In Italia si mangia meno carne ma gli allevamenti diventano più grandi
Gli italiani mangiano meno carne, soprattutto molta meno carne rossa. Negli ultimi dieci anni, la quantità pro capite consumata ogni anno è passata da 81 a 76 chili. Ci sono però delle differenze: è soprattutto la carne bovina a crollare, passando dai 23,7 chili del 2010 ai 17,2 del 2018, con un calo quasi del 30 per cento. Sono questi i risultati di un rapporto curato dall’associazione Essere animali incrociando dati di diverse fonti: dall’Istat alla Banca dati nazionale dell’anagrafe zootecnica (Bdn), dall’Ismea all’Eurostat.
L’associazione, nota per la sue campagne e le azioni di denuncia degli allevamenti intensivi, propone una panoramica approfondita dell’evoluzione dei consumi di carne nel nostro paese, analizzando una per una le specie allevate e identificando alcune tendenze che diventeranno con ogni probabilità sempre più marcate nel prossimo futuro. Queste tendenze si prestano a una serie di ragionamenti su un’industria, quella zootecnica, che in Italia muove quasi 34 miliardi di euro all’anno e rappresenta il 27 per cento del fatturato dell’intero comparto agroalimentare.
Paure, empatia, potere d’acquisto
Veniamo quindi all’analisi dei risultati. Se da una parte in Italia il consumo di carne cala, dall’altra aumenta il numero di capi allevati. Questo dato, apparentemente incoerente, è determinato dal deciso balzo in avanti della quantità di pollame allevato, che ha raggiunto il numero record di 511 milioni di capi nel 2019, con un incremento del 10 per cento rispetto al 2010 (più cinquanta milioni).
Come si spiega il crollo del consumo di carne bovina e il contestuale aumento di quello di polli e tacchini? L’allarme lanciato nell’ottobre del 2015 dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità (Iarc), che ha classificato la carne rossa tra gli alimenti probabilmente cancerogeni, ha senz’altro giocato un ruolo importante, facendone diminuire il consumo.
Se quando si parla di alimentazione in cima alle preoccupazioni degli italiani svettano i presunti rischi per la salute, i ricercatori di Essere animali sottolineano anche un altro aspetto: l’empatia. Secondo quanto scrivono nel rapporto, “se per vitelli, vacche e maiali stanno crescendo sensibilità e sdegno per le condizioni di allevamento, ben più difficile risulta creare empatia nei confronti di un pollo”. Un’empatia che sarebbe alla base del vero e proprio crollo dei consumi di altre due specie, di cui l’Italia era tra i leader in Europa: il coniglio e il cavallo, che registrano un calo rispettivamente del 30 e del 70 per cento. Considerati sempre più animali da compagnia, stanno uscendo dalle abitudini di consumo, in modo molto evidente tra le generazioni più giovani.
Ricondurre tuttavia questi dati solo a motivazioni salutari e affettive vuol dire ignorare un altro lato della questione: la ridotta capacità d’acquisto delle famiglie, che è senza dubbio un’altra ragione alla base dello spostamento dalla carne rossa alla carne bianca. Come sottolineava già nel 2016 un rapporto del Censis, la crisi economica ha imposto una maggiore sobrietà dei consumi, creando una sorta di “food social gap”, in cui sono soprattutto le famiglie meno benestanti a dover ridurre gli acquisti di alimenti più costosi.
Secondo la ricerca, il calo della carne rossa è più rilevante tra le persone più povere, costrette a rivedere le proprie abitudini di consumo in funzione della limitata capacità d’acquisto. “La carne bovina è sempre il primo alimento che salta nelle situazioni di crisi”, conferma Luigi Scordamaglia, amministratore delegato dell’azienda Inalca e vicepresidente di Assocarni. “È un prodotto più costoso in termini di produzione: gli animali devono stare al pascolo per un lungo periodo. Hanno un indice di conversione diverso rispetto ad altre specie: necessitano cioè di una maggiore quantità di mangime per l’accrescimento di un chilogrammo di peso vivo e richiedono molto più tempo per raggiungere la pezzatura da macellazione. La carne ha di conseguenza un costo più alto”.
