Quando Giulia (il nome è di fantasia) e il suo compagno hanno cominciato ad avere rapporti senza preservativo, racconta lei, “tutto mi è sembrato così naturale, come in fondo dovrebbe sempre essere”. Era il 2018 e fino ad allora i due non l’avevano mai fatto senza protezione. Giulia, 35 anni, è una donna sieropositiva, mentre il suo partner non ha mai contratto il virus. “La mia vita è cambiata molto da quando a 26 anni mi è stato diagnosticato l’hiv”, racconta. Ci sono le cure che non si possono interrompere, e la paura dello stigma sociale è ancora molto forte.

Ma i medici hanno assicurato a Giulia che i rapporti sessuali con il suo compagno, anche senza preservativo, sono assolutamente sicuri. Quattordici mesi fa, i due hanno anche scelto di avere un figlio, che è nato a febbraio. “Non avrei mai fatto nascere mio figlio se i medici non mi avessero dato la certezza che sarebbe nato sano”, racconta. Giulia infatti, come il 90 per cento delle persone sieropositive in cura oggi in Italia, non è contagiosa.

La vita delle persone sieropositive in Italia e nei paesi dove sono disponibili terapie antiretrovirali adeguate è radicalmente cambiata rispetto a 15 anni fa, anche se nel nostro paese se ne parla molto poco. Nel maggio 2019 sono stati pubblicati su The Lancet i risultati di uno studio intitolato Partner2, che esclude definitivamente la trasmissibilità del virus tramite rapporti sessuali nelle coppie gay, laddove il partner sieropositivo abbia una carica virale annullata, ovvero la presenza del virus nel sangue sia a livelli talmente bassi – grazie alle cure mediche – da non poter essere trasmessa a un’altra persona. Negli anni precedenti, era già stato escluso che persone sieropositive con carica virale nulla potessero infettare il partner attraverso rapporti vaginali e orali.

I primi a rompere il muro eretto intorno alle persone sieropositive sono stati gli svizzeri nel 2008

Tutto questo dovrebbe permettere di ridurre le nuove infezioni e, in prospettiva, di eliminare l’hiv, a patto che aumenti il numero di persone che fanno i test in modo da conoscere il loro stato di salute e da poter accedere alle cure. Per le persone che hanno contratto l’hiv, spiega Andrea Gori, direttore dell’unità malattie infettive del policlinico di Milano e presidente della sezione lombarda dell’associazione nazionale per la lotta contro l’aids (Anlaids), è “un progresso incredibile. Vuol dire che cambia per sempre la loro vita di relazione. Conosco centinaia di pazienti che si erano negati una vita di coppia per paura di contagiare il partner. Non è più così”.

A Pigi Mazzoli, che ha 62 anni, l’hiv fu diagnosticato nel 1987: “Mi dissero che avevo solo un anno di vita”. Oggi ha un compagno di 42 anni, che ricorda con tenerezza le prime volte che fecero sesso: “Da parte di Pigi era tutto un dirmi ‘Questo è sicuro’, ‘Questo possiamo farlo’, ‘Per questo dobbiamo mettere il preservativo’”. Oggi molte di quelle accortezze non sono più necessarie: come Giulia, infatti, anche Mazzoli e il 90 per cento delle persone in cura in Italia, hanno una carica virale azzerata. “Ho vissuto per trent’anni con la paura di morire. Senza questa ombra, sarebbe stato diverso. A volte ci penso, certo. Ma non è importante, adesso sono felice”.

Una storia lunga
La storia che ha portato la comunità scientifica a cambiare orientamento rispetto alla trasmissibilità del virus dell’hiv è molto lunga: oggi è accertato che una persona con una concentrazione del virus nel sangue inferiore a un certo livello, monitorando la situazione con esami ogni quattro mesi, può avere rapporti sessuali senza protezioni e, più in generale, è da considerarsi non contagiosa.

