Mi ha colpito l’aggettivo. Sabato 10 aprile 2021 il notiziario serale di Radio 4, di solito irreprensibilmente fattuale, ha diffuso la seguente notizia: “Il principe Carlo ha parlato in modo toccante della morte del padre, il principe Filippo”.
Il duca di Edimburgo era morto da un giorno e mezzo e, accendendo la radio, si sentivano frasi degne di uno spettacolo satirico: “Un uomo d’azione, un uomo di idee, un vero uomo del rinascimento”. Le battute di Filippo sugli studenti britannici che “rischiano di farsi venire gli occhi a mandorla a forza di stare in Cina” erano troppo note per far finta che non esistessero, ma sono state ridotte a tentativi mal interpretati di rompere il ghiaccio. I notiziari erano pervasi da un trasporto emotivo mai visto prima.
Tutta questa melassa ha distratto i britannici dal primo pensiero che si ha in situazioni simili, quello rivolto alla vedova del defunto, in questo caso la donna forse più famosa del mondo: la regina Elisabetta II. Pochi giorni dopo la Bbc ha fatto sapere che 109.741 ascoltatori si erano lamentati per l’eccessiva attenzione dedicata alla dipartita del principe Filippo, diventata così l’avvenimento che ha suscitato più proteste nella storia della radio e della tv britanniche. Ma davvero una simile copertura mediatica era un motivo di preoccupazione? Oppure era solo una macabra pantomima passeggera? Pensare che la risposta sia la seconda è troppo comodo.
Il collante nazionale
Il 9 aprile il programma di Radio 4 Any questions?, solitamente un dibattito con le domande degli ascoltatori, ha ospitato una “conversazione” sulla vita e le imprese del duca di Edimburgo. Si sono ascoltate osservazioni interessanti sugli anni del regno di Elisabetta II, ma l’assenza di voci critiche nei confronti della corona era così evidente da far pensare a uno stratagemma per evitare qualunque dibattito sui princìpi fondamentali che reggono il paese. Questa discussione, tuttavia, oggi è più necessaria che mai, perché la morte del duca e il novantacinquesimo compleanno della regina, arrivato pochi giorni dopo, il 21 aprile, indicano che il tramonto della corona britannica non è poi così lontano. Quando morirà Elisabetta un’ondata ancora più grande di emotività retorica e infantilizzante, accompagnata da autentiche manifestazioni di dolore, metterà a tacere qualsiasi discorso su una riforma delle istituzioni britanniche. Ma un regno con un’evidente tendenza alla disgregazione, in cui Elisabetta II è un collante sempre meno efficace, non può permettersi di distogliere lo sguardo dalle conseguenze della futura uscita di scena della regina.
Basterà la cerimonia di incoronazione del futuro re a sollevare i grandi interrogativi su cui il paese non riflette più da ormai settant’anni e che riguardano la religione, le classi sociali e il posto del Regno Unito nel mondo. Nel 1952, quando Elisabetta è salita al trono, c’era ancora l’impero, che aveva colonie in Africa e in altre parti del mondo. Nel 1953 gli invitati all’incoronazione della regina erano quasi esclusivamente aristocratici della camera dei lord, dove tutti i seggi erano ereditari, salvo quelli riservati ai vescovi della chiesa anglicana, che allora battezzava i due terzi dei nuovi nati e oggi, invece, solo un bambino su dieci. Perfino gli appassionati dello sfarzo reale si aspettano che la prossima cerimonia si adatti a una società postimperiale, postaristocratica e postanglicana.
Riforme e obiezioni
Ma l’interrogativo più importante è – o dovrebbe essere – se vogliamo davvero che la corona passi da un’anziana signora che gode di larghissima fiducia e ha raggiunto l’eccellenza nella sua singolare professione evitando di parlare troppo, a un figlio meno popolare e prodigo di esternazioni su qualsiasi argomento. Purtroppo non c’è istinto più britannico di quello di tirare avanti lasciando le cose come stanno. Perciò ogni riforma del sistema dovrà superare una serie di obiezioni, sia superficiali sia serie.
L’argomentazione più efficace di chi non vuole cambiare nulla poggia sul puro pragmatismo: anche se oggi nessun democratico si sognerebbe di mettere in piedi una monarchia, in pratica spesso le monarchie funzionano bene. Robert Hazell, fondatore del centro studi Constitution unit e coautore di un importante studio internazionale sul tema, fa notare che, secondo la Intelligence unit dell’Economist, nel 2018 quattro dei cinque paesi più democratici del mondo erano monarchie costituzionali.
