Dopo la Casa internazionale delle donne di via della Lungara, anche il centro antiviolenza Lucha y siesta di Roma rischia di chiudere, perché l’Atac – l’azienda municipalizzata dei trasporti – vuole vendere lo stabile di sua proprietà che ospita dal 2008 la casa rifugio per donne che hanno subìto violenza. “Quando una decina di giorni fa quelli dell’Atac sono venuti a fare un sopralluogo, ci hanno detto che le pratiche per vendere l’edificio erano in via di definizione e alcuni dirigenti dell’azienda sono andati in municipio per comunicare che avrebbero messo in vendita lo stabile”, spiega Simona, un’attivista dell’Associazione Lucha y siesta.

L’azienda dei trasporti romana è in condizioni economiche disastrose e quindi potrebbe mettere in vendita il patrimonio immobiliare per far fronte alla crisi. La presidente del settimo municipio Monica Lozzi ha chiarito che all’interno della struttura di via Lucio Sestio, completamente autogestita da un gruppo di attiviste da dieci anni, si svolgono servizi essenziali per il territorio, come lo sportello di ascolto per le vittime di violenza e la consulenza psicologica e legale, e ha chiesto alla proprietà che dia il tempo alle autorità di trovare un luogo alternativo prima di procedere con la vendita.

Non è chiaro quali siano i tempi della procedura e l’ufficio stampa dell’Atac nega che le pratiche per la vendita siano state avviate, ma intanto le attiviste e le operatrici hanno lanciato una raccolta firme per chiedere alle autorità locali di regolarizzare la posizione del centro antiviolenza e di fermare la vendita. “Vogliamo convocare anche un’assemblea pubblica per difendere la casa”, afferma Simona.

In un comunicato le attiviste hanno scritto: “Da Lucha y siesta non ce ne andiamo, non siamo disposte a fare un passo indietro, ma anzi lanciamo un invito a tutte coloro a cui arriveranno queste parole: che nascano case delle donne in ogni quartiere, in ogni città, in tutto il mondo”. Il centro, completamente autogestito, è sede di uno sportello di ascolto e di consulenza legale, ma anche di quattordici stanze che ospitano le donne in fuga dalla violenza dei loro compagni, mariti e familiari.

Nella residenza inoltre si svolgono diverse attività: c’è una biblioteca, una stanza dove si tengono corsi di yoga e ginnastica aperti agli abitanti del quartiere, una sala giochi per i bambini autogestita dalle famiglie della zona, una sartoria artigianale, un centro di consulenza psicologica. Tutto si sostiene con l’autofinanziamento e senza alcun fondo pubblico in una città in cui sono sempre di meno gli spazi per le donne che provano a emanciparsi da una situazione di violenza.

Oggi a Roma sono attivi quattro centri antiviolenza e due case rifugio per un totale di circa trenta posti, un numero considerato insufficiente rispetto agli almeno quattrocento posti necessari. La convenzione del Consiglio d’Europa sulla violenza contro le donne, ratificata dall’Italia nel 2013, prevede infatti che sia disponibile un posto in un centro antiviolenza ogni diecimila abitanti. In Italia ne servirebbero 5.700, ma ce ne sono solo cinquecento. E a Roma e nel Lazio la situazione non è diversa: nel 2015 la regione Lazio ha stanziato 1,39 milioni di euro per l’apertura di otto nuovi centri e tre case rifugio in tutto il territorio regionale. Ma nel frattempo un centro è stato chiuso e il bando aperto a novembre del 2016 non è ancora operativo.

Dieci anni di lotte
Quando nel 2008 il gruppo di attiviste romane occupò l’ex sottostazione Stefer “Cecafumo”, vicino alla stazione della metropolitana Lucio Sestio a Roma, nessuno immaginava che la casa rifugio sarebbe rimasta attiva per dieci anni, ospitando un centinaio di donne (altre settecento sono passate dallo sportello di ascolto del centro antiviolenza) e diventando un punto di riferimento per il territorio. Costruito alla fine degli anni venti come stazione della ferrovia che collegava Roma ai Castelli romani, l’edificio era stato prima trasformato in ufficio e infine abbandonato negli anni novanta.

“Quando siamo entrate qui, volevamo denunciare soprattutto la mancanza di alloggi per le persone che hanno questo tipo di difficoltà e offrire una residenza che non avesse una scadenza”, spiega Michela, una delle attiviste. Nelle quattro case rifugio di Roma, infatti, le donne possono essere ospitate per un periodo massimo di sei mesi. Secondo le operatrici e gli esperti, tuttavia, per una donna che ha subìto violenza c’è bisogno di almeno un anno per rimettersi in sesto e ricostruire un percorso di autonomia, soprattutto se ci sono dei figli.

La casa delle donne di via Tuscolana in dieci anni di attività non ha mai ricevuto finanziamenti pubblici e spesso ha fatto fatica ad affrontare le spese ordinarie. Nel 2014, quando l’ex stazione dell’Atac era stata messa all’asta, il gruppo che gestisce la casa ha partecipato al bando con una cifra simbolica.

Le operatrici hanno stimato, infatti, che per le attività e i servizi erogati in sei anni – dall’accoglienza alle donne, alla consulenza legale, dalla manutenzione della casa all’orientamento al lavoro – sono stati spesi 2.654.088 euro. Una cifra calcolata stimando tutto il lavoro volontario fatto dagli attivisti e dagli operatori e le somme raccolte con le attività di autofinanziamento, di fatto tutto denaro risparmiato dalle istituzioni. “Con il nostro intervento il valore della casa è quadruplicato”, spiega Simona. Eppure la casa Lucha y siesta, come molte altre realtà simili a Roma e in Italia, non ha ottenuto nessuna regolarizzazione e ora, dopo l’ennesima minaccia di vendita da parte della proprietà, rischia di chiudere.

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