Nell’estate 2014 l’apertura al traffico dell’autostrada BreBeMi (Brescia, Bergamo, Milano) è stata una buona notizia quasi per tutti. Lo è stata per Intesa Sanpaolo e gli altri investitori, che avevano realizzato la “prima autostrada italiana in project financing”, cioè a proprio rischio, riuscendo però a raccogliere fondi pubblici e ampie garanzie di istituti di credito di proprietà pubblica (la Banca europea per gli investimenti e Cassa depositi e prestiti). Lo è stata per i governanti lombardi e nazionali, e tra loro per l’allora presidente del consiglio Matteo Renzi, che ha colto l’occasione del taglio del nastro per definire “un percorso allucinante” le verifiche ambientali previste dalla legge (“Aia, Vis, Via… senza passare dal via”, motteggiava elencandone le sigle).
In breve tempo è diventata paradossalmente una buona notizia anche per chi era contrario al progetto: la BreBeMi infatti, come prevedevano, si stava dimostrando davvero inutile. Quasi parallela e vicinissima all’A4, i suoi 62 chilometri erano un monumento al consumo di territorio e allo spreco di risorse, irrazionali sul piano ambientale, su quello contabile, su quello dei trasporti… Pochi mesi dopo, il colpo definitivo alla credibilità dell’infrastruttura è stato il filmato in cui tre militanti di un centro sociale bergamasco si scambiavano palleggi in una delle sue corsie, perfettamente deserta.
Erano tutte vere, le ragioni dell’opposizione; e allo stesso tempo erano vane. Perché guardavano indietro, come se la missione della BreBeMi fosse stata quella di collegare città che, invece, erano già prima ben connesse. Ma la visione della BreBeMi era quella di plasmare un territorio e metterlo a disposizione per nuove intraprese. Gli ambientalisti guardavano indietro e facevano conti ragioneristici, mentre il capitalismo finanziario (che è anche, come vedremo, il capitalismo della logistica) esplorava terre nuove. E se non erano le Indie attese, visto che la BreBeMi restava deserta, si sarebbero dimostrate nientemeno che le Americhe.
Fallimenti
La bassa bergamasca ha un passato recente di crisi aziendali e delocalizzazioni, e dunque ogni promessa di lavoro è un canto di sirene irresistibile. Inoltre, pur trovandosi a un passo da Milano, ha costi per le nuove sedi calibrati sulla sua dimensione ancora in parte agricola. Uno studio dell’agenzia Agici del marzo 2020, reperibile sul sito della Società di progetto BreBeMi spa, dà la misura del successo dell’autostrada, elencando “22 nuovi insediamenti produttivi di cui dieci già operativi” riconducibili all’infrastruttura. Il totale è da aggiornare costantemente: Paolo Falbo di Legambiente mi dice che un altro polo logistico è stato autorizzato, nel comune di Calcio. E l’Eco di Bergamo dell’8 gennaio 2021 informa che la provincia ha deciso di non sottoporlo alla Valutazione di impatto ambientale (Via).
Lo studio Agici riconosce la domanda crescente di “spazi liberi” nella bassa bergamasca, considerandola un fatto “di per sé molto positivo” che pone i comuni di fronte a scelte “che comprendono la possibilità di modificare (…) i Piani di governo del territorio (Pgt) per cambiare la destinazione d’uso dei terreni liberi al fine di renderli appetibili per nuovi investimenti”. Fino a oggi le aree coinvolte sono soprattutto quelle individuate in “previsioni urbanistiche vecchie di un decennio”, cioè di “quando l’edilizia tirava”, osserva il Corriere della sera. Già così la situazione è tesa e porta a scontri tra sindaci anche dello stesso partito per le conseguenze (soprattutto di traffico) di insediamenti logistici decisi al di fuori dei propri confini amministrativi: è solo da immaginare cosa accadrà se i comuni dovessero mettere mano sistematicamente ai Pgt.
