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Che fine ha fatto l’aids

Roma, 3 luglio 2021. Un flashmob in piazza dell’Esquilino per ricordare i quarant’anni dalla pubblicazione, sul New York Times, della prima notizia sull’hiv. (Andrea Ronchini, NurPhoto/Afp)

Nel dicembre 2020, in piena pandemia da covid-19, mi sono trovato a contare con angoscia le tacche rosse su una striscia di carta intrisa di reagenti. Ne sono apparse due: ero positivo all’hiv. Ero finito nella pandemia sbagliata.

Quella ricordata il 1 dicembre, la giornata mondiale della lotta contro l’aids, è un’epidemia di cui ormai si parla pochissimo. Si crede, vagamente, che sia qualcosa del passato, un’emergenza rientrata, e che quindi non serva pensarci; si crede, altrettanto vagamente, che sia una minaccia terribile – che una diagnosi sia una condanna a un regime medico punitivo e a una vita breve e costretta – e si preferisce non pensarci. Queste credenze, oltre che contraddittorie, sono entrambe false; ma contribuiscono a incoraggiarci a ignorare la questione. E quindi a ignorare che sono false, a non vedere i fatti.

I fatti sono questi: oggi, in Italia, con l’hiv si può vivere senza difficoltà. Le terapie antiretrovirali non guariscono, ma eliminano il virus dall’organismo finché vengono assunte, permettono di avere figli sani, di “stringere patti di sangue nelle notti di luna piena”, ed eliminano il rischio di trasmissione dell’hiv dal sesso non protetto. Questo principio è stato dimostrato scientificamente nel 2011, ed è noto come U=U, “undetectable = untrasmittable”: se il virus non è rilevabile nel sangue, non è trasmissibile. Le terapie antiretrovirali prevedono una pillola al giorno, o un’iniezione ogni pochi mesi, senza più i pesanti effetti collaterali e le limitazioni dei farmaci delle generazioni precedenti, e sono coperte dal sistema sanitario nazionale. Un’aritmia cardiaca, un ipotiroidismo o un principio di diabete sono diagnosi che possono incidere in modo più marcato sulla vita di chi le riceve, ma spaventano molto di meno. Escluso il cancro, forse nessuna condizione medica spaventa più dell’hiv.

Questa paura non è stata scalfita dal fatto che dal 2018 anche in Italia è disponibile una terapia preventiva – chiamata Prep, cioè Profilassi pre-esposizione – che è più efficace del preservativo a prevenire l’infezione in caso di rapporti con una persona con hiv. Queste cose sono note, quasi banali, per le persone della comunità queer o per chi conosce qualcuno che vive con hiv. Ma a parte loro non le sa quasi nessuno, come ho scoperto parlando della mia diagnosi con familiari e conoscenti atterriti, che all’hiv associavano solo il ricordo di minacciose pubblicità progresso. Alla paura si è sommata un’ignoranza che, paradossalmente, la rafforza.

I fatti sono anche questi: nel 2023 in Italia – i dati sono stati pubblicati da pochi giorni – più di duemila persone hanno ricevuto una diagnosi di hiv, con un’incidenza in crescita rispetto agli anni precedenti, perché durante la pandemia da covid-19 ci si è testati di meno. Le nuove diagnosi riguardano, per più della metà, persone eterosessuali. Sono in misura sempre crescente diagnosi tardive, cioè in presenza di sintomi già rilevanti: l’infezione da hiv compromette il sistema immunitario in modo graduale e per molto tempo reversibile; quando la compromissione supera una certa soglia insorgono alcune infezioni collaterali, a cui un individuo sano non è vulnerabile, e allora si parla di aids. Nel 2023 di aids in Italia sono morte più di cinquecento persone, in gran parte perché la malattia è stata diagnosticata troppo tardi. Sono morte per via di un’infezione evitabile: l’uso del preservativo è in forte diminuzione, specie tra i più giovani, perché all’hiv non si vuole pensare. La Prep è spesso sconosciuta o difficile da ottenere, perché all’hiv non si vuole pensare. Sono morte per via di un’infezione con cui avrebbero potuto convivere senza problemi se l’avessero scoperta prima: di fatto, specie tra le persone eterosessuali, in assenza di sintomi ci si testa sempre meno, perché all’hiv non si vuole pensare.

