia conoscenza mentre mi avvio verso il mio sgabuzzino dove subentra

Il cambiamento
Avendo addosso la divisa biancorosa guardo il corridoio con occhio diverso. Non cerco odori, non sono attratta dal mio riflesso nelle maniglie d’ottone, non ascolto l’eco dei miei passi. La sola cosa che m’interessa adesso nella prospettiva del corridoio sono i rettangoli numerati delle porte. Dietro ognuno di questi otto rettangoli si trova una stanza, uno spazio quadrangolare prostituito, che dopo qualche giorno si concederà a un’altra persona. Quattro delle otto camere danno sulla strada, dove sosta in continuazione un tizio con la barba, in costume scozzese, che suona la cornamusa. Sospetto che si tratti di uno scozzese fasullo. È troppo entusiasta. Accanto a lui, un cappello e una moneta, destinata ad attirarne altre.

Le quattro camere con le finestre sul cortile non sono altrettanto soleggiate e vegetano in un’eterna penombra. Le otto camere mi stanno tutte fisse nella mente, benché ancora non le veda. Sulla porta di alcune sta appeso l’avviso “Do not disturb”. Me ne rallegro, dato che non è mio interesse disturbare né le persone né le loro stanze, e preferisco che esse non disturbino me nella visione di me stessa come proprietaria del secondo piano. Certe volte, l’avviso annuncia: “The room is ready to be serviced”. È una scritta che mi mette in allerta. Esiste anche un terzo genere di informazione: la mancanza di informazione. Questo mi dà la carica, mi comunica una vaga apprensione e mette in moto la mia finora addormentata intelligenza di cameriera. Certe volte, quando il silenzio dietro a queste porte è troppo evidente, devo accostare l’orecchio e origliare in preda a una certa tensione, e perfino sbirciare dal buco della serratura. Ma preferisco tutto questo piuttosto che trovarmi improvvisamente all’interno con una bracciata di asciugamani e imbattermi in un cliente spaventato che tenta di velare la sua nudità; o, peggio ancora, piuttosto che sorprendere un cliente così profondamente immerso nel sonno da sembrar quasi non esserci.

Per questo mi fido degli avvisi sulle porte. Sono il visto che dà accesso a un mondo in miniatura

Il mondo dei numeri
La camera 200 è vuota, le lenzuola spiegazzate, qualche immondizia giace qua e là; regna un sentore amaro come di minuti contati, di rigiramenti nel letto, di bagagli preparati in fretta e furia. Qualcuno dev’essere partito di qui stamattina presto per correre all’aeroporto o alla stazione. Il mio compito è quello di eliminare le tracce della sua presenza dal letto, dal tappeto, dagli armadi, dagli armadietti, dal bagno, dalla tappezzeria, dai posacenere, dall’aria. Non è tanto semplice. Non basta fare le pulizie. Bisogna sconfiggere con la propria impersonalità quel che rimane della personalità dell’ultimo cliente. A questo serve il Cambiamento. Non devo soltanto cancellare con lo straccio i residui dell’immagine di quel volto, ma anche riempire lo specchio con la mia assenza di volto bianca e rosa, soffocare con la mia mancanza di odore l’odore lasciato qui per fretta e distrazione. E io faccio proprio questo: sono qui come persona ufficiale, e quindi poco concreta. Le peggiori sono le donne. Le donne lasciano più tracce dietro di sé, e non solo perché dimenticano le loro quisquilie qua e là. Il fatto è che tendono istintivamente a trasformare la stanza d’albergo in un sostituto della loro casa. Mettono radici ovunque è possibile, come semi portati dal vento. Negli armadi d’albergo appendono nostalgie di vecchia data e nelle stanze da bagno depongono senza pudore desideri e abbandoni. Sui bicchieri e sui bocchini di sigaretta lasciano con noncuranza il segno delle labbra; nella vasca, i capelli. Cospargono di talco il pavimento ed esso, traditore, svela le orme segrete dei loro passi. Alcune, andando a letto, non si struccano e il cuscino, come il velo di Veronica, mi svela il loro volto. Le donne non lasciano mance. Per questo occorre la maschile sicurezza di sé. Per gli uomini il mondo è sempre più un bazar che un teatro. Preferiscono pagare ogni cosa, perfino in anticipo. Sono liberi solo pagando.

Quella dopo è

La numero 224, dove abita una coppia di giapponesi
Stanno qui da un po’ di tempo e la loro camera mi è familiare. La mattina si alzano presto, certo per visitare senza sosta musei, gallerie e negozi, eternare la città nelle fotografie, passare gentili e silenziosi per le strade e cedere il posto nella metropolitana.

La camera che occupano è un’elegante doppia, che perònon sembra in alcun modo abitata. Qui non ci sono oggetti lasciati sbadatamente davanti allo specchio del cassettone. Non usano televisione né radio, non ci sono tracce di dita sulla piastra d’ottone degli interruttori. Niente acqua nella vasca, niente gocce sullo specchio, niente briciole sul tappeto. I cuscini non conservano la forma delle loro teste. Il mio grembiule, passando, non raccatta i loro capelli neri caduti. E, cosa ancora più preoccupante, qui non si sentono odori. C’è solo l’odore del Capital.

Accanto al letto vedo due linde paia di sandali accostati con cura, momentaneamente esentati dal servizio dei piedi. Un paio più grande, l’altro più piccolo. Sul comodino giace la guida, bibbia di ogni turista, e in bagno sono disposti, funzionali e discreti, gli oggetti da toilette. Mi limito quindi a rassettare il letto, facendo più confusione di quanta ne facciano loro in un mese.

