Ci sono due notizie importanti dal mondo del surf, e tutte e due buone. La prima è che un ragazzo italiano, Leonardo Fioravanti, è diventato campione del mondo di surf under 18. (Lo stesso Fioravanti ha anche battuto in una heat la star planetaria del surf, l’americano Kelly Slater). La seconda è che per la prima volta un libro sul surf è diventato un bestseller negli Stati Uniti e ha perfino vinto il premio Pulitzer. Se poi negli stessi giorni va in onda su Italia 1 il primo talent show italiano dedicato, Italian pro surfer, allora viene il sospetto che il surf sia ormai una mania collettiva anche qui da noi, dove il background e le condizioni non sono propriamente “oceaniche”. Da poco si è chiusa la quarta edizione del Recco surfestival, che a differenza di altri appuntamenti surfistici nostrani, assomiglia quasi a un evento culturale “californiano”.
Prima di tirare facili somme e affermare che “il surf è ormai esploso in Italia” o che “il surf non è più una sottocultura”, ho preferito tuttavia addentrarmi un po’ in questa nicchia espansa, per capire come e quanto la cultura del surf abbia attecchito nel paese dei pedalò e dei pattìni a remi. Visto che faccio parte di quella metà di mondo che non si è mai “alzata su una tavola”, chiedo venia a priori ai severissimi “local”, che difendono le loro fortezze inespugnabili fatte di leash e paraffina, per non aver conosciuto in prima persona questa “rara torrenziale esperienza di bellezza”.
Provate a chiedere a un iniziato del surf cosa ne pensa di Point break e invariabilmente scoppierà a ridere
Una premessa. Nonostante la quantità esorbitante e crescente di lungometraggi sul surf non esiste, che io sappia, un film che sia riuscito a coinvolgere chi è ignaro di surfing culture – e che allo stesso tempo riesca a non annoiare gli adepti. Ci sono polpettoni hollywoodiani che a tutti gli effetti rientrano nella definizione di kitsch oppure roba per fissati, ovvero interminabili fotogrammi di tubi d’acqua con sotto esseri umani avvolti da mute e capigliature bruciate dal sole. Provate a chiedere a un iniziato del surf cosa ne pensa di Point break e invariabilmente scoppierà a ridere. “Io salvo Un mercoledì da leoni”, mi dice David Pecchi, icona del surf nostrano e coach di Italian pro surfer. “Là c’era già tutto: la storia di un’amicizia, la mercificazione, l’aggressione dell’industria, e soprattutto c’era il sogno, quello vero, quello in cui anche noi italiani non smettiamo di credere. Mettici anche Apocalypse now, anche lì c’era il sogno”.
Insomma, se il capolavoro sul surf negli ultimi vent’anni non c’è stato, ci sono voluti vent’anni per William Finnegan, reporter di guerra del settimanale New Yorker, per scrivere Giorni selvaggi. Una vita sulle onde (Pulitzer 2016 per l’autobiografia), una lettura potente, totalizzante, un libro che sembra risentire nella sua prosa della spumeggiante leggerezza delle onde e dello stile fluido del surfista che si muove a passettini eleganti sulla sua long-board. Ma quello che fa di questo libro un vero capolavoro sono i personaggi, indimenticabili nelle loro connotazioni: Mark il surfista-medico, “il fanatico dei fanatici”, come Bryan Di Salvatore, fedele compagno di vagabondaggi per il Pacifico, un “goofyfoot che surfava come se non ci fosse un domani”, o il mio preferito, John Selya, il surfista-ballerino di Broadway che paragona la danza classica al surf. (Per chi è a Roma, William Finnegan sarà a Massenzio al Festival delle letterature il 5 luglio).
L’effetto che mi ha fatto Giorni selvaggi lo riassumerei così: “Come ho fatto a non capire tutto questo finora?”. A non capire la portata iniziatica, rivoluzionaria, metaforica ma anche e soprattutto la forza esplorativa che implica questo “sport” praticato da gente che dedica gran parte della vita a viaggiare alla ricerca di luoghi sperduti nel mondo (ha anche un nome: surf exploration). Spostamento, spaesamento, avventura, libertà. E dove la mettiamo la trascendenza? La meditazione? E la solitudine del surfista, che in fondo è molto più interessante e gioiosa di quella del maratoneta?
Al netto di questa scoperta, la storia del surf è piena di libri, a volte noiosi quanto i video per fissati. Tecnici o enciclopedici come History of surfing o Encyclopedia of surfing di Matt Warshaw, molto misticheggianti, come il recente Mindfulness and surfing. C’è chi ha paragonato il surf a una religione, come il pioniere Tom Blake, poi ci sono i rabbini-surfisti come Nachum Shifren o i surfisti new age come Jaimal Yogis. Alcuni titoli di fiction e di non fiction considerati imprescindibili sono raccolti qui, dove, tra un Don Winslow e un Tim Winton spicca Becoming Westerly, la storia di un campione di surf che diventa transgender. Quanto all’Italia, è di una decina di anni fa Elogio del surf, che rimane l’unico libro scritto da un’italiana, se si fa eccezione per Storia del surf in Italia di Alessandro Masoni.