Investitori qualificati come i fondi pensione trovano nella logistica un investimento sicuro
Dice Francesco Macario, architetto e già assessore a Bergamo, che le ferite al tessuto agricolo causate dalla crescita delle infrastrutture stanno causando “una forte spinta a vendere i terreni, anzi a svenderli”, e questo mentre le aziende della logistica “hanno la disponibilità per comprare e si trovano l’infrastruttura, cioè la BreBeMi stessa, già costruita”. L’appetito per i “terreni liberi”, insomma, vien mangiando. “Continuare a costruire strade e poli logistici”, constata Coldiretti, vuol dire “compromettere la qualità della poca terra che si potrà ancora coltivare”.
Il modo in cui la logistica procede nella bassa bergamasca ripropone quanto già osservato per la BreBeMi, ovvero la creatività del capitale, la sua capacità di plasmare mondi nuovi, senza badare troppo al fatto che siamo ancorati al solo, e vecchio, che abitiamo. Tra i tanti progetti che si affacciano due catturano l’attenzione: il primo, a Cortenuova; il secondo a una ventina di chilometri da lì, tra Treviglio e Caravaggio.
Binari per Cortenuova
A Cortenuova, nella frazione di Santa Maria del Sasso, era attiva fino agli anni novanta un’acciaieria. Nata su terreno agricolo e circondata da terreni ancora agricoli, il Corriere della sera del 21 gennaio 1999 la inserisce in un elenco di “aree dismesse, ricovero di clandestini e delinquenti” e “quartier generale di zingari ed extracomunitari”. Alle acciaierie di Cortenuova non c’era allora traccia di occupanti, ma questo non ha impedito alla retorica del “degrado” di prendervi residenza.
Nel 2005 l’apertura, al posto dello stabilimento abbandonato, di un centro commerciale dall’“avveniristica architettura” viene salutata con entusiasmo: i posti di lavoro sono ottocento, il presunto degrado è sconfitto. Tra i molti centri commerciali dalla breve vita, quello di Cortenuova merita una menzione: già a nove anni di età, nel 2014, chiude e fallisce, tradendo le promesse occupazionali su cui era nato. Riparte la retorica del degrado: i parcheggi diventano, secondo il Corriere della sera, “meta di carovane di nomadi”, “i cestini traboccano di rifiuti” e “dalle aiuole le piante ornamentali sbordano selvagge”.
Dopo la chiusura del centro c’è delusione: neppure la BreBeMi sembra capace del miracolo di farlo riaprire. Ora, con il senno di poi, sappiamo perché: la BreBeMi non collega, non risolve, ma immagina. Ed è quando l’immaginazione si fa strada che arriva l’ipotesi della logistica. Il comune la accoglie nel 2019 (anche per contrastare il “degrado”: delibera di consiglio 39) e poi nel 2020, quando il progetto assume il nome di Cortenuova freight station (delibera di consiglio 21 e allegati). Dalla Presentazione redatta dalle aziende e allegata alla delibera si osserva come la “rigenerazione urbana” del centro commerciale sconfinerà nei campi agricoli vicini, già considerati edificabili nel piano provinciale (Ptcp) del 2004.
Alla fine, nella frazione, si affiancheranno la Cortenuova freight station (Cfs); il polo logistico della Md, catena emergente del discount, con il suo svettante “silos di 32 metri di altezza”; una “piattaforma distributiva” dell’azienda di logistica Italtrans, nonché, su un “greenfield” appena oltre il confine comunale, un magazzino logistico edificato dalla Vitali spa di Cisano Bergamasco e dalla Logistic capital partners (Lcp). I principali proponenti di Cfs sono la stessa Vitali e la Medlog, “braccio logistico” della Msc, “seconda compagnia di gestione di linee cargo a livello mondiale”, interessata, spiega l’Eco di Bergamo, “a realizzare a Cortenuova un interporto per la gestione di container diretti o provenienti al porto di Genova”.
Il trasporto marittimo movimenta l’80 per cento delle merci del mondo, e il recente negoziato per ridurne l’impatto ambientale è stato un fallimento. Al termine del viaggio delle merci, poi, c’è quell’ultimo miglio che si sviluppa tipicamente su strada. Ma a Cortenuova, si legge nella presentazione del progetto, “le merci raggiungeranno il nuovo polo intermodale, verranno sdoganate e da qui ripartiranno alla volta dei cosiddetti last miles, utilizzando esclusivamente il trasporto su ferro”.