Nello specifico, non lo si è quando ci sono meno di 200 copie del virus in un millilitro di sangue (il virus si riproduce proprio generando copie di se stesso). Spesso chi è in cura è sotto le 50 copie per millilitro. Un uomo sieropositivo, inoltre, può avere un figlio o una figlia con il proprio partner naturalmente, senza utilizzare il lavaggio dello sperma, e questo nascerà sano. Una donna sieropositiva, se lo vuole, può partorire naturalmente. Solo per quanto riguarda l’allattamento al seno esistono ancora dei timori. “Se avessimo saputo prima della possibilità di avere un figlio senza ricorrere alla fecondazione assistita, forse l’avremmo fatto, anche se non è mai stato un obiettivo irrinunciabile della mia vita”, racconta Paola (nome di fantasia), 47 anni, che vive in provincia di Bergamo con un compagno a cui la sieropositività è stata diagnosticata nel 1987. “Adesso è troppo tardi”.

Pigi Mazzoli e Franco Dal Molin, Milano, settembre 2019. (Chiara Goia per Internazionale)

I primi a rompere il muro eretto intorno alle persone sieropositive sono stati gli svizzeri nel 2008. Lo Swiss statement, un documento voluto dalla Swiss national aids commission e firmato nel gennaio di quell’anno dai maggiori esperti elvetici sulla materia, affermava che, pur non essendoci prove scientifiche incontrovertibili, era “altamente plausibile” che persone in cura con carica virale sotto alle 40 copie per millilitro non fossero contagiose. Il testo aveva consentito, tra le altre cose, di fermare i processi contro le persone sieropositive che, anche se avevano rapporti sessuali con il loro partner in maniera consensuale e informata, potevano essere incriminate per il reato di “tentata propagazione di una malattia pericolosa”.

Nel 2012 Bruce Richman, sieropositivo, durante una visita periodica dal suo medico fu informato che, avendo una carica virale annullata, poteva considerarsi non infettivo. “Per anni”, ha dichiarato, “ero stato così spaventato dall’idea di trasmettere il virus che non mi ero mai aperto all’amore. Adesso mi sentivo libero. Ma mi colpiva anche il fatto che nessuno parlasse di questa notizia sensazionale”. In quell’anno Richman ha cominciato a consultare medici e attivisti, scoprendo che in effetti esisteva un consenso generale sulla non trasmissibilità del virus, che rimaneva però confinato nel mondo degli specialisti. Nel 2015 ha cominciato così a lavorare a una grande campagna d’informazione chiamata “u=u”, ovvero “undetectable equals untransmittable” (non rilevabile uguale non trasmissibile). Il suo obiettivo è spingere i medici, gli attivisti e l’opinione pubblica a impegnarsi per cambiare il modo con cui si affronta la questione dell’hiv.

Nel 2016 è stato pubblicato lo studio Partner, che ha potuto affermare quello che lo Swiss statement aveva potuto solo ipotizzare: tra il 2010 al 2014 l’osservazione di 888 coppie sierodiscordanti – e cioè dove uno dei partner aveva contratto il virus dell’hiv mentre l’altro no – aveva consentito di escludere l’infezione per via sessuale nei casi in cui il partner sieropositivo aveva la carica annullata. Nel 2019, infine, lo studio Partner2 ha confermato le conclusioni della ricerca precedente anche per quanto riguarda i rapporti anali tra uomini, considerati i più a rischio.

Pigi Mazzoli e Franco Dal Molin, Milano, settembre 2019. (Chiara Goia per Internazionale)

Oggi u=u non è solo una campagna informativa o un’ipotesi. È una verità scientifica che ha conseguenze concrete sulla vita di migliaia di persone e per questo sta trovando spazio anche nella cultura popolare. Da giugno è disponibile su Netflix una nuova stagione di Tales of the city, serie televisiva ispirata ai libri di Armistead Maupin, da I racconti di San Francisco ai volumi successivi. In questa ultima stagione, Michael Tolliver, il personaggio sieropositivo, viene informato dai suoi medici che può fare sesso con il compagno senza più usare il preservativo, cosa che fatica ad accettare per paura di contagiarlo.