In Italia in molte regioni la Prep è disponibile solo in uno o due ospedali. A Milano i centri Prep pubblici sono otto, cioè come quelli di Campania, Calabria e Basilicata messi insieme

In Italia in molte regioni la Prep è disponibile solo in uno o due ospedali. A Milano i centri Prep pubblici sono otto, cioè come quelli di Campania, Calabria e Basilicata messi insieme, che complessivamente hanno il quintuplo di abitanti del capoluogo lombardo, e i tempi d’attesa per chi vuole cominciare la terapia vanno dai quattro ai sei mesi. Per questo nel 2024 in Italia solo undicimila persone assumono la Prep, lo stesso numero dei Paesi Bassi, che hanno un terzo degli abitanti. In Francia sono otto volte tanto, e l’incidenza dell’hiv è in calo vertiginoso. In Italia, aumenta.

“Non ci sono linee guida nazionali”, spiega Roberto Rossotti, infettivologo in un grande ospedale milanese. “E quindi, per molto tempo ognuno ha fatto quello che poteva, o che voleva”. Rossotti ha le occhiaie e la generosità un po’ sbrigativa dei medici ospedalieri, ma non appena le sue spiegazioni toccano un punto di statistica o epidemiologia, la perentorietà del terapeuta sfuma nella precisione aperta al dubbio della lingua scientifica. La Prep non è solo un farmaco: oltre a richiedere una ricetta specialistica, la sua assunzione va accompagnata da controlli regolari. Ciò, mi spiega Rossotti, significa personale, macchinari, diagnostica: ogni anno, un utente richiede quattro appuntamenti e un migliaio di euro di costi vivi. Ne vale la pena – oltre che per la salute pubblica, anche sul piano economico, visto che una persona con hiv costa al sistema sanitario dieci volte tanto – ma in assenza di obblighi imposti dalle aziende sanitarie (come ha fatto l’Emilia-Romagna), ogni ospedale è libero di decidere se destinare a un centro Prep una parte delle proprie risorse cronicamente scarse e sottofinanziate.

Fino al 2023, quando il farmaco non era rimborsato e costava circa una sessantina di euro al mese, non lo faceva nessuno. “Con la rimborsabilità”, prosegue Rossotti, “gli ospedali in qualche modo hanno dovuto organizzarsi, ma senza avere personale in più né formazioni specifiche: ed è stata una valanga”. Il suo centro, a Milano, riceve circa duemila richieste di Prep all’anno; esita un secondo quando gli chiedo quante ne può accogliere. “Venti al mese? A volte trenta. Quindi sì, c’è una quota consistente che rinuncia”. Fa una pausa. “Magari vanno da un’altra parte”.

Durante un evento dell’associazione Milano Checkpoint, 2022.

Eppure tutti i dati mostrano una correlazione diretta tra diffusione della Prep e una riduzione drastica delle nuove infezioni da hiv: anche nelle zone meno servite d’Italia, i grafici dell’incidenza prendono tutti una svolta verso il basso nel 2018, quando il farmaco è diventato disponibile a pagamento. In città comparabili, come Roma e Milano, la maggiore capillarità dei centri Prep nella seconda spiega una differenza nel numero di nuove infezioni – invariate a Roma, scese a Milano. “A volte questa divergenza ha ragioni politiche”, aggiunge Rossotti. “L’estremismo cattolico fa opposizione alla Prep, e nei centri clinici in cui questa posizione è preponderante l’accesso è difficoltoso o assente”. Fa l’esempio di Bergamo e Brescia, due città confinanti e simili per popolazione. L’incidenza di nuovi casi di hiv, a Brescia, è più alta del 30 per cento rispetto a Bergamo. L’opposizione a un farmaco salvavita da parte di una religione che proclama la sacralità della vita non dovrebbe sorprendere: all’apice dell’epidemia di aids, quando una cura sembrava inconcepibile, il portavoce del papa Joaquín Navarro-Valls – che per di più di formazione era medico – ha dichiarato: “Da un punto di vista morale, per la chiesa, salvare una vita non è il valore principale”.