Coccolo la loro stanza, sfioro teneramente le cose. Secondo me loro se lo sentono sulla pelle

Ogni volta che entro in questa camera mi commuovo: mi sorprende che certa gente possa fare come se non ci fosse. Mi siedo sul bordo del letto e aspiro la loro assenza. Mi commuove anche il fatto che i due giapponesi lascino sempre una piccola mancia in monete posate con cura sopra il cuscino, che sono costretta a prendere. È una forma di lettera, di informazione. È la nostra corrispondenza: mi offrono una mancia quasi a scusarsi di darmi così poco lavoro, quasi una ricompensa per la mancanza di confusione e per non essersi adeguati al caos circostante. Si preoccupano che questo possa deludermi e farmi arrabbiare. La piccola mancia è l’espressione della loro riconoscenza perché li lascio essere quelli che sono, quelli che possono essere. Cerco di apprezzare questo loro modo di entrare in contatto con me e rifaccio il loro letto con amore. Carezzo i cuscini, liscio le lenzuola che i giapponesi non sono in grado di sgualcire, come se i loro corpi minuti fossero meno materiali degli altri.

Eseguo questi gesti lentamente, con solennità, sentendo di dare qualcosa. Mi profondo senza risparmio. Coccolo la loro stanza, sfioro teneramente le cose. Secondo me loro lo sentono: se lo sentono sulla pelle adesso, mentre vanno in metropolitana verso il museo di turno, verso la spedizione di turno nella città irriconoscibile. Nei loro occhi balena per un attimo l’immagine della camera d’albergo, una vaga nostalgia, un’improvvisa voglia di rientrare, ma a me non ci pensano. Il mio amore, che certo definirebbero compassione, non ha volto, non ha corpo nell’uniforme biancorosa. Non a me lasciano la mancia, ma alla stanza e al suo tacito permanere negli spazi del mondo, per la sua stabilità in un’instabilità che niente riesce a spiegare.

Le due monete lasciate sul cuscino mantengono fino a sera l’illusione che camere come queste esistano anche quando non le si guarda. Le due monete fanno svanire la sostanziale paura che il mondo esista solo mentre lo si guarda e che, per il resto, non ci sia altro.

Resto seduta, annusando il freddo e il vuoto di questa stanza e provando un senso di rispetto per la coppia di giapponesi che conosco solo dall’immateriale forma dei loro piedi dentro i sandali abbandonati.

Ma giunge il momento di andarmene da questo piccolo santuario. Lo faccio in silenzio, come in un sospiro, e scendo al mezzanino dove scocca appunto

L’ora del tè
Le principesse bianche e rosa degli altri piani stanno già sedute sulle scale, sgranocchiando toast grondanti burro e sorseggiando caffè. Accanto a me siedono Maria, una bellezza di tipo indiano pellerossa e, un po’ più in là, Angelo della Biancheria Sporca e Pedro che, serio com’è, dev’essere quello della Biancheria Pulita. Ha la barba brizzolata e folti capelli neri. Potrebbe essere un missionario seduto su uno scalino durante uno dei suoi esotici viaggi. Per giunta legge Il signore delle mosche e sottolinea a matita certe parole, mentre certe altre se le sorseggia con il caffè.

“Pedro, qual è la tua lingua madre?”, gli chiedo.

Solleva la testa dal libro, si raschia la gola come appena svegliato. Si vede che sta traducendo mentalmente la mia domanda. Lo si capisce dalla sua momentanea assenza. Deve avere il tempo di sprofondare dentro se stesso, guardarsi intorno, chiamare per nome quel ritmo fondamentale, definirlo in una parola, tradurre la parola e infine pronunciarla.

“Il castigliano”.

“E dove sarebbe questa Castiglia?”, chiede Anna, un’italiana.

“Castiglia-Bastiglia”, commenta filosoficamente Vesna, una bellissima jugoslava.

Pedro traccia un contorno con la matita e, incespicando nelle parole, risale ai tempi remoti quando, chissà perché, gli uomini percorrevano sterminate distese di quella che oggi chiamiamo Asia ed Europa. Durante i loro vagabondaggi si mescolavano tra loro e si stabilivano da qualche parte, poi riprendevano il cammino portandosi dietro le proprie lingue come bandiere. Formavano grandi famiglie, pur non conoscendosi a vicenda, e in tutto ciò le uniche cose costanti erano le parole.

Ci accendiamo una sigaretta intanto che Pedro traccia i suoi diagrammi, mostra le somiglianze e tira fuori il midollo dalle parole come se snocciolasse ciliegie. Per quelli che comprendono questa lezione, appare lentamente chiaro che tutti noi, seduti su queste scale a bere caffè e mangiare toast, una volta parlavamo la stessa lingua. Be’, forse non proprio tutti. Non oso chiedere della mia lingua e anche Mirra, che è della Nigeria, fa finta di non capire. E quando Pedro ci stende davanti la cupa nube aggrovigliata della preistoria, vogliamo tutti entrarci sotto.

“Sarebbe una specie di torre di Babele”, riassume Angelo.

“Si può anche dire così”, annuisce tristemente Pedro il castigliano.

Ma ecco Margaret. Arriva in ritardo, come al solito. È sempre a corto di tempo, rimane sempre indietro da qualche parte. Margaret è mia; parla la stessa lingua, quindi il suo viso chiaro, arrossato dallo sforzo, mi appare felicemente vicino. Le verso del tè e le imburro un toast.