Un trauma, racconta la ricercatrice dell’ospedale San Raffaele di Milano Silvia Nozza, “che hanno anche certi miei pazienti. Alcune coppie ci chiedono di continuare la prep, la profilassi pre-esposizione per il partner sieronegativo, anche se non è necessaria”. Anni prima, addirittura nel 2001, era uscito Pillole blu, una graphic novel di Frederik Peeters, che racconta la sua vita di sieronegativo in coppia con una donna sieropositiva che ha un figlio, anche lui sieropositivo (in Italia è pubblicato da BaoPublishing). La donna è in cura da anni, la sua infezione è sotto controllo, e così il medico di Frederik gli dice che “al suo posto, probabilmente (…) mi scorderei il preservativo”. Lui si arrabbia: “Mi prende in giro per caso? Sta riducendo anni di educazione sessuale in briciole, si rende conto di cosa direbbero i suoi colleghi?”. Il fumetto racconta molto bene quello che si stava muovendo nella comunità scientifica e che, prima di diventare patrimonio condiviso, ha impiegato anni di verifiche. E battaglie, anche, come quella di Bruce Richman.

Le campagne in Italia
In questo quadro, l’Italia è una periferia dove le informazioni faticano a diffondersi. La Lega italiana per la lotta contro l’aids (Lila) ha lanciato la sua prima campagna informativa focalizzata su u=u nel 2017. S’intitolava Noi possiamo. Ma già due anni prima, nel 2015, l’associazione Plus – Persone lgbt sieropositive onlus aveva scelto di partecipare ai Pride in Italia con lo slogan “Positivo ma non infettivo” e, l’anno prima, era stato distribuito l’opuscolo “Sesso gay positivo” in cui si parlava della terapia come prevenzione, spiega il vicepresidente dell’associazione Giulio Maria Corbelli, che ha fatto parte anche del comitato esecutivo dello studio Partner.

La forza delle associazioni, però, è ovviamente limitata rispetto a quello che possono fare le autorità pubbliche. “Abbiamo chiesto l’impegno del ministero della salute per una campagna nazionale” spiega Gori, che è ottimista su una risposta positiva. L’ultima campagna di informazione sull’hiv finanziata dal ministero è stata diffusa ad agosto, ma parla in maniera generica della necessità di proteggersi utilizzando il preservativo, senza introdurre il tema u=u. Alcuni ospedali si stanno muovendo in maniera autonoma. Al San Raffaele di Milano, dal giugno 2019, il messaggio “u=u – chiedi al tuo medico” compare negli schermi tv della sala accettazione.

Franco Dal Molin e Pigi Mazzoli, settembre 2019. (Chiara Goia per Internazionale)

I passi da compiere, però, sono ancora tanti. All’inizio dell’estate le cronache nazionali hanno raccontato la storia di uno stabilimento balneare in provincia di Bari che ha rifiutato tredici ospiti perché sieropositivi. Tutti gli ospiti avevano una carica virale nulla, ma anche se non fosse stato così non avrebbero potuto certo contagiare gli altri ospiti mangiando uno a fianco dell’altro, o facendo il bagno nella stessa piscina. Nel novembre 2018, la procura di Catania ha aperto un’inchiesta sulla nave Aquarius ipotizzando, tra le altre cose, il rischio di una propagazione dell’hiv attraverso gli indumenti utilizzati dai migranti, ipotesi destituita di ogni fondamento scientifico.

