Il 25 maggio gli irlandesi andranno a votare per decidere se abrogare l’ottavo emendamento della costituzione, in base al quale in Irlanda è consentito abortire solo nei casi in cui è a rischio la vita della madre. Non è permesso invece interrompere la gravidanza nel caso di malformazione del feto o se si rimane incinta in seguito a uno stupro. Se i sì vinceranno, il governo sarà autorizzato a modificare le norme attuali. Una proposta di legge che l’esecutivo sta valutando prevede la legalizzazione dell’aborto fino alla dodicesima settimana.

In Irlanda l’aborto era sempre stato proibito. Ma all’inizio degli anni ottanta, dopo che nel 1973 la corte suprema statunitense aveva stabilito il diritto all’interruzione di gravidanza, un gruppo di associazioni cattoliche aveva lanciato la Pro life amendment campaign, il cui obiettivo era modificare la costituzione per scongiurare una simile eventualità. Nel 1983 l’ottavo emendamento, secondo il quale “lo stato riconosce il diritto alla vita del nascituro e garantisce che le sue leggi difendano quel diritto”, era stato sottoposto a referendum e approvato con il 66,9 per cento dei voti.

Da allora ogni anno migliaia di donne irlandesi sono costrette intraprendere dei viaggi all’estero, in particolare nel Regno Unito, per abortire. Nel 2013 sono state introdotte delle piccole modifiche alla legge che consentono di abortire nel caso in cui ci sia un serio rischio per la salute della donna.

La consultazione sull’aborto si tiene a soli tre anni dal referendum sul matrimonio tra persone dello stesso sesso che fu vinto dai sostenitori del sì: un vero e proprio sconvolgimento culturale per un paese molto conservatore in cui la chiesa cattolica ha sempre giocato un ruolo centrale.

Una campagna molto accesa
Per il professore Diarmaid Ferriter dell’University College di Dublino, la mentalità è profondamente cambiata rispetto al 1983: “All’epoca il dibattito è stato dominato da persone di una certa età, soprattutto da uomini, e la chiesa cattolica ricopriva una posizione di maggiore influenza rispetto a oggi”. Mentre la campagna referendaria attuale è stata condotta da attiviste donne, molto più giovani. Il referendum sull’aborto era stato promesso in campagna elettorale dall’attuale premier Leo Varadkar, arrivato al potere nel giugno del 2017, che ha sempre definito la legge “troppo restrittiva”.

Gli attivisti per la legalizzazione dell’aborto hanno sostenuto il caso di Amanda Mellet, una donna irlandese che è stata costretta ad andare nel Regno Unito per abortire dopo aver scoperto che il feto era gravemente malformato. Dopo il viaggio nel Regno Unito, Mellet ha fatto ricorso alla commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite, che le ha dato ragione e ha stabilito un risarcimento di 30mila euro da parte del governo di Dublino.

Gli attivisti Pro life hanno condotto una campagna molto aggressiva contro l’aborto e i toni si sono accesi soprattutto sui social network al punto che il primo ministro ha richiamato gli antiabortisti per aver usato anche immagini di persone con la sindrome di Down. “Un tentativo da parte dei sostenitori del no per creare confusione e infangare la discussione”, ha detto il premier. I sostenitori della legalizzazione dal canto loro hanno accusato i mezzi d’informazione nazionali di aver invitato a parlare solo i parlamentari con posizioni contrarie all’aborto.

I social network hanno avuto un ruolo centrale nella campagna: i sostenitori del sì hanno usato l’hashtag #hometovote per invitare i cittadini irlandesi che risiedono all’estero a tornare in patria per partecipare al referendum. Per limitare il rischio di manipolazione da parte di gruppi politici e lobby, Google e Facebook hanno bloccato la pubblicità elettorale. Ma alcuni gruppi hanno provato ad aggirare questo divieto.

L’Irish Times ha deciso di schierarsi apertamente a favore del sì, per mettere fine alla vergogna e al silenzio che hanno circondato le migliaia di donne costrette ad andare ad abortire all’estero.

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