Le domande sono due: qualche centinaio di chilometri in treno, su un percorso che per molti container supererà oceani e continenti, illumina di sostenibilità tutto il viaggio? Ma soprattutto: quant’è stringente l’avverbio “esclusivamente”, che pure poche righe sotto prevede l’eccezione delle merci che “partiranno alla volta delle aziende del territorio”? Il sindaco non ha dubbi: “L’intervento mira a creare sviluppo economico, ad abbassare la CO2 nell’aria, a ridurre il trasporto su gomma ed il numero di autocarri sulle strade” (allegato a delibera 21).
Il volume di merci che transiterà su binari sarà quindi sostitutivo di quello che già oggi viaggia su gomma, e non invece aggiuntivo? Così viene detto, in vistosa controtendenza rispetto alle dinamiche del settore. Perché la logistica, proprio come la finanza, ha sempre bisogno di crescere. Lo spiega Emanuele Belotti, bergamasco e ricercatore all’università Iuav di Venezia: “La finanziarizzazione è un processo espansivo e la logistica, nel quadro di economie globalizzate, è un comparto in ascesa. Investitori qualificati come i fondi pensione, per cui gli investimenti di lungo termine hanno chiara appetibilità, trovano nella logistica e nelle infrastrutture investimenti magari meno liquidi, ma più sicuri in prospettiva e in grado di assicurare una dinamica espansiva nel tempo. È necessario osservare, però, come tutto ciò abbia ricadute ambientali e sociali: le dinamiche estrattive implicate nella finanziarizzazione ricadono su ecosistema, salute pubblica e lavoro vivo”.
Nel suo complesso il settore logistico opera a tenaglia sul lavoro: da un lato c’è uno sfruttamento spesso amplificato dal sistema delle cooperative di subappalto, dall’altro c’è una forte spinta all’innovazione finalizzata a ridurre al minimo il numero degli occupati. Anche sulla BreBeMi, annuncia lo studio Agici, si potranno vedere “presto applicazioni pratiche” di veicoli senza conducente; e in Bassa bergamasca si prepara un salto di qualità nell’automazione dei magazzini, con la progettazione di “piattaforme verticalizzate” che, secondo Macario, “sono concepite come ancora più automatizzate di quelle della generazione appena precedente”. Affidare il futuro occupazionale di un territorio a un settore che guarda al lavoro come a un fastidio da ridurre al minimo è davvero una buona idea?
Il Kilometroverde
Nel maggio 2020 la provincia approva un piano urbanistico da cui, finalmente, viene eliminata la possibilità di realizzare un interporto in un’area in gran parte agricola fra Treviglio e Caravaggio. Si direbbe un successo per quella parte del mondo politico che spera di poter “governare l’innovazione”, come viene eufemisticamente chiamata la penetrazione della logistica nella bassa bergamasca. Ma nel giro di pochi mesi la cancellazione dell’interporto diventa uno spot a favore dell’ennesimo hub logistico: “L’area era precedentemente destinata a interporto, quindi con il nostro intervento migliora la propria destinazione”, dice Alberto Billi della Develog al Sole 24 Ore. Il riferimento è a “Kilometroverde”, un progetto che fin dagli esordi costringe la politica ad arrancare, correndo dietro a eventi che le sfuggono.