“Salve”, sussurra in polacco, e questo segna il disgregarsi della conversazione in tutte le lingue possibili.

Ora le ragazze biancorosa stormiscono ognuna a suo modo; le parole schioccano come dadi di legno rimbalzando giù per le scale verso la cucina, la lavanderia, i magazzini della biancheria, facendo vibrare il Capital fin dalle fondamenta.

Purtroppo l’intervallo finisce e bisogna tornare al proprio piano, dove dopotutto ci aspetta

Il resto delle camere
Ci separiamo nel chiacchiericcio, ma subito i lunghi corridoi ci impongono il silenzio. E così dev’essere. Il silenzio, questa virtù delle cameriere in tutti gli alberghi del mondo.

La 226 ha l’aria di essere abitata da poco. Valigie non ancora disfatte, giornale intonso. L’uomo (i cosmetici nel bagno sono per uomo) dev’essere un arabo (scritte in arabo sulla valigia, libro in arabo). Ma subito penso: che m’importa da dove viene il nuovo cliente dell’albergo e cosa viene a fare. Io m’incontro con le sue cose. L’uomo non è che la causa per cui tutte queste cose si trovano qui, una figura che sposta le cose nello spazio e nel tempo. In fin dei conti siamo tutti ospiti di cose piccole come i vestiti o grandi come l’Hotel Capital. L’arabo, i giapponesi, io e perfino Miss Lang. Nulla è cambiato rispetto ai tempi narrati da Pedro. Cambiano gli alberghi e i bagagli, ma il viaggio continua.

Nella camera non c’è molto da fare. L’ospite deve essere arrivato di notte, non si è neanche coricato. Ora è fuori per affari, al ritorno disferà la valigia. Oppure ripartirà per il mondo, lasciando che i viaggi delle sue cose lo illudano. In bagno noto con soddisfazione che non si è lavato e che invece della carta igienica ha usato i fazzolettini per il viso.

Doveva essere nervoso oppure distratto, che è la stessa cosa. Deve essersi sentito solo, quando stanotte il taxi lo ha portato qui dall’aeroporto. In questi casi si prova un improvviso bisogno di sesso. Niente rende familiare il mondo quanto il sesso. Deve essere scappato subito in cerca di corpi di donne o di uomini, queste esili barchette che ci traghettano senza dolore attraverso ansie e paure.

I giovani americani che scendono al Capital fanno una confusione assurda, stupida e priva di un vero significato

La camera 227 è una singola identica alla 226. Solo che qui il cliente ci abita da più tempo. Non me ne ricorderei, non fosse per questo eterno odore di sigarette, di alcol e confusione. È quest’aria da campo dopo la battaglia, che mi spaventa. Ovunque drink lasciati a metà, cenere di sigarette, succhi di frutta rovesciati, il cestino della carta straccia pieno di bottiglie vuote di vodka, acqua tonica e cognac. Odore di circolo vizioso e di strada sbarrata. Apro la finestra e inserisco l’aria condizionata, ma questo non fa che peggiorare l’atmosfera da vicolo cieco, sottolineando il contrasto tra ciò che è fresco e sano e ciò che è stantio e malato. Questo tizio (una ventina di cravatte appoggiate sull’anta dell’armadio) è diverso dagli altri clienti. Non solo perché beve e fa casino, ma perché si lascia andare. Non sorveglia i limiti del rivelarsi e dell’esprimersi attraverso le sue cose. Non cura le apparenze. Tira fuori tutto il suo disordine interiore e lo consegna a una come me.

Qui dentro mi sento un’infermiera, cosa che non mi dispiace. Medico il letto ulcerato dall’insonnia notturna, lavo dal piano del tavolo le ferite dei succhi di frutta, estraggo dal corpo della stanza le bottiglie quasi fossero spine. Persino lo spolverare è un lavare le ferite. Sistemo con cura sulla poltrona i costosi giocattoli comprati solo ieri, espressioni in peluche di un doloroso senso di colpa. Quest’uomo deve essere rimasto a lungo davanti allo specchio a provarsi le cravatte. Forse addirittura a cambiarsi d’abito, ma ogni variante di se stesso gli riusciva insopportabile. Poi dev’essere andato nel bagno: sul lavandino è rimasto un bicchiere vuoto a metà. Inerme e maldestro, ha rovesciato lo shampoo sul pavimento, poi ha cercato di asciugarlo con un asciugamano bianco. Lo perdono. Elimino i suoi inciampi. Riordino i suoi cosmetici. So che ha paura di invecchiare: ecco la crema antirughe, la cipria, l’eau de toilette di gran marca. Ci sono anche il fard e la matita per occhi.

Ogni mattina, impaurito dall’estraneità della sua faccia, si mette davanti allo specchio e con mani tremanti le restituisce l’antico aspetto. Vacilla, non ci vede bene, si accosta allo specchio imbrattandolo con le dita. Rovescia lo shampoo, impreca, fa per asciugarlo ma poi, in inglese, francese o tedesco esclama: “Ma vaffanculo!”. Sta già per uscire nel mondo così com’è ma, vedendosi nello specchio, capitola, torna indietro e completa il maquillage. Il fluido nasconde le rughe di delusione intorno alla bocca, le ombre scure sotto gli occhi (segno che non dorme la notte) e le macchie scure sul mento (segno che assume farmaci). La matita altera l’arrossamento degli occhi. Finalmente ce la fa a uscire; al suo ritorno non dovrebbe trovare nel bagno le tracce della sua caduta. Io sono qui per questo, per perdonarlo. A un certo punto mi viene perfino in mente di lasciargli un biglietto con due sole parole: “Ti perdono”. Lui le prenderebbe come un segno della Provvidenza e tornerebbe là dove dei bambini aspettano quei giocattoli di peluche, dove le cravatte hanno il loro posto negli armadi e dove, con la faccia gonfia dal bere e un drink in mano, può uscire sul balcone e gridare a squarciagola al mondo: “Ma vaffanculo!”.