Tutte le persone sieropositive con cui ho parlato mi hanno detto di sentire un forte stigma sociale, misto a paure irrazionali, nei loro confronti. “Dopo anni, ho scoperto che di me dicevano che ero quello che andava a letto con l’appestato”, racconta Franco Dal Molin, compagno di Pigi Mazzoli. Giulia ha scelto di nascondere la sua sieropositività al di fuori della sua famiglia. “Vorrei che fosse considerata come un fatto medico, non come una colpa”. Un’altra coppia omosessuale, Gabriel e Marco, entrambi di 33 anni (i nomi sono di fantasia), racconta di diverse cene con amici e conoscenti dove, a un certo punto, c’è sempre qualcuno che afferma che “lui, con una persona sieropositiva, a letto non ci andrebbe mai”, con o senza preservativo. “E io ho smesso di parlarne, perché non ho voglia di affrontare tutti i giorni l’ignoranza delle persone”, dice Gabriel. Marco, il suo compagno, oggi afferma di sentirsi più sicuro facendo sesso non protetto con il suo partner sieropositivo che “avendo un rapporto con una persona che mi dice di aver fatto i test, magari quattro mesi fa e dice di essere sieronegativa”.

L’affermazione di Marco è scientificamente corretta ma anche lui, prima di arrivare a questa consapevolezza, ha dovuto fare un grande cammino. “Prima di avere il nostro primo rapporto sessuale, prima di metterci assieme, Gabriel mi disse che era sieropositivo, e io mi misi a piangere. Ero molto ignorante, ipocondriaco. Sieropositività per me voleva dire morte. Inventai una scusa, gli dissi che non ero pronto per un rapporto e sparii”. Gli ci sono voluti nove mesi, molte letture, confronti con infermieri e medici, per superare le sue paure e cominciare infine una vita di coppia con Gabriel. “Se dovessi dare un messaggio, è questo: informatevi, ci sono associazioni come Anlaids a cui ci si può rivolgere sia che siate sieronegativi sia che siate sieropositivi. L’informazione ti cambia la vita, a noi l’ha cambiata”, racconta Gabriel.

L’importanza dei test
L’impatto di u=u va ben oltre il miglioramento della qualità della vita delle persone sieropositive e la fine, auspicata, dello stigma e della paura nei loro confronti. Quando a maggio è stato pubblicato lo studio Partner2, il quotidiano britannico The Guardian si è spinto ad affermare, nel titolo di apertura del giornale, che la fine dell’hiv è vicina. In effetti, spiega Andrea Gori, “se tutte le persone sieropositive conoscessero il loro stato e si curassero, potremmo abbattere le nuove infezioni dell’80 per cento nel giro di un paio d’anni”.

Il problema è il “se” iniziale: nel 2017 in Italia (ultimi dati disponibili) ci sono state 3.443 nuove diagnosi di infezione nonostante il 90 per cento delle persone in cura per l’hiv abbia una carica virale azzerata. Esistono però altre 15mila persone, secondo stime presentate alla Italian conference on aids and antiviral research nel maggio 2019, che non si curano semplicemente perché non fanno i test e quindi non sanno di essere ammalate. Sono queste persone, più di quelle sieropositive e in cura, i veicoli delle nuove infezioni.

In questo contesto si inserisce la provocazione della ricercatrice Silvia Nozza, secondo cui “oggi non c’è nessun obbligo morale per una persona sieropositiva con carica virale azzerata di avvisare il suo partner occasionale del suo stato sierologico, semplicemente perché non è pericoloso”. Un modo per dire che il rischio è altrove e che la responsabilità della diffusione è, prima di tutto, in capo a chi ha rapporti non protetti fidandosi delle dichiarazioni del partner rispetto a una sieronegatività che è sempre presunta.

Un altro medico, Diego Ripamonti, infettivologo all’ospedale di Bergamo, preferisce evitare la domanda sull’obbligo morale delle persone sieropositive di avvisare i loro partner sessuali: “Sono abbastanza vecchio da sapere che, in caso di rapporti occasionali, non lo faranno comunque”. Questo anche a causa di uno stigma sociale e medico che rimane fortissimo. “L’immaginario predominante rimane quello dell’alone viola intorno alle persone sieropositive di una pubblicità degli anni novanta”, racconta Ripamonti. “Oggi andrebbe fatta una nuova pubblicità in cui si spiega che quell’alone viola, per le persone con una carica virale nulla, non esiste più, è cancellato. Ma so bene che non si farà mai”.

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