Nell’ottobre 2020 il progetto viene presentato prima alla stampa che alle istituzioni, e questo causa reazioni giustamente stizzite. Segue la presentazione ufficiale, nella sede di una banca, con la partecipazione del presidente della BreBeMi (la maggioranza azionaria dell’autostrada, intanto, non è più di Intesa Sanpaolo, ma di una società spagnola controllata da un fondo di investimento australiano). I resoconti giornalistici sul progetto sembrano restituire l’ambizione delle imprese a fare da sé la pianificazione e, quasi quasi, l’opposizione: Kilometroverde “ha come obiettivo anche quello di migliorare e compensare dal punto di vista infrastrutturale il territorio attraversato dalla BreBeMi”; Kilometroverde è “l’anti-interporto green che vuole cambiare la logistica”. Con la stessa logica sottosopra i progettisti, pur scusandosi per l’incidente diplomatico iniziale, arrivano a indicare nell’incontro di presentazione di Kilometroverde “un gesto di solidarietà nei confronti dei territori che hanno così sofferto in questo momento difficile a causa dell’emergenza sanitaria”.
La procedura urbanistica del progetto, si legge a novembre sul Sole 24 Ore, sarà oggetto di un “accordo di programma regionale”. Ma il sindaco di Caravaggio il 28 gennaio 2021 mi scrive che fin lì non è stata presentata al protocollo del comune alcuna richiesta su Kilometroverde. Il progetto sembra insomma viaggiare da sé, su binari inafferrabili. Come dice l’urbanista Davide Cornago: “Non importa quanto attento sia un Ptcp nel definire le prassi (e quello bergamasco a mio parere attento non lo è neppure): il governo del territorio sta avvenendo soprattutto attraverso eccezioni e processi sovraordinati, cioè imposti dall’alto”. La pianificazione insomma sembra rimbalzare tra istituzioni, lasciandosi pianificare dalle forze del mercato e dalle sue abili fughe in avanti.
Un esempio da evitare
Per Kilometroverde viene indicato, fin dalle prime battute, un modello: il polo di Trecate in provincia di Novara, in Piemonte, ancora da finire. Questi progetti avrebbero in comune alcuni soggetti coinvolti, forse una vocazione nel settore della moda, l’attenzione per l’ambiente (lo sviluppatore Lcp – lo stesso attivo appena fuori Cortenuova – riceve per Trecate un premio per la sostenibilità) e ovviamente la promessa di posti di lavoro.
La Stampa informa che nel dicembre 2020 uno dei costruttori operativi a Trecate (non è riportato quale) ha ricevuto dai carabinieri della forestale una sanzione per la “mancata esecuzione degli interventi compensativi previsti per la trasformazione del bosco”. Resta invece “ancora in sospeso”, continua il quotidiano, la procedura relativa al “mancato avvio della procedura di Via”. Incidenti di percorso di un presunto modello che male si conciliano con quanto annunciato per Treviglio, ovvero che “il bosco di pianura sarà la prima cosa da piantare, in quanto parte integrante e cifra del progetto stesso”.
Anche sul piano del lavoro il modello Trecate offre spunti interessanti. L’azienda più nota tra quelle che vi prenderanno casa è il brand del lusso Kering, proprietario dei marchi Gucci, Saint Laurent, Dodo… La presenza di Kering sarebbe il frutto della delocalizzazione di uno stabilimento della logistica in Svizzera, annunciata nel 2019. Scrive la testata ticinese Tio.ch che “Kering progetta di esternalizzare il settore affidandolo alla multinazionale Xpo Logistics”, gigante le cui azioni sono nelle mani di alcuni fondi di investimento, che sarà operativo a Trecate. È lì che i dipendenti che accetteranno il trasferimento dalla sede svizzera, continua Tio.ch, “verrebbero reintegrati. Chi vorrà. Altro contratto, altra azienda, altro paese. E soprattutto altro stipendio”.
Lo studioso Jasper Bernes si domanda se la logistica abbia un “valore d’uso”, cioè se qualche suo aspetto, processo, innovazione possa essere ipoteticamente messo al servizio di una società più giusta, e non solo del profitto e della rendita finanziaria. La risposta che si dà è negativa: “Il valore d’uso che il settore della logistica produce è un insieme di tecniche e protocolli che consentono alle imprese di cercare i salari più bassi in qualsiasi parte del mondo”. E, aggiungerei, di agire alle più convenienti condizioni ambientali e fiscali. Tutto l’immaginario costruito sul green, le promesse, le tecnologie… si riduce, alla fine, a questa micragnosa aspirazione.
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