Ma la realtà è la Provvidenza e, se accade quello che accade, deve certo esserci un senso nascosto. Lascio la camera pronta ad accogliere il suo sempre provvisorio inquilino.

Nel corridoio incrocio Angela che porta un sacco di biancheria sporca. Sorrido a me stessa. Apro la porta della camera 223 e il primo colpo d’occhio mi permette di appurare che in questa stanza abitano

Giovani americani
A nessuna di noi, infatti, piace rifare le stanze abitate da giovani americani. Non si tratta di pregiudizi. Non abbiamo niente contro l’America, anzi la ammiriamo e ne abbiamo nostalgia, anche se qualcuna di noi non l’ha mai vista. Ma i giovani americani che scendono al Capital fanno una confusione assurda, stupida e priva di un vero significato. È una confusione disonesta, perché non dà soddisfazione a riassettarla. In realtà non la si può riassettare: anche a rimettere le cose una per una al proprio posto, una volta lavate le macchie e le tracce di fango, lisciate le pieghe su divani e cuscini, dato aria al miscuglio di odori, la confusione apparentemente sparisce, ma in realtà si acquatta da qualche parte in attesa che tornino i suoi proprietari. Appena la chiave gira nella toppa, ecco che si risveglia e si avventa sulla stanza.

Un disordine così lo fanno solo i bambini: un’arancia sbucciata a metà sulle lenzuola, i bicchieri per lavarsi i denti pieni di succo di frutta, un tubetto di dentifricio schiacciato sul tappeto. Ritagli di carta esposti come una collezione, etichette di vestiti usciti dai migliori negozi, cuscini ficcati negli armadi, una matita dell’albergo spezzata a metà, il contenuto della valigia rovesciato sulla poltrona, cartoline postali con l’indirizzo ma senza il testo, televisione accesa, tende arrotolate, calzini e mutande appesi ad asciugare davanti all’aria condizionata, sigarette sparpagliate, posacenere colmi di semi di cocomero.

Le camere abitate dagli americani finiscono ridicolizzate, spogliate della loro dignità, amichevoli per forza. La bella 223 rosa e beige è stata appunto profanata in questo modo. Sembra un vecchio gentleman dignitoso travestito da pagliaccio.

Ogni volta che entro qui, mi sento male. Rimango un attimo immobile, valutando le dimensioni del pogrom. La camera sembra un piccolo campo di battaglia. Quei costosi vestiti di seta gettati con noncuranza sui braccioli della poltrona, il sentore di profumi di lusso, di incuria, di ricchezza, di forza fisica, l’odore della metropolitana numero 98, il disprezzo per l’ordine, che è parte integrante delle cose. Tutta questa attività nervosa, questo non considerare il presente e il non capire che in esso è l’embrione di un santo futuro, mi fa paura. Questa è una delle due parti in lotta. Dall’altra sta la stabile, concreta, attuale e immutabile camera 223. Io sto dalla parte di questa camera 223.

Lentamente, sistematicamente, mi accingo a riordinare le cose, ma gli Effetti Personali non li tocco. Secondo me ormai si sono abituati a non stare al loro posto.

Qui il tempo procede per salti e divento sempre più inquieta. La televisione ronza, il canale della Cnn m’inonda di notizie dal mondo ronzante e il mondo assicura alla Cnn di esistere da qualche parte, sempre pieno di giovani americani. La mia inquietudine cresce, i gesti diventano solenni e sfibranti, comincio ad affrettarmi, comincio a guardare l’orologio, comincio a uscire dall’adesso e ad allungare un piede nel dopo. Impreco tra me e me: “Shit!”. Canto Yankee Doodle Went to Town… Lascio lo straccio bagnato sul piano del tavolo. È una grave trascuratezza, l’umidità fa scolorire il legno. Comincio a essere contagiata. Devo scappare nel bagno dove tutto questo baccano non si sente, e dopo che ho lentamente raccolto gli asciugamani sparpagliati, le spugne, i saponi e i flaconi e finalmente chiudo la porta per concentrarmi sui dettagli, si fa un silenzio completo.

Il bagno è la fodera interna della stanza, il rovescio della vita. La vasca da bagno, dopo l’uso, trattiene sulle pareti capelli e sporcizia lavata via dalla pelle. Il cestino è pieno di assorbenti usati, di fazzoletti e batuffoli di cotone. Ecco il rasoio per radersi le gambe, ecco lo specchio per strizzare i punti neri ed eseguire un maquillage che nasconda tutte le indecisioni. Ecco il talco contro il sudore dei piedi, ecco il clistere e la borsetta dei preservativi. Il bagno non riesce a passare sotto silenzio quest’altro lato della vita. Lo pulisco alla meglio, forse perché temo di distruggere queste sacre prove della fugacità di chi ci abita. Forse dovrebbero sapere. Forse non hanno avuto occasione di vederlo alla televisione e nei giornali che mescolano tutto con tutto, ammucchiando le cose una sopra l’altra come in un hamburger, forse a scuola non gliel’hanno insegnato, non l’hanno mai visto nei film, Armstrong non l’ha trovato sulla luna. Ogni momento che passa, ci disintegriamo. Moriamo vivendo. Come loro, come me.