Secondo quest’argomento quando c’è un cambio di governo gli atteggiamenti più antidemocratici e pericolosi – quelli alla L’état, c’est moi, per intenderci – non arrivano dalle teste coronate, che hanno imparato la lezione di Luigi XIV e da allora praticano grande cautela, ma da personaggi come i presidenti statunitensi Richard Nixon e Donald Trump. Sono stati loro ad appellarsi al “mandato del popolo”, calpestando ogni separazione tra interesse nazionale e personale. Al contrario una brava sovrana, come Elisabetta II, rispetta scrupolosamente questa distinzione e tratta tutti i governi allo stesso modo, indipendentemente dalle sue inclinazioni personali. In questo modo nella vita pubblica si ritaglia uno spazio al riparo da pericolosi giochi di potere. Pensate bene alle riforme che proponete – dicono i sostenitori della monarchia – se non volete ritrovarvi con un presidente come Boris Johnson o Nigel Farage.
La tesi secondo cui la monarchia britannica si è adattata perfettamente al sistema liberale non è nuova. “Tra le pieghe della monarchia si è insinuata una repubblica”, scriveva già nel 1867 il giornalista Walter Bagehot (autore di The english constitution, il libro più importate sulla costituzione britannica). Un’osservazione quantomeno prematura. Nel corso degli anni, infatti, la corona ha svolto un ruolo cruciale in diverse crisi politiche. E anche se da decenni sono esercitati autonomamente da governi scelti dal popolo, i poteri fondamentali dello stato – dichiarare guerra, sottoscrivere trattati e sciogliere il parlamento – sono ancora prerogative reali (royal prerogative), cioè fanno parte di quelle autorità e privilegi che spettano esclusivamente al sovrano. Secondo il costituzionalista scozzese Adam Tomkins, questo ha creato un allarmante “spazio di potere senza responsabilità”.
Oggi, tuttavia, sia Tomkins sia Hazell ritengono che il potere della corona sia stato lentamente assoggettato a standard repubblicani. In una celebre sentenza del 1984 sui diritti sindacali dei dipendenti del Government communications headquarters (l’agenzia del governo che si occupa della sicurezza delle comunicazioni) è stato stabilito che le decisioni basate sulla prerogativa reale possono essere sottoposte al vaglio dei giudici. Secondo Tomkins, insomma, il paese ha raggiunto “una separazione dei poteri ragionevolmente sana”. Ma l’esperienza recente può essere interpretata anche in modo meno ottimistico. È vero che la costituzione ha superato indenne la crisi della Brexit, ma soprattutto perché la corte suprema ha bocciato l’arbitraria sospensione dell’attività parlamentare decretata nel 2019, in base al principio della prerogativa reale, dal premier Boris Johnson.
Nonostante le frasi rassicuranti che sentiamo ripetere sul perfetto accordo tra la corona e il parlamento, negli ultimi anni i politici post liberali hanno scambiato le regole del vecchio sistema preliberale, basato su antichi manoscritti e pergamene, per un invito a commettere abusi. Per proteggersi da situazioni simili, l’unico modo è modernizzare il sistema.
Una scelta possibile
Esiste poi un altro argomento, allettante ma superficiale, a favore del lasciare tutto com’è: la monarchia ha una popolarità immensa, ha la fiducia di quasi l’80 per cento dei britannici. Per chi chiede un cambiamento, potrebbe sembrare un ostacolo insormontabile. Ma quando sono solo gli ultraottantenni a ricordare un sovrano diverso da Elisabetta II, è impossibile separare l’istituzione dalla persona. Quando cambierà la persona, il sostegno all’istituzione potrebbe diminuire rapidamente.
In effetti, come sostiene Hazell, “in una democrazia le monarchie dipendono sempre dal consenso”. Da tempo la politica può spodestare i sovrani. Nel 1936 il re britannico Edoardo VIII fu persuaso con un imbroglio a farsi da parte, e prima ancora, nel 1919, la granduchessa del Lussemburgo Marie-Adélaïde fu spinta ad abdicare per il suo atteggiamento troppo accondiscendente verso gli occupanti tedeschi. Dal 1900 nei paesi europei si sono tenuti complessivamente 18 referendum sulla scelta tra monarchia e repubblica.