Per qualcun altro sì. Due pomeriggi alla settimana, un grande seminterrato nel centro di Milano ospita le attività di Checkpoint, un’associazione di volontariato nata da una rete di realtà per la lotta all’aids storicamente attive sul territorio milanese. Mentre parlo con la presidente, Nicoletta Frattini, nella stanza accanto una decina di uomini delle età più varie aspettano di essere chiamati per la visita in una sala d’attesa dove i volantini di educazione sessuale a colori sgargianti si alternano con quelli che pubblicizzano le attività della comunità srilanchese di Milano, che usa lo spazio in altri giorni.

“Checkpoint è nato nel 2018”, mi spiega Frattini. “All’epoca un gruppo dell’associazione ASA (ne faceva parte anche Rossotti, il medico) ha saputo di una realtà simile a Parigi ed è andata a capire come aprirne una qui.” Da anni c’era già chi assumeva la Prep senza passare dal sistema sanitario, acquistandola all’estero; l’idea era di permettere a queste persone di essere seguite da personale medico per monitorare la loro salute. “Poi ne è stato autorizzato l’uso anche in Italia, benché costasse molto, e comunque di centri Prep pubblici non ce n’erano”.

Checkpoint è nato per sopperire a questa carenza. “All’inizio venivano regolarmente utenti dalla Sardegna, dall’Alto Adige. Non sapevano dove altro andare”, dice Frattini. Da quando è stato fondato Checkpoint ha introdotto alla Prep più di 1.300 persone, e di queste mille sono tuttora in follow-up: è un quinto di tutti gli utenti di Milano, un decimo del totale in Italia. Il tutto è reso possibile da una cinquantina di volontari (uno dei quali, con un’assiduità inferiore a quanto vorrei, sono io) e da un budget annuale che oscilla tra i duecento e i trecentomila euro, proveniente da donazioni di privati, da case farmaceutiche e, in misura minore, da bandi pubblici.

Anche qui il servizio non si ottiene istantaneamente: due utenti – di 23 e 49 anni, uno in tuta l’altro in giacca e cravatta, entrambi al primo appuntamento – mi dicono di aver dovuto provare per varie settimane prima di avere la possibilità di prenotare sul sito. Mentre parlo con Frattini, a un’altra scrivania il coordinatore Daniele Calzavara risponde a varie telefonate di persone che sperano di trovare un canale preferenziale o un posto all’ultimo momento (e sono rimandate al sito, dove ogni giorno sono messi a disposizione nuovi appuntamenti). Ma si tratta comunque di un’attesa media di un mese e mezzo o due, quando negli ospedali si arriva facilmente al triplo. Chiedo a Calzavara cosa potrebbe servire al Checkpoint per aumentare la propria offerta: mancano volontari? Medici? Soldi? Qual è il collo di bottiglia? “Si potrebbero dire tutte e tre le cose”, risponde Daniele, “e di sicuro ci farebbe comodo averne di più. Ma di base il collo di bottiglia è il moralismo e il paternalismo della politica e di una parte della comunità medica in Italia, che resta convinta che la Prep sia solo un lasciapassare per scopare”.

Durante un evento dell’associazione Milano Checkpoint, 2022.

La storia dell’epidemia di hiv è anche la storia tragica della lotta che è stata necessaria perché la comunità queer fosse ascoltata da quella scientifica: per ogni medico che negli anni ottanta cercava di scoprire le origini e il funzionamento di quello che a lungo è stato chiamato con nomi discriminatori come Grid (cioè Gay-related immune deficiency, immunodeficienza legata all’omosessualità), ce n’erano troppi che minimizzavano o negavano o, peggio, diffondevano pregiudizi e paure, aggiungendo alla malattia la condanna all’ostracismo sociale e all’esclusione dalla cura.

Alcuni di questi pregiudizi sopravvivono ancora. Per esempio, nella resistenza di molte persone ad accettare il principio U=U: quest’anno un uomo che vive con hiv è stato accusato da un’ex partner di tentate lesioni gravissime, e assolto dal tribunale di Bari proprio perché chi assume regolarmente la terapia e ha carica virale non rilevabile ha zero possibilità di trasmissione. Un altro esempio sta nella lentezza d’adozione della Prep, che spesso viene vista come un via libera al sesso non protetto che, pur proteggendo dall’hiv, aprirebbe la strada ad altre infezioni a trasmissione sessuale.