Questo me li fa sentire più vicini, questi ricchi ed energici americani tanto diversi da me. Hanno il loro incredibile paese, ritmi diversi, succo d’arancia tutte le mattine a colazione e una lingua parlata in tutto il mondo. Duemila anni fa sarebbero stati loro i romani, e io avrei abitato in provincia, ai lontani confini dell’Impero, nelle Gallie o magari in Palestina. Ma loro e io abbiamo un corpo fatto della stessa argilla e forse anche della stessa polvere, un corpo che perde i capelli, invecchia, si raggrinzisce e deposita festoni di sporco sulle pareti della vasca da bagno. Mentre sistemo gli asciugamani puliti e appendo nuovi accappatoi, la certezza della nostra comune miseria mi assale e m’immobilizza a metà del gesto.

Lo stesso mi accade quando, per esempio, nel letto di una donna ricca e sicura di sé, venuta qui per un importante congresso scientifico, scopro un vecchio orsacchiotto di peluche con addosso una camicina da neonato. O quando nella suite di un Grand’Uomo di Successo trovo le lenzuola madide di sudore. A rifargli il letto è la Paura, questa ossuta cameriera. Meno male che c’è. Senza di lei questi uomini non sarebbero altro che vecchi dèi forti, sicuri di sé, tronfi e cretini. Ma ora, giacendo nei loro letti senza riuscire ad addormentarsi dopo giornate piene di affari, di soldi, di gite, di acquisti, di incontri importanti, e fissando i complicati disegni della tappezzeria alle pareti, i loro occhi affaticati cominciano a distinguere in quel disegno ripetuto una frattura, un buco, un’incoerenza. Cominciano a vederci il graffio, la scoloritura, quel genere di polvere che non si toglie, di sporco che non viene via. In momenti come quelli, i tappeti appaiono spelati come donne malate, mentre nella perfezione della tenda di tulle campeggia una bruciatura di sigaretta. Il raso dei cuscini si sgrana nelle cuciture, la ruggine attacca maniglie e guarnizioni. Gli spigoli dei mobili sono consumati, le nappe delle cortine tutte intrecciate. Il plaid perde la sua elasticità e si affloscia per la vecchiaia. Si sente tanfo di polvere. So anche che cosa fa, a questo punto, una persona così. Si alza, scuote la testa, beve qualcosa di forte oppure manda giù un sonnifero. Sdraiata a occhi chiusi, conta le pecore finché il sonno non viene a liberare i suoi pensieri minacciati. La mattina dopo, quel momento notturno le appare irreale e indistinguibile da un brutto sogno. A chi non capita di averne uno ogni tanto?

Appoggio la schiena alla porta del bagno. Il lavoro è finito. Ho voglia di fumare.

A questo punto posso scegliere tra due camere: la 228 e la 229. Opto per la 229, la somma dei cui numeri dà come risultato la cabalistica cifra

Tredici
È la cifra dell’eccesso e dell’inganno, e tale è infatti questa camera: la 229 ha proprietà tutte sue. Attira, promette, porta sorprese. In sé e per sé parrebbe identica alle altre. Il bagno sulla destra, un breve corridoio e tutto il resto: letto coperto da un copriletto marrone, tappezzeria in varie gradazioni di grigio, tende a fiori, cassettone con specchio. E invece la 229 sembra più vuota delle altre. Qui dentro sento il mio respiro, vedo le mie mani gonfiate dall’acqua, mi rifletto meno casualmente negli specchi. Ogni volta che entro in questa stanza, mi irrigidisco per la tensione. La settimana scorsa c’è stata una coppia di amanti, forse di giovani sposi. Hanno sconquassato il letto, sparpagliato asciugamani dappertutto, rovesciato lo champagne. Di loro sono restate solo alcune macchie giallastre sulle lenzuola e un enorme cesto di fiori, pegno di giuramenti amorosi. Ho dovuto gettarlo via con rammarico. È una stanza più difficile delle altre da rendere pronta per gli ospiti, perché possiede un personalità propria. Accoglie gli ospiti con un suo segreto proposito. Sospetto che dopo la prima notte passata qui dentro essa li avvolga nelle sue reti, li turbi con sogni angosciosi, li trattenga più del dovuto, susciti desideri e sconvolga piani. Due settimane fa i suoi inquilini dimenticarono di chiudere i rubinetti del bagno. L’acqua si rovesciò nel corridoio, inondò gli spessi tappeti, sgretolò le tappezzerie dorate. Gli ospiti, spaventati, stavano in piedi avvolti nelle lenzuola, mentre il personale accorreva con gli stracci.

“Non è successo niente! Non è successo niente!”, ripeteva Zapata strizzando gli stracci bagnati, ma la sua faccia diceva invece che era successa una cosa terribile e cioè che gente stupida e senza cervello aveva alzato le mani contro l’Hotel Capital.

Sono i tipici incidenti della 229.

Che sia una stanza diversa dalle altre, su questo non ci piove. Secondo me alla reception lo sanno, perché tendono spesso a lasciarla disabitata. Convogliano il grosso della clientela nelle stanze con numeri più bassi, all’inizio del corridoio, perché la gente sia più vicina all’ascensore, alle scale, al mondo.

