Quando ho letto Riabitare la realtà della filosofa ecologista Freya Mathews sono rimasta colpita da un passaggio in cui lei spiega che non bisognerebbe mai cambiare casa, ma trovare “una dimora per la vita”, imparare dagli indigeni e abitarla con dedizione popolandola il più possibile di persone e animali. Eppure esistono “persone nate in una patria che non è la loro e che soffrono di nostalgia per una terra che non hanno conosciuto” (Huxley). O come direbbe Chatwin, c’è gente “posseduta dal desiderio di cambiare letto”.
Il nomadismo è cambiato dai tempi dello scrittore britannico: viaggiare in quest’epoca significa inquinare, contribuire allo sfruttamento e all’impoverimento di paesi del terzo mondo. Ci culliamo con l’illusione di un turismo responsabile che “aiuti le popolazioni locali”, quando a volte sarebbe meglio aiutare i vicini di casa invece che volare low cost dall’altra parte del mondo.
Certo, viaggiare a impatto quasi zero si può: ho raccontato qui le storie esemplari di quest’avanguardia di viaggiatori. Poi ci sono le traveling families: coppie con bambini che hanno deciso di affittare o subaffittare la propria casa, organizzarsi con un lavoro flessibile e mettersi in viaggio, magari con un mezzo ecosostenibile, come la barca a vela o la bicicletta, oppure sfruttando le reti di ospitalità e il car sharing.
“Io voglio un cane!”
I modi per viaggiare con la famiglia sfruttando l’economia collaborativa sono oggi molto vari, si va dai trasporti agli alloggi (qui una serie di consigli utili per fare il giro del mondo low cost). Dallo scorso ottobre è possibile inoltre fare un biglietto Interrail per le famiglie: due bambini di età compresa tra 4 e 11 anni viaggiano gratis se accompagnati da un adulto titolare di pass.
Ma i bambini o i ragazzi sono davvero contenti di viaggiare in modo continuativo?
All’estero, soprattutto in Australia, sono tantissime le storie da cui prendere spunto: ci sono quelli di Sailingyogafamily che hanno lasciato Sydney per girare in barca nel Mediterraneo con tre bambini; la stessa cosa la stanno facendo gli inglesi di CarinaofDevon, sempre in barca a vela. Ci sono i veterani delle due ruote di Familyonbikes che hanno attraversato le due Americhe in bicicletta con i figli e scritto vari libri, come anche la Globalmobilefamily che ha fatto il giro del mondo su due ruote con quattro figli, poi c’è la Worldtravelfamily, sempre dall’Australia, che in questo post racconta come ha trovato la libertà attraverso il family travel e il lavoro online (a questo proposito è utile il sito, Workingtraveller per trovare soluzioni lavorative nomadiche).
Sono australiani anche i Ridgely che hanno scritto Somewhere different, un libro che racconta i loro anni in giro per il mondo; mentre gli americani di Vagabondfamily viaggiano in oriente con i due figli adottivi cinesi. “Se siamo ricchi? Per niente”, dicono quelli della Nomadicfamily. “Noi viaggiamo, a lungo termine e lentamente, a volte a costo zero, altre volte spendendo infinitamente meno di quanto spenderemmo in qualsiasi posto che chiamiamo casa”. Qui si possono leggere le storie di 14 famiglie viaggianti, tra le quali nemmeno un’italiana.
Eppure anche tra le famiglie italiane si è piano piano diffusa questa pratica che fino a qualche anno fa era circoscritta a rarissimi casi. Sto seguendo da qualche mese e in alcuni casi ho conosciuto di persona alcune famiglie in viaggio o in partenza.
Io stessa ho una piccola esperienza di viaggi a lungo termine con bambini ed è proprio partendo da un’esperienza personale che mi sono chiesta: ma i bambini o i ragazzi sono davvero contenti di viaggiare in modo continuativo? O hanno bisogno di stabilità? Che cosa gli offre questa esperienza in futuro? Per i primi sei anni di vita di mia figlia ho alternato lunghi mesi di viaggio e altrettanti di casa, ma quando un giorno Mila ci ha chiesto di prendere un cane e io e il padre le abbiamo detto in coro: “No, amore, non è possibile, altrimenti come facciamo a viaggiare?” e lei per tutta risposta ci ha detto: “Ma io non voglio viaggiare, voglio un cane!”, abbiamo capito che forse viaggiare in quella maniera era il nostro desiderio – o necessità – non il suo.
Senso critico e flessibilità dello sguardo
“Ma quante cose dicono i nostri figli che non dobbiamo per forza ascoltare? I bambini sono volubili, sposerebbero tutte le situazioni…”, mi dice Debora Stenta, musicista ed educatrice, che dal 2015 con il compagno Igor ha preso una decisione drastica: lasciare la casa, liberarsi di tutto quello che possedeva e vivere in viaggio sfruttando l’ospitalità di siti come Workaway o Helpx, con i due figli di 6 e 17 anni. Una scelta che per ora non ha un termine e che li ha portati a viaggiare in Indonesia e Malesia l’anno scorso e ora in India.