“La stigmatizzazione del sesso senza preservativo”, mi dice senza mezzi termini Marco Bastian Stizioli, un altro volontario del Milano Checkpoint, “oggi ha l’effetto paradossale di diventare stigmatizzazione della Prep”. Stizioli – che come attivista cura un’agguerritissima newsletter di divulgazione sui diritti sessuali – cita uno studio ancora non pubblicato dell’associazione Prep in Italia in collaborazione con l’Istituto nazionale per le malattie infettive secondo cui un terzo di chi assume la Prep dichiara di usare il preservativo sempre, più o meno come nella popolazione generale. “Ma poi”, aggiunge, “ci sono mille ragioni diverse per voler usare la Prep: c’è chi non vuole dover negoziare l’uso del preservativo, c’è chi ha paura che si rompa…. Va vista non come una terapia, ma come uno strumento per assumere il pieno controllo della propria salute sessuale. Per usare il preservativo, purtroppo, bisogna essere in due”. La prevenzione più efficace, sostiene Stizioli, “è quella che va incontro alla gente dove si trova. La gente – con pene, con vagina, etero gay o bi – fa sesso come le pare, lo dimostra ogni ricerca. Il moralismo non fa che allontanarla”.

Il senso di una realtà come i Checkpoint (oltre a quello di Milano ce ne sono una dozzina in tutt’Italia e due hanno anche un centro Prep, Roma e Bologna) è proprio il contrario: avvicinare alla salute sessuale delle persone che – per ragioni geografiche o sociali, per paure irrazionali o invece fondate nella lunga e triste storia della lotta all’hiv – diffidano dei camici e degli ospedali. “È quello che si chiama approccio alla pari, o gestito dalla comunità”, mi spiega Calzavara, il coordinatore di Milano Checkpoint. “Non è in competizione con il sistema medico – anzi, la regione contribuisce in parte a finanziarci, proprio per permetterci di servire tutta una serie di popolazioni altrimenti difficili da raggiungere”.

Per questo, il Checkpoint, oltre al centro Prep, offre una volta alla settimana test per hiv, epatite c e sifilide in modo anonimo e gratuito. Lo scorso anno ne hanno usufruito quasi tremila persone: nella mia esperienza di volontario, ce ne sono molte che per ragioni amministrative o anche solo di lingua faticherebbero a rivolgersi ai centri per le malattie sessualmente trasmissibili degli ospedali lombardi. Il Checkpoint organizza anche molti eventi fuori dalla propria sede: banchetti di test anonimi in strada al Pride o all’uscita dei locali (o, a volte, al loro interno); sessioni informative per comunità specifiche che ne fanno richiesta.

“Qualche settimana fa”, racconta Calzavara, “abbiamo allestito un gazebo di vaccinazione contro il papilloma virus (Hpv) all’uscita di una discoteca poco fuori Milano. È il quarto evento di questo tipo che facciamo, abbiamo somministrato quasi cinquecento dosi in totale”. Il vaccino per l’hpv è gratuito non solo per le ragazze e le donne sotto i 26 anni, ma anche per gli uomini che fanno sesso con gli uomini: ma questi ultimi lo sanno meno spesso, ed è appunto qui che l’approccio alla salute gestito dalla comunità può fare la differenza. “I vaccini erano forniti e somministrati dal personale dell’ospedale Sacco, ci hanno contattato loro perché senza di noi qui come ci arrivavano?”, prosegue Calzavara. “In questo senso, l’approccio tra pari secondo me svolgerà un ruolo fondamentale nella medicina del futuro: il sistema medico mette le proprie competenze, noi educhiamo e avviciniamo le comunità, ed è un successo per tutti”.

Il 1 dicembre è la giornata mondiale della lotta contro l’aids. Ci sono paesi del mondo in cui questa lotta è ancora un’emergenza

Questo approccio è particolarmente importante dove le comunità più toccate dall’hiv sono meno ascoltate: come, appunto, nel caso di Brescia, per il quale l’infettivologo Roberto Rossotti denunciava una scarsa attenzione al riguardo. Proprio a Brescia è stato da poco fondato un nuovo Checkpoint, dall’educatrice e formatrice sulla sessualità Greta Tosoni insieme a Marco Bastian Stizioli, forte della sua esperienza di vari anni in quello milanese. Per ora non hanno le risorse per aprire un centro Prep, ma offrono – oltre ai test – un servizio di consulenza e formazione per operatori sanitari ed educatori. “La provincia di Brescia ha più di un milione di abitanti”, mi spiega Stizioli, “e un unico centro dedicato alle infezioni sessualmente trasmissibili. Uno! E infatti abbiamo fatto due sessioni di test e sono state piene. Si vede che la comunità ne aveva bisogno”, racconta, con un orgoglio forse incrinato dal timore. Il Checkpoint di Brescia è finanziato da un progetto del comune, con una cifra che non basterebbe per comprare un’auto usata: ma in questo caso basta a fare la differenza. “Abbiamo fondi per andare avanti fino a febbraio”, commenta Stizioli. “Poi, chissà”.