La storia del surf è stata scritta più volte, ma io trovo interessante la tesi un po’ più trasversale di Simon Winchester, che di fatto è uno storico e non un fissato del surf. Nel suo ultimo libro, Pacific, una biografia dell’oceano più grande, tanto ponderosa quanto il suo protagonista, Winchester riposiziona il surf laddove è nato, spiegando per filo e per segno come in California sia stato soltanto importato. Per lui quello che è “il più sublime e duraturo dono che ci ha fatto l’oceano Pacifico” ha perfino un anno di nascita in quanto sport democratico, il 1959, l’anno in cui uscì nelle sale un film dimenticabile intitolato [Gidget](https://en.wikipedia.org/wiki/Gidget_(film)), la storia vera di una teenager e delle sue giornate a surfare a Malibu. (Pochi mesi dopo fu costruita la prima tavola da surf in poliuretano da Hobie Alter). Nelle settimane che seguirono l’uscita del film – prima del quale il surf si chiamava wave riding – migliaia, poi milioni di ragazzi furono ispirati a scivolare sulle onde: in fondo “le onde e l’acqua erano gratis e disponibili per chiunque le cercasse”.
Un’invenzione polinesiana
Se il Pacifico, e non la East coast, è la patria del surf, le primissime tavole furono costruite in Perù, anche se l’arte di surfare è un’invenzione polinesiana. Ma è solo quando le tavole sono arrivate alle Hawaii, molti anni dopo, che è fiorito ed è diventato una vera ossessione popolare. Alle Hawaii il surf era legato a questioni rituali e nobiliari, si praticava in vari modi e c’era anche chi surfava nudo. Nel 1907 fu un americano, lo scrittore Jack London, a raccontare al mondo cosa succedeva in queste isole, dove la combinazione di latitudine, clima e topografia, aveva già dato vita a un tempio naturale del surf. London arrivò alle Hawaii con il suo ketch Snark e capì subito cosa stava succedendo. Decise così di imparare lui stesso ad alzarsi sulla tavola: “A una cosa sono deciso: lo Snark non salperà da Honolulu finché anch’io non avrò dotato i miei talloni di ali veloci quanto il mare e mi sarò trasformato in un Mercurio abbronzato spellato dal sole”. London, che all’epoca era un autore di bestseller, con un pubblico vastissimo, scrisse un lungo articolo intitolato A royal sport: riding the South Sea surf (poi raccolto in La crociera dello Snark).
La prima icona del surf, e a tutti gli effetti ambasciatore di questo sport in America e in Australia, fu naturalmente un hawaiiano, Duke Kahanamoku, “il surfista hawaiano bello come il sole, possente, leggero come una farfalla che ha insegnato al mondo a cavalcare le onde più alte del Pacifico”, scrive Sandro Veronesi. Nel 1922 Duke andò in Australia e lì incontrò Isabel Letham, la prima surfista della storia. Il loro incontro è raccontato in soggettiva – un po’ come se Isabel avesse una GoPro in fronte – proprio da Veronesi nel libro appena uscito Un dio ti guarda:
‘Che ne dici di tirarti su?’ mi disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Nessuno l’aveva mai fatto, nel mio continente. Io annuii, sempre con la testa, lui scelse l’onda, balzò in piedi, cominciò a surfare e a un certo punto gridò: ‘Ora!’ e io mi alzai in piedi su quel pezzo di legno che filava sulla cresta di un’onda alta tre metri. Persi subito l’equilibrio ma una mano mi trattenne, mi tirò un poco verso poppa e mi sistemò bella centrata, come fossi un birillo. Poi mi lasciò, e io rimasi in equilibrio sulla tavola che filava.
Fu alla fine degli anni venti che in California cominciarono le prime competizioni sportive. A quelle latitudini oggi non si parla più di sport né tantomeno di passatempo, ma piuttosto di industria, anzi di un gigantesco giro di affari. Personaggi come Yvon Chouinard, amministratore delegato del marchio di abbigliamento sportivo Patagonia, che ha utilizzato fra i primi l’idea di orario flessibile – “let my people go surfing”, lasciate la mia gente surfare – devono molto se non tutto alla surfing culture. Ci sono intere multinazionali che ripongono le loro speranze nella diffusione di questo sport, ci sono palinsesti televisivi, sponsorizzazioni, app. Per William Finnegan è l’idea del surf che “si è trasformata in un fenomeno del marketing globale” e spesso sono le stesse aziende che vendono questa idea, determinate a “diffondere lo sport””.
Ma non è detto che questo sia un male. Soprattutto per l’Italia, dove continuiamo a essere un po’ indietro, anche se le cose sono cambiate negli ultimi dieci anni, e in meglio: “A un certo punto, qualche anno fa, sono tornato dalla Costa Rica dove vivevo”, racconta ancora David Pecchi, “e mi sono accorto che qualcosa era cambiato. Quando andavo in spiaggia a surfare da ragazzino ero un marziano, come un personaggio di Flajano. I vecchi mi dicevano: ‘Vai a lavorare!’. Era difficile persino trovare una tavola. Ora i ragazzini hanno tutto quello che vogliono, corsi di surf come se piovesse a vent euro l’ora. Ma quello che conta è che noi italiani ci abbiamo sempre creduto. Abbiamo creduto nel sogno. Non ci siamo mai stancati di venire in spiaggia a cercarla, e anche se non la troviamo, noi veniamo lo stesso: l’onda non ti tradisce mai”.
