A più di sette mesi dalla fine dell’ultima guerra a Gaza, i palestinesi della Striscia stanno ancora aspettando la maggior parte degli aiuti dalla comunità internazionale. Il 12 ottobre 2014 i partecipanti alla conferenza dei donatori organizzata al Cairo avevano promesso 3,5 miliardi di dollari per la ricostruzione degli edifici danneggiati nel corso dell’operazione militare israeliana Margine protettivo. Si calcola che alla fine delle ostilità le case distrutte fossero più di diecimila, e le famiglie rimaste senza un tetto circa 17.500. Da allora, come denuncia un rapporto sottoscritto da decine di ong tra cui Oxfam, Save the Children e Cospe, è stato stanziato solo il 26,8 per cento dei fondi previsti. Il problema non è solo di natura economica, fanno notare gli autori del rapporto: “Non c’è stato alcun progresso verso un accordo per un cessate il fuoco definitivo, e la ricostruzione è andata avanti troppo lentamente per riuscire a rispondere ai bisogni. Nulla è stato fatto per porre fine al blocco illegale e ripristinare il collegamento di Gaza con la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est. Se non si traccia subito una nuova rotta che consenta di affrontare questi temi chiave, la situazione di Gaza non potrà che continuare a peggiorare”.
Tornando invece alla questione degli aiuti alla ricostruzione, l’unico paese ad aver quasi mantenuto gli impegni sono gli Stati Uniti, che hanno versato 233 milioni di dollari sui 277 promessi. L’Unione europea ha fatto peggio, dandone meno della metà (141 milioni su 348 milioni di dollari). Ma più lampanti sono le mancanze delle potenze regionali, che dovrebbero sostenere fortemente la causa palestinese: dei soldi promessi da Qatar e Arabia Saudita (rispettivamente un miliardo di dollari e 500 milioni di dollari) gli abitanti di Gaza ne hanno ricevuti solo un decimo; Kuwait, Turchia ed Emirati Arabi Uniti non hanno stanziato neanche un centesimo. Probabilmente il futuro dei palestinesi della Striscia di Gaza è diventato una preoccupazione secondaria per i governi mediorientali, impegnati a districarsi in una situazione regionale sempre più confusa dai conflitti in Siria e nello Yemen, e dalla lotta contro il gruppo Stato islamico.
E, a proposito della guerra in Siria, alla luce delle promesse non mantenute fatte agli abitanti di Gaza, c’è da chiedersi che ne sarà dei 18mila palestinesi che ancora vivono nel campo di Yarmuk, alle porte di Damasco. La terribile situazione nel campo profughi, a lungo assediato e bombardato dalle forze del regime di Bashar al Assad, è tornata sotto i riflettori il 1 aprile dopo l’invasione dei miliziani del gruppo Stato islamico. L’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, stima che gli abitanti di Yarmuk siano stati costretti a vivere nella fame per tutto il 2014, assumendo solo 400 calorie al giorno (contro le 2.100 calorie che l’Onu stima siano necessarie ai civili che vivono nelle zone di guerra). In quei mesi gli operatori dell’agenzia avevano un accesso limitato a Yarmuk. Il problema è che oggi non possono proprio entrare. Inoltre poche settimane fa l’Unrwa ha lanciato un appello a raccogliere 415 milioni di dollari per aiutare i 506mila rifugiati palestinesi che vivono in Siria. Ma anche qui le promesse di aiuti coprono solo il 20 per cento della somma richiesta.
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