La tenuta delle case reali, insomma, dipende dalla loro popolarità. Basti pensare agli scandali che di recente hanno coinvolto il principe Andrea, figlio di Elisabetta. Nel 2019 ha lasciato tutti gli impegni istituzionali, e nel 2020 il suo indice di gradimento è precipitato al 7 per cento. È vero che Andrea è solo ottavo nella linea di successione al trono, ma per lungo tempo è stato il secondo. Se fosse ancora così, le istituzioni starebbero preparando in fretta e furia un piano di crisi. C’è poi il caso del re spagnolo Juan Carlos, che nel 2014 è rimasto invischiato in una serie di scandali e ha dovuto abdicare. La popolarità di Elisabetta II è sbalorditiva e stabile. Ma quando è salita al trono, la regina era un gradito sprazzo di colore nel grigiore del dopoguerra britannico. Anche per questo le è sempre stato concesso il beneficio del dubbio. Fedelmente sostenuta da una stampa che a lei (ma non ai suoi figli) riserva la stessa deferenza stile anni cinquanta mostrata in occasione della morte di Filippo di Edimburgo, Elisabetta ha regnato con grande discrezione. Con un sovrano più divisivo, però, la monarchia comincerebbe ben presto a scricchiolare.
Fatto compiuto
Secondo l’istituto di sondaggi YouGov, oggi Elisabetta ha la fiducia del 69 per cento dei britannici, cifra che scende al 45 per cento per il principe Harry e che era del 49 per cento per il duca di Edimburgo. Non sono percentuali disprezzabili: per il presidente degli Stati Uniti sarebbero perfettamente normali. Il guaio è che le persone che apprezzavano l’impassibile nonno e quelle che amano il nipote incline alle confessioni personali rappresentano due metà diverse del paese. Proviamo a disaggregare le cifre in base all’età: Harry gode del consenso della maggioranza delle persone nate negli anni ottanta e novanta, ma ha il sostegno di appena il 30 per cento di quelle nate nel secondo dopoguerra. Quanto al principe Carlo, il suo 40 per cento di consenso generale precipita al 29 per cento tra i giovani. Dopo una vita passata a ricevere critiche dalla stampa e a rilasciare dichiarazioni su qualsiasi argomento, dall’architettura all’omeopatia, la sua scarsa popolarità è legata anche alle opinioni politiche dei cittadini e al tipo di giornale che leggono. Il che costituisce un pericolo per un’istituzione che ha il compito di simboleggiare l’unità della nazione.
Con ogni probabilità, se diventasse re, Carlo susciterebbe continue polemiche per le sue esternazioni. La sua tendenza a immischiarsi in qualsiasi polemica era stata evidenziata nei primi anni del duemila dai cosiddetti black spider memos (memorandum del ragno nero) che il Guardian ha ottenuto nel 2015 dopo un lungo braccio di ferro legale. Si trattava di note e lettere indirizzate da Carlo a vari ministri sui temi più disparati, dall’agricoltura all’insegnamento della storia. Perfino osservatori abbastanza bendisposti come Hazell prevedono che un futuro re Carlo “avrà un cammino parecchio accidentato”. Eppure sperano che, avvicinandosi al trono, capisca finalmente che deve tenersi alla larga dalle polemiche.
In vista di questa transizione così particolare, anche per i monarchici più convinti seguire il tradizionale motto keep calm and carry on (mantieni la calma e va’ avanti) è pericoloso. Fin dalla Gloriosa rivoluzione del 1688 (nascita della monarchia parlamentare), la corona è sopravvissuta e ha prosperato rinnovandosi regolarmente e assoggettandosi a una serie di riforme. Salvo rare e infauste eccezioni, le lancette non possono essere spostate indietro: dal giovane Filippo di Edimburgo che negli anni cinquanta fa togliere la parrucca ai cortigiani fino alla regina Elisabetta II che negli anni novanta decide spontaneamente di pagare l’imposta sui redditi, la modernizzazione della corona è un fatto compiuto. Quando però si parla di come rinnovare il sistema di governo britannico, l’unico interrogativo appropriato dev’essere questo: quanto potere vogliamo togliere alla corona?
