Donald Trump non è un presidente abituato a vincere. In dieci mesi ha avuto qualche soddisfazione, come l’uscita dall’accordo di Parigi sul clima e la nomina del nono giudice della corte suprema. Ma sono molte di più le volte in cui è stato sconfitto: sulla riforma della sanità (naufragata al congresso), sui decreti per vietare gli ingressi negli Stati Uniti alle persone provenienti da alcuni paesi a maggioranza musulmana (bloccati dai tribunali), sulla cancellazione degli accordi internazionali (dal disgelo con Cuba all’intesa sul nucleare iraniano fino al trattato di libero scambio con Canada e Messico), per cui sta incontrando resistenza da buona parte del sistema politico statunitense, anche tra i suoi collaboratori più stretti.
Ma su un’altra vicenda – il conflitto con i giocatori della lega di football americano (Nfl) – Trump sembra aver ottenuto una vittoria che probabilmente neanche lui si aspettava, e che dice molto sulla sua capacità di toccare le corde giuste di una parte dell’elettorato e chiamarlo a raccolta quando ce n’è bisogno.
Sembrava fin dall’inizio una partita che il presidente era destinato a perdere, e sembrava la solita sconfitta che Trump si era inflitto da solo dandosi la zappa sui piedi: il 23 settembre, durante un comizio in Alabama, si era scagliato contro Colin Kaepernick e gli altri giocatori di football che durante l’esecuzione dell’inno nazionale, prima dell’inizio delle partite, si inginocchiano per protestare contro il razzismo e la violenza della polizia nei confronti dei neri. “Non sareste contenti se ogni volta che un giocatore manca di rispetto alla bandiera i proprietari delle squadre dicessero ‘prendete quel figlio di puttana e buttatelo immediatamente fuori dal campo, sei licenziato’?”.
La protesta in campo
Poco dopo Trump aveva attaccato il giocatore di basket Stephen Curry, uno degli sportivi più amati del paese, che aveva fatto capire di voler saltare la visita di rito alla Casa Bianca per protestare contro le posizioni xenofobe e antidemocratiche dell’amministrazione. LeBron James, il più forte cestista al mondo, un personaggio che negli anni si è conquistato una fama e un’influenza che probabilmente supera quelle di molti leader politici, era corso in soccorso di Curry chiamando Trump “straccione”. Poi anche Bruce Maxwell, giocatore della squadra di baseball di Oakland, si era inginocchiato durante l’inno. Nessuno nell’Mlb, la lega di baseball, lo aveva fatto prima. La protesta si era allargata a macchia d’olio, coinvolgendo anche i giocatori universitari. A quel punto Trump era tornato all’attacco, invitando i tifosi a boicottare le partite dell’Nfl, e questo aveva portato ad altre prese di posizione contro la Casa Bianca.
Nel giro di poche ore tutto il mondo dello sport si era compattato contro il presidente. All’improvviso sembrava che l’Nfl – una lega storicamente conservatrice che ha sempre chiesto ai suoi giocatori di stare al loro posto senza sconfinare su rischiosi terreni politici per non rovinare gli affari, una lega guidata da proprietari bianchi che hanno sempre sostenuto i candidati repubblicani alla presidenza (compreso Donald Trump) – potesse diventare un megafono per chi combatte per la giustizia sociale. Cosa ancora più problematica per Trump, si aveva la sensazione che ormai chiunque potesse criticarlo o perfino insultarlo e passarla liscia. Se Trump non ha nessuna influenza sul mondo dello sport, si diceva, vuol dire che la sua presa sulla società è minima.
Lo zoccolo duro di elettori che ha portato Trump alla Casa Bianca continua a schierarsi con lui
C’è voluto poco per capire che non era così. A inizio ottobre, una settimana dopo l’inizio della polemica, il mondo del football è rientrato disciplinatamente nei ranghi. Jerry Jones, proprietario dei Dallas Cawboys, ha detto: “Se dovesse esserci qualche mancanza di rispetto verso la bandiera, allora non giocheremo” (Jones ha dato un milione a Trump in campagna elettorale e negli ultimi anni non si è fatto problemi a mettere sotto contratto giocatori condannati per violenza domestica, guida in stato di ebrezza e tentato omicidio). Poi hanno cominciato a circolare voci dall’interno della lega secondo cui i proprietari avevano chiesto a tutti i giocatori di non mancare di rispetto all’inno e alla bandiera. In tutto questo Colin Kaepernick, il quarterback che ha lanciato la protesta nel settembre del 2016, è ancora senza squadra (il 15 ottobre ha presentato un reclamo sostenendo che le squadre si sono messe d’accordo per tenerlo fuori dalla lega).
Subito dopo Jemele Hill, conduttrice nera di un programma su Espn, il più importante network sportivo statunitense, è stata sospesa per aver scritto sui social network che per spingere la lega a fare qualcosa per la libertà d’espressione bisogna fare pressione sugli sponsor (Hill era sotto tiro da settembre, quando, dopo il raduno neonazista di Charlottesville, in Virginia, aveva definito Trump un “suprematista bianco”).
Infine il New York Times ha pubblicato un sondaggio che mostra il gradimento degli elettori di Trump verso l’Nfl: si vede che a fine settembre, mentre era in corso lo scontro tra il presidente e i giocatori neri, moltissime persone hanno cominciato ad avere un’opinione negativa della lega, e oggi più di due terzi degli elettori del presidente sono critici. Questo porta a fare due valutazioni. La prima è che Trump riesce ancora a far cambiare idea a milioni di persone. In altre parole, lo zoccolo duro di elettori che lo ha portato alla Casa Bianca continua a schierarsi con lui in ogni situazione, perfino quando insulta gli eroi del loro sport preferito.
Seconda cosa: quando Trump sembra darsi inspiegabilmente la zappa sui piedi, in realtà sta semplicemente cambiando discorso. Lo fa di continuo su ogni tipo di argomento, e il più delle volte funziona. Nel caso dello scontro con l’Nfl i suoi insulti gli hanno consentito di spostare i riflettori dal merito della vicenda – il razzismo e le discriminazioni verso le minoranze – al suo terreno di gioco preferito, il nazionalismo e l’attaccamento ai valori americani. Cioè su un terreno che in generale è particolarmente scivoloso per i suoi oppositori, e lo è ancora di più se al centro della discussione c’è un campionato, l’Nfl, che è sempre stato un simbolo del patriottismo americano.
È un metodo efficace per realizzare una delle condizioni fondamentali che hanno portato Trump alla Casa Bianca e che possono permettergli di restarci: creare un clima di contrasto che renda ancora più profonda la frattura tra i suoi sostenitori (convinti che i valori americani siano sotto attacco) e quelli che percepisce come i suoi avversari: le élite progressiste delle grandi città, l’establishment di entrambi i partiti e, soprattutto, la grande maggioranza dei mezzi d’informazione. La strategia continua a funzionare: secondo un sondaggio di Politico, il 46 per cento degli americani è convinto che i giornali e le tv pubblichino notizie false sull’amministrazione Trump, una percentuale che sale al 76 per cento se si tiene conto solo dei repubblicani.
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