L’aumento del consumo di carne di pollo va di pari passo con un’altra tendenza messa in luce dal rapporto: gli allevamenti diventano sempre più grandi. In Italia, il 99,8 per cento di quelli di polli hanno ormai più di cinquemila capi. La situazione è simile per quelli di suini e di vacche da latte. Nel primo caso, negli ultimi dieci anni 1.500 allevamenti sono stati chiusi, ma il numero di suini allevati è rimasto più o meno stabile. Nel secondo caso ha chiuso uno stabilimento su tre, a fronte però di una riduzione del consumo di latte e derivati solo del 13 per cento.
Quale sostenibilità?
Questi dati ci raccontano un processo incontrovertibile, simile in tutto il mondo: la tendenza prevalente è verso una produzione più intensiva, allevamenti con un maggiore numero di capi, che possano fare economie di scala e proporre carne a prezzi più bassi. Megastrutture che inevitabilmente finiscono per avere un impatto maggiore sull’ambiente. “In realtà, gli allevamenti italiani hanno fatto enormi passi avanti in termini di sostenibilità”, afferma Giuseppe Pulina, professore di zootecnia all’università di Sassari e presidente di Carni sostenibili, che riunisce le associazioni di rappresentanza Assocarni, Unaitalia e Assica. “Grazie alle ricerche sull’alimentazione e al miglioramento genetico delle specie allevate, dal 1970 a oggi abbiamo ridotto al 40 per cento le emissioni di gas serra e abbiamo quasi dimezzato le emissioni azotate per chilo di proteina prodotta”.
Che la sostenibilità sia una delle poste in gioco per il futuro del settore sembra abbastanza chiaro. Il numero di vegani e di vegetariani è in aumento, soprattutto tra le generazioni più giovani, e poi c’è tutta una fascia di consumatori che non vuole rinunciare alla carne, ma che ha a cuore il tema ambientale. Il rapporto di Essere animali segnala un incremento degli allevamenti biologici, più marcato per i bovini, meno per i suini e il pollame.
“Tenere conto di queste esigenze è prioritario. Bisogna promuovere una produzione che sia sostenibile da tutti i punti di vista: ambientale, sociale ed economico”, sottolinea ancora Scordamaglia, che è anche consigliere delegato di Filiera Italia, un progetto che ha l’obiettivo di valorizzare il prodotto italiano attraverso contratti di filiera pluriennali tra allevatori e trasformatori. “Il bovino è tradizionalmente un animale simbolo dell’Italia. Ridargli un ruolo, mettendo l’accento sull’origine senza dimenticare il benessere animale è una sfida per il futuro. Noi puntiamo a riportare nel nostro paese parte della produzione di vitelli che normalmente importiamo dalla Francia e rivitalizzare così distretti agricoli diventati negli ultimi anni marginali”.
Sarà possibile colmare il “food social gap”, alla vigilia di una probabile crisi economica che colpirà pesantemente il budget delle famiglie? O saremo sempre più divisi in due fasce di consumatori: quelli con maggiore potere d’acquisto, che mangeranno carne proveniente da produzioni più sostenibili, e quelli più poveri, che si dirigeranno su carne prodotta in mega-allevamenti dal maggior impatto ambientale? In realtà, sottolinea Pulina, la politica “from farm to fork” (dalla fattoria alla forchetta) appena approvata dalla commissione europea ha dato un importante assist al settore e potrebbe rappresentare una grande occasione. “Imponendo aumenti della produzione organica, sarà sempre più richiesto letame da allevamenti come concime. Il che porterà a una riconnessione tra zootecnia e agricoltura”.
La sfida per il domani sembra questa: re-immettere l’allevamento in un processo di economia circolare, in cui gli animali siano cresciuti nel rispetto del loro benessere e dell’ambiente circostante, e non considerati semplici macchine per produrre la maggior quantità di carne nel minor spazio possibile.