Debora non ha dubbi che i suoi figli abitando in paesi stranieri imparino il senso critico e una flessibilità dello sguardo: “Viaggiando”, scrive sul blog Bradosisma, “imparano anche a essere leggeri sulla terra, sia come impatto della loro persona, sia come atteggiamento mentale, sia materialmente: imparano che per vivere serve poca materia, uno zaino e qualche oggetto, e anche pochi soldi, se si viaggia in un certo modo. Imparano ad adattarsi alle situazioni più diverse, a rispettare usi e costumi che possono sembrare assurdi, a tenere pulito e aiutare quando siamo ospiti, ed essendo ospitati imparano a essere ospitali. Imparano così che casa è ogni luogo, che la vera casa è dentro di sé ed è lì che è importante sentirsi a proprio agio, prima che in qualunque posto”.
È quello che molti chiamano worldschooling o life learning: invece di andare a scuola i ragazzi imparano direttamente vedendo o imbattendosi nelle cose che studierebbero tra le mura di un’aula.
‘La scuola non può essere la fotocopia della famiglia. La scuola è utile proprio perché portatrice di valori diversi’
“Studiare e avere la possibilità di toccare con mano ciò che studiavo, di verificarlo”, ha scritto Umberto Caglini in La mia infanzia intorno al mondo, un libro che raccoglie i diari di bordo scritti da lui quando era bambino durante i vagabondaggi con i genitori negli anni ottanta. “Come per esempio che la terra è rotonda, si può fare veramente il giro. Che i pesci tropicali dai mille colori disegnati nei sussidiari esistono davvero. Che esistono le isole del tesoro. Che un corpo immerso in acqua riceve una spinta verso l’alto pari al volume dell’acqua spostata. Che due cartucce di fucile equivalgono a una cassetta di verdura. Che per recuperare un uomo a mare devi risalire piano piano controvento e allora puoi salvargli la vita […]. Che un sacchetto di plastica buttato in mare rimane lì per sempre”.
Umberto Caglini è oggi un quarantenne che si mimetizza bene tra i suoi simili, anche se ha vissuto per sei anni in giro per il mondo senza andare a scuola. Nella sua scrittura, volutamente non rimaneggiata, si sente una voglia di stupire e di rassicurare i genitori, ma è comunque sorprendente per la maturità e il senso di responsabilità che difficilmente ha un bambino di sette, otto anni. Se il piccolo Caglini leggeva Conrad, Stevenson e Melville, da grande gli è rimasto, a suo dire, un senso di inquietudine. Il padre, nell’introduzione al libro, si domanda se era quello l’ambiente adatto per la formazione di un ragazzino: “Non abbiamo risposte né lezioni da dare a nessuno. In un ambiente del genere Umberto è vissuto, a stretto contatto con i suoi genitori, dai sei agli undici anni di età, e tutto quello che ha imparato durante questo periodo lo ha appreso dal mare, dal vento, dagli animali, dagli indigeni delle isole più sperdute, dagli occasionali compagni di viaggio”. Caglini padre confessa che a volte è stato più il bambino a confortare i genitori adulti di quanto loro non abbiano fatto con il figlio.
Socialità problematica
Secondo Laura Pigozzi, psicanalista lacaniana e autrice di Mio figlio mi adora, “dove c’è controllo del genitore non c’è mai vera educazione: la scuola non può essere la fotocopia della famiglia. La scuola è utile proprio perché portatrice di valori diversi. L’homeschooling, nella maggior parte dei casi, comporta un imbarbarimento”. Per la psicologa e travel coach Francesca Di Pietro (Viaggiaredasoli) “viaggiare è utilissimo per sviluppare alcune attitudini del bambino, ti abitua al fatto che non ci sono differenze culturali e soprattutto abitua il bambino a legare il divertimento non a un oggetto ma a delle situazioni. Però il viaggio continuativo può essere un problema, soprattutto al ritorno, perché ai bambini è mancata una comunità dei loro pari. Meglio se si viaggia con fratelli o amici. Mandarli a scuola in giro per il mondo è una soluzione, ma le separazioni frequenti per loro sono traumatiche. Forse la cosa migliore è viaggiare con i bambini molto piccoli: magari ricorderanno poco o nulla, ma hanno meno rischi di sviluppare una socialità problematica”.
Laura Pigozzi ritiene che la cosa più in armonia con lo sviluppo psichico della personalità sarebbe dare ai ragazzi una stabilità sociale in età scolare e poi lasciarli viaggiare da soli già dai 13 o 14 anni. “Il viaggio è la metafora dell’andare incontro all’esogamico, ciò che per definizione è diverso dalla famiglia. Del resto è difficile stabilire delle relazioni in una transumanza”, continua Pigozzi. “C’è una grande solitudine nella famiglia che viaggia, è come una monade che difficilmente si lascia toccare davvero da una rete di relazioni sociali, soprattutto se si viaggia in un ambiente chiuso come una barca. E poi bisogna distinguere tra quello che fa piacere al genitore e quello che fa felice un bambino… Il bambino nel primo periodo conosce solo il corpo della madre e della barriera corallina non gliene importa niente”.