Accantoniamo il solito argomento fuorviante su quante persone della famiglia reale lavorino. Un grande paese è libero di decidere che vale la pena dare uno stipendio a delle persone che abitano in una reggia per tagliare nastri e presenziare a inaugurazioni. Tuttavia, ridurre gli sprechi non sarebbe affatto male. Rispetto alla corona britannica, le monarchie continentali – quella svedese, ma anche quella spagnola – costano molto meno. Tanto per cominciare, la famiglia reale potrebbe scegliersi una sola reggia dove vivere. Un’altra cosa che si potrebbe tagliare è la cerimonia d’incoronazione che, come spiega Hazell, non esiste “in nessun’altra grande monarchia europea. Il Belgio e i Paesi Bassi non l’hanno mai avuta; la Norvegia, la Svezia e la Danimarca l’hanno abolita rispettivamente nel 1908, 1873 e 1849; la Spagna nel medioevo”. Se un simile passo si rivelasse troppo radicale per la Gran Bretagna, si potrebbe almeno ripensare il ruolo della religione nella cerimonia e il modo in cui sono scritti i giuramenti e le formule.
In una società multiconfessionale non c’è bisogno di settarismo: da ragazzo, Carlo aveva espresso il desiderio di essere il “difensore delle fedi”, anziché “della fede”, come vuole la formula rituale dell’incoronazione. Era un atteggiamento inclusivo molto condivisibile. Per questo è sconcertante che il progetto di riscrivere le formule del giuramento d’incoronazione sia stato abbandonato perché “troppo complicato”. Promettere di usare il “supremo potere” della corona per difendere la religione protestante “imposta dalla legge” non aiuterà il futuro re a conquistare la fiducia dei sudditi cattolici (che ancora oggi sono esclusi per legge dalla successione al trono) e delle molte altre religioni presenti nel Regno Unito.
Occorre poi ridimensionare i trattamenti speciali. Non c’è mai stata una ragione valida per non far pagare alla regina l’imposta sui redditi, né ci sarà un motivo per esentarla dall’imposta di successione quando il castello di Balmoral, che è un suo possedimento personale, passerà al figlio. Usare privilegi pubblici per accumulare guadagni privati è davvero tanto diverso dall’esortare i dignitari stranieri in visita a Washington a scegliere il Trump Hotel, come faceva l’ex presidente degli Stati Uniti?
La corona e la costituzione
E ancora, sarebbe bene dissipare la nebbia che confonde il confine tra gli interessi pubblici e quelli della famiglia reale. Nel 2011 il ministro delle finanze George Osborne volle far credere agli elettori che stava cercando di risparmiare denaro pubblico e limitò i fondi destinati alle attività della corona. In cambio, però, assegnò ai reali una somma pari a una quota dei profitti generati dal Crown Estate, cioè le proprietà immobiliari della regina. Le quali, però, sono pubbliche dal settecento. Il risultato è stato un aumento del sussidio alla corona, anche se mascherato.
Ulteriore confusione è creata dall’esistenza di poteri la cui definizione si perde nella notte dei tempi. Lo dimostra bene lo scontro in corso sulla revoca del Fixed-term parliaments act, la norma del 2011 che aboliva l’antica prerogativa reale di sciogliere il parlamento. Oggi si discute per stabilire se questo potere vada “restituito” al primo ministro, come propone il governo, oppure al sovrano, come sostengono i costituzionalisti più pignoli e una commissione parlamentare bipartisan.
I problemi che minacciano il prossimo sovrano si potrebbero evitare ridimensionando il ruolo della corona nella costituzione
I problemi più gravi, tuttavia, riguardano il ruolo della corona nella formazione dei governi. Il manuale di governo stabilisce in che modo il sovrano può affrontare le diverse situazioni di stallo parlamentare. Ma, come osserva Haddon, “non sempre gli esperti concordano con i documenti ufficiali, che ovviamente non possono coprire ogni possibile scenario”. Nel 2019 le forze politiche che volevano mandare a casa il primo ministro Boris Johnson non sono riuscite a trovare un accordo su un nome per la guida di un governo ad interim. Se l’avessero fatto, la regina si sarebbe trovata in una situazione molto delicata, obbligata a decidere se dare l’incarico a un nuovo premier.
Privilegi da abolire
Per la corona ci sono poi anche gli impegni internazionali. Il Regno Unito già annaspa penosamente nel tentativo di spogliarsi delle pretese riguardo al suo posto nel mondo, e il fatto che la regina sia anche il capo di stato di diversi paesi del Commonwealth – dal Canada alla Nuova Zelanda, dalla Giamaica alle Barbados – non aiuta affatto. Certo, se si considera che Elisabetta ha presieduto alla formazione del Commonwealth moderno, il fatto che oggi ne sia alla guida non è poi così assurdo. Per il suo successore sarà tutto molto diverso. Tuttavia, i processi di riforma costituzionale in molte nazioni del Commonwealth sono disseminati di rinvii e di veti. La corona dovrebbe semplicemente presentare le proprie scuse e farsi da parte.