Il 1 dicembre è la giornata mondiale della lotta contro l’aids. Ci sono paesi del mondo in cui questa lotta è ancora un’emergenza: in Sudafrica il 17 per cento delle persone tra i 15 e i 49 anni è positivo. In Italia la situazione è molto migliore: ma questo dovrebbe incoraggiarci a fare un ultimo sforzo. Invece preferiamo non pensarci. Io ho scoperto di avere l’hiv esattamente quattro anni fa. Mi sono testato solo perché una farmacista, in occasione della ricorrenza, mi ha proposto di farlo: neanche sapevo dell’esistenza di test economici da fare in casa col pungidito, perché non volevo pensarci. Nello shock iniziale ho fatto un giro di telefonate alle persone che sentivo di aver esposto a un rischio. Naturalmente, potevano essere stati e state loro a esporre me. Non mi testavo da tre anni. Alcuni di loro da pochi mesi. Altri da mai.

In ultima analisi – ed è questo che il discorso pubblico sull’hiv, il poco che c’è, non coglie – è riduttivo vederla come una questione di responsabilità individuale. Lo è, certo; ma la responsabilità individuale entra in gioco solo in assenza di quella collettiva. Sta a ognuno di noi riciclare le bottiglie di plastica, ma non sarebbe necessario se fossero obbligatorie quelle in vetro. Durante la pandemia da covid-19, la mascherina serviva in parte per proteggere se stessi; in parte perché, se la usavano abbastanza persone, era protetta la collettività.

La mia è stata l’esperienza fortunata di una persona che aveva accesso alle cure a disposizione dei cittadini europei, che ha trovato una rete di supporto generosa. Ma ciononostante ho incontrato una quantità di ignoranza e di pregiudizi che mi è stato difficile comprendere: da parte di conoscenti, familiari, persone che ho amato. La coscienza è scissa: chi sa delle nuove terapie, della Prep, del principio U=U – perché appartiene alla comunità queer, o conosce qualcuno che ne è toccato – non immagina nemmeno quanto poco ne sappia la popolazione generale; e quindi non fa informazione. Chi non sa (senza colpa alcuna: nessuno ne parla!) non sa neanche di non sapere.

E non sapendo ha paura. È una paura comprensibile: per molto tempo è stata l’unica difesa contro una malattia minacciosa e poco compresa. Ma oggi sappiamo cos’è, sappiamo che esistono delle terapie efficaci per vivere con l’hiv, e per prevenirlo; eppure la paura resta. Questa paura fa sì che non ci siano massicce campagne di informazione sulla Prep, su U=U, sulla disponibilità di test per l’hiv in farmacia. Questa paura ci frena dal testarci regolarmente, cosa che dovrebbe essere un automatismo non solo per le coppie appena formate ma per chiunque abbia una vita sessuale attiva, anche se monogama: e non solo per l’hiv, visto che ultimamente si sta assistendo a una crescita dei casi di infezioni sessualmente trasmissibili resistenti agli antibiotici. Per questi, il preservativo è l’unica difesa; ma non riduce l’importanza di testarsi periodicamente, perché non è usato sempre né in ogni pratica sessuale. Come i tamponi e le mascherine durante la pandemia da covid-19, i test regolari sono l’unico modo di prendere in mano la propria salute sessuale: per l’individuo ma, se eseguiti in massa, anche per la comunità.

In molte parti d’Italia l’accesso ai test è scarso e difficoltoso; altrove, deleghiamo una questione cruciale di sanità pubblica alla buona volontà di qualche centinaio di persone sparse per alcuni seminterrati nelle nostre città. È una fortuna che ci siano; ma in uno dei paesi più ricchi del mondo, non dovremmo averne bisogno.

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