Il ruolo dei genitori
Le traveling mom non la pensano necessariamente così. “La stabilità e la routine”, dice Debora, “spesso sono necessità dei genitori. Solo genitori realizzati e felici crescono di solito bambini felici. E poi i traumi veri sono altri! Noi viviamo, lavoriamo, abbiamo relazioni, ma senza avere una casa nostra”.
“I frutti li raccogli non quando sei in giro, ma quando torni a casa”, dice Sara Rossini che racconta i suoi viaggi sul blog HouseNaos. “È allora che ti accorgi come quella noia che provano i ragazzi, per esempio nelle lunghe navigazioni, si trasforma in creatività”, continua Sara che gli ultimi anni ha trascorso i tre mesi estivi a bordo di una piccola barca a vela con il marito e i due figli, con il terzo figlio in arrivo, e sta preparando il giro del mondo nel 2017-18, durante il quale i bambini salteranno un anno di scuola: “Mi piace pensare di regalare ai miei figli un’opportunità che non avrebbero altrimenti; e mi piace che per un anno vivano secondo i ritmi della natura. Viaggiando inoltre imparano anche che si può fare e disfare un programma, a seconda del vento; imparano ad avere meno paura di alcune cose e a sfangarsela da soli. Certo, è importante aiutarli a sviluppare la socialità, ma qui entra davvero in gioco il ruolo del genitore”.
‘È importante la qualità della relazione, non solo ascoltare quello che dicono i bambini, ma saper leggere davvero i loro bisogni’
Tra gli italiani che seguo c’è anche la Happyfamilybiocycling, Sebastian e Alberta, con le loro due bambine di 6 e 8 anni, che sta attraversando l’America Latina da sud verso nord, visitando aziende biologiche e fair-trade lungo il percorso. L’entusiasmo che mi hanno trasmesso raccontandomi il loro viaggio è contagioso, le figlie hanno imparato lo spagnolo dopo poche settimane, hanno conosciuto molti altri bambini durante le loro scorribande tra Patagonia, Cile e Argentina. Una brutta tendinite della loro mamma li ha costretti a fermarsi in un’azienda agricola mapuche dove si coltivano mirtilli, un’esperienza molto interessante per adulti e bambini. Anche Timoteo e Miriam sono due milanesi con figlie di tre e sei anni che vivono a zonzo per le isole Fiji sulla loro barca a vela. Qui spiegano perché hanno scelto questa vita apparentemente costosissima e quanto spendono in realtà a farla.
Dopo quasi cinque anni in Australia e numerosi viaggi in coppia, Stefano e Annamaria hanno deciso di fare il giro di Australia e Tasmania con i figli piccoli. Su Percorrendo in due + due, raccontano le loro imprese con i due bambini di 8 mesi e 3 anni su una fuoristrada equipaggiato. “Se in Italia c’è il terrore di perdere il posto fisso, in Australia è l’opposto. Qui il 70 per cento delle famiglie ha fatto o sta facendo il giro del paese con i bambini piccoli. Di solito a bordo di un van, noi abbiamo scelto la jeep perché ti permette di andare ovunque ed è abbastanza grande per dormirci dentro. Abbiamo anche una tenda per quando fa troppo caldo. Che dire sulla socialità? Il nostro bimbo era molto timido quando siamo partiti cinque mesi fa e ora è cambiato molto e si è aperto”.
“Non esiste un’educazione migliore del viaggiare: queste sono esperienze meravigliose, che tra l’altro fanno da collante per la famiglia”. È il parere di Jessica Joelle Alexander autrice del best seller Il metodo danese per crescere bambini felici, un libro che ribalta alcuni credo dei genitori. “Funziona soprattutto se i bambini sono piccoli perché a quell’età adorano stare con i genitori. Magari è meglio testare un po’ il bambino: forse sei mesi sono meglio di un anno per certi bimbi. In ogni caso che cos’è un anno in una vita intera quando i tuoi bambini sono piccoli… dura così poco! Sì, penso proprio che questi genitori siano coraggiosi e che questa sia un’istruzione che apre il cuore e la mente e ti dà uno sguardo che non trovi sui libri”.
“Il punto non è tanto viaggiare o non viaggiare”, dice Clara Scropetta, doula e autrice di Accanto alla madre. “Il viaggio in fondo è un’attitudine e si può essere in viaggio anche stando fermi. Non c’è una ricetta: se un figlio nasce da due viaggiatori a cui piace vivere il mondo in un certo modo, il figlio per forza farà quell’esperienza. Se i genitori non ascoltano i loro desideri e sono frustrati sarà peggio. La verità è che a una persona in crescita servono dei punti di riferimento saldi. Non è detto che questi siano per forza una casa. È importante la qualità della relazione, non solo ascoltare quello che dicono i bambini, ma saper leggere davvero i loro bisogni”.
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