Nel mondo il numero delle persone che fanno surf è aumentato: cinque milioni secondo le stime del 2002, venti milioni nel 2010. In Italia non ci sono dati, ma se qualcuno avesse dei dubbi su come si è evoluta negli ultimi anni la scena surfistica, basta andare – meglio se d’inverno – in posti come Varazze in Liguria o Santa Marinella nel Lazio o Capo Mannu in Sardegna. In alternativa vale la pena di guardare Peninsula, un film di Luca Merli e Matteo Ferrari, omaggio alla surf culture italiana, girato in 35mm, che ha vinto molti premi quasi tutti internazionali (per fissati, ovvio, ma molto emozionante).
Il surf è una cultura unica e trasversale che unisce adolescenti gasati, quarantenni con figli, fricchettoni e avvocati
Qui sulle spiagge di casa nostra, pare che tutto sia iniziato nell’alto Tirreno. C’è chi dice a Bogliasco, in Liguria, c’è chi dice a Pisa, dove alcuni pionieri hanno cominciato a fine anni settanta con tavole autocostruite e “non sapendo nemmeno loro bene come”. “In Italia molti surfisti si sono formati in zone vicino a basi militari americane e i marines gli spiegavano come fare”, racconta ancora Pecchi. “Per quello che ne so”, dice Madeira Giacci, surfista e surf writer italiana, “il primo a surfare in Italia è stato un australiano di nome Peter Troy, nel 1963. In generale, molti hanno imparato viaggiando e poi hanno portato il surf a casa”.
“In Italia”, dice Luca Merli, il coregista di Peninsula, “la storia del surf è giovane, ma molto viva e con tante sfaccettature regionali e locali. Penso che sia importante parlare di surf in Italia e viverlo, aiuta a una percezione nuova del mare come bene comune che si può vivere tutto l’anno, e non solo per un paio di mesi d’estate.”.
In buona sostanza, che cosa cosa è successo al surf? Si è davvero snaturato e da sottocultura underground è diventato temibilmente mainstream? “Il surf? Ormai è annidato tra lo yoga e il golf”, ha detto Finnegan a un giornalista del Guardian che lo intervistava. “Cosa è rimasto di selvaggio?”. Eppure, a livello culturale, la risposta è no, non si è snaturato. E Finnegan stesso lo spiega benissimo in un’altra intervista ad Outside: “Se parliamo di libri, il surf rimane una piccola cosa, considerando quante persone ormai surfano e sono interessanti al tema. Sono felice di dirlo, ma il surf è tuttora una sottocultura e ricca di arcani, difficile da spiegare agli outsider”.
Libertà e settarismo
Anche Madeira Giacci è d’accordo: “È vero che in Italia fino agli anni novanta il surf era una disciplina praticata da pochissimi e che negli ultimi dieci anni ha vissuto una grande evoluzione, ma sebbene l’industria del surf sia in qualche modo esplosa, alla fine credo che il surf resti sempre una sottocultura. Oggi è più facile avvicinarsi, esistono scuole sulle coste italiane, ma sono comunque pochi quelli che hanno la costanza di praticarlo e farne uno stile di vita”. Matteo Ferrari, l’altro regista di Peninsula, uno che vive in Costa Rica (“principalmente per poter surfare tutti i giorni”) è convinto che il surf sia una “cultura unica e trasversale: in mare puoi trovare fianco a fianco adolescenti gasati, quarantenni con i figli, fricchettoni e avvocati, professionisti e surfisti della domenica… Non mi viene in mente nessun altro sport o attività che unisca gente così varia”.
Alla fine sono tutti d’accordo nel dire che il surf non è diventato, nonostante tutti gli sforzi dell’industria, “uno sport da spettatori”. “Il surf”, dice Alessandro Masoni, surfista e storico dela disciplina, “è fondato proprio sulla libertà e allo stesso tempo sul settarismo: senso di appartenenza a un gruppo da una parte e animo gitano del freesurfer dall’altro”.
Perché il paradosso del surf è un po’ questo: da un lato la voglia di rimanere fuori dalla società, su un furgoncino sgangherato in spiaggia, in una parola “selvaggi”, dall’altra l’esigenza di un pubblico, il desiderio di essere visti. Come dice John Selya, il ballerino-surfista di Broadway del libro di Finnegan, “ti devi arrendere a qualcosa che è più forte di te”. Perché i surfisti “fanno quello che fanno?”, si chiede ancora Selya: “Perché è una cosa pura. Sei solo. Quell’onda è talmente più grande e più forte di te. Sei sempre in minoranza. Ti possono sempre fare a pezzi. Eppure accetti tutto questo e lo trasformi in una piccola, breve forma d’arte senza molto senso”.
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