Quando la camera non è occupata, io devo semplicemente controllare che tutto sia a posto, che non ci sia polvere sui mobili e l’aria condizionata funzioni. Lo faccio con particolare attenzione. Liscio il copriletto, controllo gli spigoli delle boiserie, cambio l’aria, dopodiché mi siedo un attimo in poltrona e ascolto il mio respiro accelerato. La camera mi avvolge, mi si stringe contro con l’impercettibile, tenera carezza di cui solo uno spazio chiuso è capace. In momenti come questo avverto chiaramente che il mio corpo esiste e riempie fino agli orli la divisa biancorosa. Sento il colletto sul collo e il freddo della chiusura lampo sul seno. Sento i lacci del grembiule serrarmi strettamente la vita. Sento la mia pelle vivere, profumare, evaporare, sento i capelli sfiorarmi le orecchie. Allora mi piace alzarmi e guardarmi nello specchio, e non c’è mai una volta che non ne resti stupita. Io, quella là? Io? Mi tocco il viso con le dita, stiro la pelle delle guance, sbatto gli occhi, stringo più forte l’elastico attorno ai capelli. D’altronde è così che ci si sogna, sempre in uno specchio, sempre con un’altra faccia.

Gabriella Giandelli

Sto in piedi e sogno di fare un bagno in una vasca tanto pulita da essere sterile, poi di avvolgermi in caldi asciugamani bianchi, infine di sdraiarmi sul copriletto marrone e, con tutta calma, ascoltarci respirare: me e la stanza, la stanza e me.

Oggi però la 229 è occupata e dalla maniglia pende l’avviso che la camera è pronta per essere pulita. Apro con la mia chiave ed entro, portandomi dietro la cassetta con le armi del mestiere. A questo punto mi fermo stupefatta: la camera non è vuota. Alla scrivania un tizio sta curvo sulla tastiera di un computer portatile. Recupero la voce, mi scuso e faccio per uscire, pensando che ci sia un errore e che il tizio abbia appeso il cartellino dalla parte sbagliata. Ma quello mi invita a entrare, pregandomi di non far caso alla sua presenza.

Sono cose che capitano, ma io non le sopporto. Mi costringono a sbrigarmi ed eseguire il mio lavoro sotto gli occhi dell’ospite: solo che adesso io sono l’ospite, e lui il padrone. Le mie pulizie non sono più onnipotenti, non significano niente. Le camere non sono fatte per contenere nello stesso tempo sia l’ospite sia chi pulisce: ci diamo noia a vicenda. Devo rapidamente e abilmente rifare l’enorme letto matrimoniale che va scostato dal muro. C’è poco posto. Il tizio seduto davanti al computer è di per sé un ostacolo alla mia libertà di movimenti. So già che non mi piace. È preoccupantemente vivo.

Innanzitutto tiro via le lenzuola usate e le federe dei quattro cuscini. Stendo il primo lenzuolo pulito e, per tirarlo, devo girare attorno al letto scostato. Sento che l’uomo mi osserva. Non ho il coraggio di guardarlo, per non incontrare i suoi occhi. Dovrei sorridere, lui mi chiederebbe qualcosa e dovrei rispondere. Cerco di fare piano, senza frusciare. Adesso stendo il secondo lenzuolo e mi insinuo tra i mobili per rimboccarlo sotto al materasso. Quando passo accanto alle gambe allungate dell’uomo, mi tendo tutta per non sfiorarle e mi affretto, mi affretto il più possibile. Adesso il tizio mi guarda apertamente. Lo sento. Le sue gambe allungate sono una provocazione, mi intralciano e mi intimidiscono. La fretta e la tensione mi fanno venir caldo. I muscoli tesi dei polpacci mi dolgono mentre sollevo il materasso pesante. Adesso infilo i cuscini nelle federe pulite. Non è che mi riesca bene: un cuscino mi scivola di mano e cade per terra. Ci inciampo e perdo l’equilibrio. Mi ritrovo faccia a faccia con lo sguardo dei suoi occhi incuriositi.

“Sei spagnola?”, chiede.

“No, no”.

“Ebrea?”.

Faccio segno di no.

“E di dove sei?”.

Glielo dico, ma lui sembra deluso. Metto a posto i cuscini e afferro il copriletto. Lui mi osserva con interesse mentre stendo con fatica la pesante sovraccoperta. Gli sono di nuovo vicina, questa volta di spalle. Mentre sistemo i cuscini, mi sento il suo sguardo sui polpacci. Scivolo lungo il muro e nascondo le gambe dietro al letto. A un tratto provo vergogna per le mie basse scarpe nere e mi alzo involontariamente sulle punte. Mi dispiace di avere addosso questa brutta uniforme biancorosa che non mi dona, il grembiule e un mazzo di chiavi alla cintura, invece che uno di quei bei vestiti della camera degli americani. Mi sento sporca, stanca, sudata. So che adesso l’uomo al computer mi guarda sfrontatamente. Il suo sguardo mi tocca dalle parti del colletto e della chiusura lampo, ma io sono già dall’altra parte del letto. Dovrei passargli accanto ancora una volta per posare i cuscini piccoli ma, per non sentirmi sulla schiena il suo sguardo rapace, mi limito a lanciarli sul letto da dove mi trovo. Accucciandomi per raccattare la biancheria sporca, la biancheria del tizio che mi guarda, sento che il mio corpo si è gonfiato e vuole saltar fuori dall’uniforme. Dovrei forse giustificarmi? In che tono, in quale lingua e perché, poi? Con gli occhi bassi arretro verso l’uscita. Raccatto la cassetta con i prodotti e le spugne, e mi fermo sulla porta.

“Grazie tante”, dico, pur sapendo che non ho niente di cui ringraziarlo. È lui che dovrebbe inchinarsi cavallerescamente e baciarmi la mano. Io gli farei una riverenza, o qualcosa del genere.