Nel Regno Unito, invece, i problemi che minacciano il prossimo sovrano si potrebbero scongiurare ridimensionando il ruolo della corona nella costituzione. Anche in questo caso l’Europa offre esempi preziosi: nel 2008, quando si è rifiutato di promulgare una legge favorevole all’eutanasia, il granduca Enrico del Lussemburgo è stato privato del suo ruolo legislativo. Nel Regno Unito il Royal assent, il consenso della corona alle leggi, dev’essere abolito. E così anche l’assurda regola secondo cui la regina può esercitare poteri di veto e consultivi quando il parlamento legifera su questioni che toccano gli interessi e le prerogative della corona.
Il modo migliore per rimettere la corona al suo posto sarebbe seguire il Regerings-formen (strumento di governo) adottato nel 1974 dalla Svezia. Nel documento si dice chiaramente che le decisioni spettano al popolo, che le prende attraverso il parlamento. Questo si traduce in alcune regole chiare: è il presidente della camera, non il re o la regina, a raccomandare al parlamento il candidato alla guida del governo; prima di andare all’estero, il sovrano deve consultare il primo ministro; se il monarca si sottrae ai suoi doveri per un periodo di sei mesi il parlamento può concludere che abbia abdicato.Questo ridimensionamento dei poteri della corona non ha impedito al re di Svezia di essere una figura unificante. Incarnare la nazione è importante, ma non richiede privilegi premoderni, anzi: nei sistemi parlamentari i presidenti migliori sono quelli in grado di ergersi al di sopra delle fazioni politiche nei modi più creativi. Come ha fatto negli anni novanta la presidente irlandese Mary Robinson, che ha dato grande impulso al rispetto dei diritti umani. E poi – come dimostra il fatto che nessuno ricorda i nomi dei presidenti della Repubblica federale tedesca – è perfettamente possibile sbrigare le cerimonie di stato senza fasto o polemiche.
Il dibattito necessario
Da un punto di vista teorico, inoltre, l’ereditarietà della supremazia del monarca è un affronto a qualsiasi idea di parità tra i cittadini. Tutti i tentativi di aggiornare questo principio non fanno che smascherare l’arbitraria iniquità della regola di fondo: non può essere uno svantaggio nascere per secondi, nascere femmine o, peggio ancora, non venire al mondo nella famiglia reale.
Le vecchie convinzioni sono dure a morire, ma il primo passo è semplicemente ammettere la separazione tra la persona e la carica di capo di stato. Non dovrebbe essere impossibile. Nei Paesi Bassi le ultime tre regine hanno abdicato attorno ai settant’anni di età. Negli ultimi anni abbiamo visto teste coronate abdicare in Belgio, in Spagna e in Giappone. Ma c’è di più: con le dimissioni di papa Benedetto XVI perfino il Vaticano – forse l’unica istituzione che può battere la monarchia britannica in fatto di tradizioni bizzarre – ha sperimentato una simile separazione tra la carica e l’individuo che la ricopre. Non ci sarebbe nulla di strano, quindi, se una sovrana ultranovantenne decidesse di appendere al chiodo la pesantissima corona di sant’Edoardo.
Tuttavia, una volta ammesso che si può scegliere quando la corona passa di mano, diventerà molto più difficile stabilire a chi debba passare. Il problema c’è già, se si pensa a tutte le congetture giornalistiche sulla possibilità che dopo Elisabetta II la corona vada direttamente a William, saltando il principe Carlo. Secondo un recente sondaggio della società Deltapoll, il 47 per cento dei britannici desidera che il prossimo sovrano sia William, mentre solo il 27 per cento sostiene Carlo. Inoltre, tra i più giovani è il principe Harry a riscuotere i maggiori consensi.
Nell’opinione pubblica simili idee sono già consolidate. E i consiglieri privati della corona, spesso politici in pensione, farebbero bene a tenerne conto nella prossima riunione del consiglio sull’accesso al trono (Accession council), che si riunisce nel palazzo di san Giacomo dopo la morte di un sovrano per proclamare il suo successore (cosa che è sempre avvenuta per acclamazione). Il laburista Tony Benn sognava di costringere i consiglieri a decidere per votazione, ma è morto nel 2014. Oggi la sua proposta dovrebbe essere avanzata da qualcun altro. Certo, una simile mossa non riuscirebbe a fermare il processo di successione. Ma almeno solleverebbe il problema e potrebbe avviare un dibattito necessario da troppo tempo.
(Traduzione di Marina Astrologo)
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