Vedo il tizio tentennare la testa con fare assolutorio. Nel suo impercettibile sorriso c’è qualcosa che mi fa afferrare la maniglia con un senso di sollievo.

“Arrivederci”, dice. Ma io non voglio più rivederlo.

Sono già fuori della porta.

Mi trattengo ancora un attimo, in ascolto. Sono tutta accaldata, mi fanno male le gambe, mi tremano i muscoli per la stanchezza. Ho fatto così in fretta che ho risparmiato un sacco di tempo. A questo punto potrei anche andare di sotto, a riprendermi un po’.

Lascio la cassetta accanto alla parete e vado al terzo piano dove, attraverso una scaletta a chiocciola, si apre un piccolo passaggio sulla dépendance, e dove comincia

La parte più segreta dell’Hotel
destinata agli ospiti fissi. Scendo qualche scalino, supero una prima porta, poi una seconda e infine mi fermo davanti alla ringhiera di una tromba di scale profonda tre piani. Guardo in giù e vedo il piano terra. Come al solito, non c’è nessuno.

Nient’altro che penombra e tranquillità. Questo è il modo migliore per riposare: guardare in giù dove tutto diventa sempre più piccolo e lontano, meno distinto e ingannevole.

La dépendance è davvero la parte più misteriosa dell’Hotel. Bisogna essere molto svegli per non smarrirsi. Nient’altro che scalini, passaggi, mezzanini e curve. È una specie di torre con degli annessi, sulla quale si articolano tre piani, ognuno dei quali ospita due stanze numerate da cifre che cominciano per sette. So che le stanze sono otto in tutto, però non riesco a capire in quali anfratti si nascondano le altre due. Forse ci abitano misantropi, mogli scomode, gemelli pericolosi, cupe amanti. Forse vengono affittate dalla mafia per transazioni illegali, oppure da capi di Stato desiderosi di sentirsi, in quel chiuso spazio a spirale, persone qualunque.

Le stanze della dépendance non sono come le altre, ma veri e propri appartamenti. Forse meno eleganti, o magari di un diverso genere di eleganza. Armadi a muro, verande, mobili strani e libri finti. Interi scaffali di libri finti: Shakespeare, Dante, Donne, Walter Scott. Quando si prendono in mano, ci si accorge che sono solo scatole di cartone con sopra una finta copertina. Le biblioteche del vuoto.

Quando si raggiungono le toilette del personale attraverso la dépendance, bisogna stare molto attenti a non perdersi. All’inizio mi succedeva spesso. Aprivo una porta che mi pareva nota, ma che non portava dove avrebbe dovuto; lasciavo la cassetta con gli attrezzi su una scala che poi non riuscivo a rintracciare. Ammiravo le riproduzioni di nature morte appese alle pareti, e poi mi dicevo che dovevo averle sognate. Qui lo spazio subisce strane metamorfosi. Lo spazio non ama né le scale a chiocciola, né i camini né i pozzi e reagisce degenerando in labirinto. La cosa migliore è reggersi alla ringhiera delle scale, come faccio io adesso. Non guardare né in su né in giù, ma solo davanti a sé.

A un tratto vengo raggiunta da un suono; da qualche parte più in basso sta accadendo qualcosa dal sospetto andamento ritmico: puff, puff e un cigolio. In punta di piedi scendo al piano di sotto, tesa come un gatto. Gemito, cigolio, gemito, cigolio. Che può essere? Mi accosto a una porta identica a tutte le altre porte dell’Hotel. Dallo spiraglio inferiore intravedo delle fibbiette metalliche e sento distintamente quegli strani suoni, accompagnati da un ansimare. Accosto cautamente l’orecchio alla porta ed ecco che l’ansimare si fa sempre più affrettato e violento, il cigolio più impressionante. Arretro impaurita, mi viene caldo, le chiavi attaccate alla cintura tintinnano.

Di là dalla porta tutto tace. Salgo silenziosamente le scale e dal piano di sopra mi affaccio alla ringhiera. Si ode uno schioccare di fibbie sganciate, la porta della camera si apre e un uomo in mutande sporge la testa nel corridoio. Tiene in mano un attrezzo pieno di molle, una specie di complicato estensore. Arretro rapidamente contro il muro. Faccio fatica a controllare l’immaginazione scatenata.

Per l’oscura scala a chiocciola scendo in cantina, dove si trovano le nostre toilette. Il locale è ben illuminato da semplici lampadine. Raggiungo il gabinetto e mi ci chiudo dentro. Mi spruzzo di acqua fredda, mi lavo mani e viso, ma senza provare refrigerio. Mi siedo sulla seggetta. In questo posto non giunge alcun suono. È sterile, silenzioso, sicuro. Osservo attentamente uno per uno i prodotti per lavare gli apparecchi sanitari, gli asciugamani di carta, il grosso rotolo di carta igienica e le dichiarazioni scritte di proprio pugno da Miss Lang: una Breve Storia della Civilizzazione del Personale.

Inizialmente Miss Lang aveva scritto: “Secondo te, per quale motivo l’Hotel acquista sacchetti di carta usa e getta?”, firmato “Miss Lang”. Evidentemente nessuna delle ragazze era stata capace di rispondere alla domanda, perché sotto al primo biglietto ne appare un secondo: “Potresti usare i sacchetti di carta per gettare ogni genere di materiale igienico usato?”. Ma neanche questa richiesta ha dato risultati, perché più in basso, con l’inchiostro rosso, Miss Lang ha categoricamente aggiunto: “Si prega di non gettare assorbenti e tamponi nella tazza!”.

Resto seduta ancora per un po’, contemplando la forma di ogni lettera. Poi tiro l’acqua, mi aggiusto i capelli e mi avvio verso il mio piano, dove mi aspetta ancora

L’ultima camera
Sono le due passate e comincia il movimento. L’ascensore principale va su e giù, le porte sbattono nell’aprirsi e nel chiudersi. Gli ospiti vanno in città, gli stomaci reclamano il lunch. Angelo della Biancheria Sporca, insediato nel mio sgabuzzino, ficca le lenzuola nei sacchi.

“Quante te ne mancano?” chiede.

“Una” dico, e per l’ennesima volta constato che il posto giusto per Angelo non dovrebbe essere un albergo, neanche se elegante come il Capital, bensì il Cantico dei cantici. Lì potrebbe camminare, balzando sulle montagne come un cerbiatto. Angelo, infatti, è bello e imponente come i monti del suo Libano.

Annuisce, indicandomi che dalla 228 sta uscendo una coppia anziana. Li ho già visti una volta mentre andavano all’ascensore. Lui è alto, canuto, leggermente curvo e meglio conservato di lei. Forse è più giovane, oppure ha stretto un patto con il tempo. Lei, piccola, rinsecchita, tremolante, cammina a stento.

“Sono svedesi. Lei è venuta qui a morire”, dice Angelo, che sa tutto.

Sul comodino accanto al letto giacciono due libri. Faccio quel che mi è proibito fare: apro il primo

Penso che scherzi ma, voltandomi a guardarli, vedo che il vecchio più che sorreggerla, la porta di peso. Se si scostasse, lei cadrebbe per terra come un abito vuoto. Sono sempre vestiti di beige e di varie sfumature di marrone pastello, i colori dell’albergo. Sono entrambi canuti, di quella canizie che ha scordato tutti i peccati.

Quando spariscono nell’ascensore, entro nella loro camera. Mi piace pulirla. Qui dentro non c’è molto da fare: le cose stanno al loro posto quasi vi avessero messo radici. Nell’aria, nessuna traccia di brutti sogni, di respirazioni affannose, di eccitazione. I cuscini lievemente incavati testimoniano sonni tranquilli. In bagno, asciugamani appesi con cura, spazzolini da denti allineati, i due bicchieri lavati che si riflettono in doppio nello specchio. I cosmetici sono quelli di base: una semplice crema, un colluttorio per sciacquare la bocca, un profumo discreto e una eau de toilette. Mentre rifaccio il letto vengo colpita, dalla mancanza di un odore preciso. Come i bambini, la cui pelle non emana sentori propri, ma afferra e trattiene gli odori esterni: di aria, di vento, di erba schiacciata sotto il gomito e il meraviglioso, salato odore di sole. Queste lenzuola odorano nello stesso modo. Quando si dorme senza peccati, senza piani a lunga scadenza, senza ribellione né disperazione, quando la pelle si fa sempre più sottile, come di carta velina, quando lentamente la vita fugge dal corpo come da un buffo giocattolo di gomma, quando il futuro appare compiuto e conchiuso per sempre, quando di notte si comincia a sognare Dio, allora il corpo smette di contrassegnare il mondo con il proprio odore. La pelle accoglie gli odori esterni e li gusta per l’ultima volta.

Sul comodino accanto al letto giacciono, uno di fianco all’altro, due libri. Ascolto se qualcuno si aggira per il corridoio e faccio quel che mi è proibito fare: apro il primo. È un grosso quaderno, probabilmente un diario perché su ogni pagina appare una data e, sotto, una scrittura rotonda e tremolante in una lingua per me completamente incomprensibile. Il secondo è una Bibbia in svedese.

Non ci capisco niente, eppure tutto mi appare familiare. Il nastrino rosso che fa da segnalibro è inserito all’inizio dell’Ecclesiaste. Scorro con gli occhi i versetti e ho l’impressione di capire ogni cosa. Prima mi diventano note le singole parole, poi frasi intere sgorgano dalla memoria e si mescolano alla stampa. “Ciò che è stato è quello che sarà e ciò che s’è fatto è quello che si farà: niente di nuovo avviene sotto il sole”. Le parole più misteriose delle Sacre Scritture.

Finite le pulizie, mi siedo un attimo sul letto appena rifatto. È bello sospendere per un attimo la propria esistenza. Poi mi guardo le mani corrose dai prodotti per le pulizie, i piedi ormai visibilmente gonfi dentro le scarpe nere. Ma il mio corpo è vivo e riempie la pelle fino all’orlo. Mi annuso la manica dell’uniforme: sa di stanchezza, di sudore, di vita.

Di proposito lascio un po’ di questo odore nella camera 228.

Chiudo la porta e vado nel mio ripostiglio. Ripongo l’aspirapolvere e la cassetta con i prodotti, mi tolgo la divisa biancorosa e per un attimo resto nuda, senza proprietà. Perché il Cambiamento possa effettuarsi nell’altro senso devo indossare gli orecchini, il vestito colorato, scompigliarmi i capelli e truccarmi.

Uscendo nella strada inondata di sole, incrocio lo scozzese intento a rivestirsi dentro il portone. La gonna a quadri giace sopra la cornamusa intanto che lui si abbottona un paio di jeans stracciati all’ultima moda.

(Traduzione di Vera Verdiani)

Questo articolo è uscito il 28 dicembre 2002 nel numero 418 di Internazionale. Il racconto era stato scritto nel 1989 e tradotto sul trimestrale britannico Granta dell’inverno 2000 con il titolo Hotel Capital.

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