Il decreto immigrazione e sicurezza, diventato legge il 27 novembre del 2018 con l’approvazione in parlamento, suscita divisioni e critiche sia all’interno della maggioranza sia tra le file dell’opposizione. Dopo l’attacco del sindaco di Palermo Leoluca Orlando e del sindaco di Napoli Luigi De Magistris – che hanno annunciato di non voler applicare la legge, perché “è un testo inumano che viola i diritti umani” – molti altri sindaci hanno detto che boicotteranno la norma. Una mappa compilata dalla ricercatrice Cristina Del Biaggio raccoglie tutte le adesioni degli amministratori locali contro il decreto, in totale un centinaio.

Uno dei punti più contestati della legge è l’esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica. Leoluca Orlando, con una nota inviata al capoarea dei servizi al cittadino, ha chiesto d’indagare i profili giuridici anagrafici derivanti dall’applicazione del decreto sicurezza e di sospendere qualsiasi procedura “che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla procedura di iscrizione della residenza anagrafica”. Ma perché è così importante essere iscritti all’anagrafe e cosa comporta esserne esclusi? E infine, ha senso sospendere l’applicazione del decreto o basta applicare correttamente le norme esistenti?

Cosa prevede il decreto
La legge 113/2018 (anche detta decreto sicurezza e immigrazione o decreto Salvini) prevede delle modifiche all’articolo 4 del decreto legislativo 142/2015 attraverso un comma secondo cui “il permesso di soggiorno per richiesta d’asilo non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”. Secondo Enrico Gargiulo, docente di fondamenti di politica sociale all’università Ca’ Foscari di Venezia, il decreto introduce una “rivoluzione nel campo del diritto all’anagrafe”, perché “per la prima volta si nega in maniera chiara a una categoria di persone un diritto soggettivo perfetto”, contravvenendo alla costituzione e ad altre norme generali sull’immigrazione come il Testo unico del 1998.

Dello stesso orientamento l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che in un comunicato ha ribadito l’incostituzionalità di questo punto e ha annunciato di aver già presentato diversi ricorsi, impugnando in sede giudiziaria alcuni dinieghi all’iscrizione anagrafica. “Riteniamo infatti che non sussista alcuna ragione che giustifichi sotto il profilo costituzionale una diversità di trattamento nell’iscrizione anagrafica che colpisce una sola categoria di stranieri legalmente soggiornanti (i titolari di permesso di soggiorno per richiesta di asilo), violando il principio di parità di trattamento coi cittadini italiani prevista dall’articolo 6 del Testo unico sull’immigrazione( legge 286/1998)”, si legge nel comunicato. I ricorsi che saranno portati davanti a un giudice chiameranno in causa la corte costituzionale per violazione dell’articolo 3 della costituzione. La consulta a sua volta dovrà stabilire se questa parte del decreto è in linea con la carta fondamentale.

Di fatto nella norma non si vieta espressamente l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe

Tuttavia alcuni giuristi invitano a un’interpretazione diversa del decreto. Le avvocate dell’Asgi Nazzarena Zorzella e Daniela Consolo ritengono che il decreto “non pone nessun esplicito divieto, ma si limita a escludere che la particolare tipologia di permesso di soggiorno possa essere documento utile per formalizzare la domanda di residenza”. Intervistata al telefono da Internazionale Zorzella ribadisce che “anche se il decreto ha come obiettivo l’esclusione dei richiedenti asilo dalla residenza, tuttavia di fatto nella norma non si vieta espressamente l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe, ma si sostiene che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisca un titolo valido per l’iscrizione all’anagrafe”.

Per l’avvocata, quindi, i sindaci potrebbero con una circolare informare gli uffici anagrafici di accettare come documento valido per l’iscrizione all’anagrafe il modulo C3 e cioè la domanda di asilo presentata in questura dal richiedente asilo al momento dell’arrivo in Italia, assumendo quel titolo come prova del soggiorno regolare del cittadino straniero in Italia. “Il decreto sicurezza coesiste con il Testo unico sull’immigrazione, in particolare con l’articolo 6 comma 7 che non è stato modificato dal decreto e prevede che allo straniero regolarmente soggiornante sia consentita l’iscrizione anagrafica”. Secondo l’avvocata i sindaci potrebbero provare a interpretare la norma in senso meno restrittivo, continuando a consentire l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe usando un altro documento come prova del loro soggiorno nel paese.

Cosa implica l’iscrizione all’anagrafe
L’iscrizione anagrafica è necessaria per il rilascio del certificato di residenza e del documento d’identità. Questi due documenti di prassi sono il presupposto per il godimento di alcuni servizi pubblici, in particolare dei servizi sociali, per esempio la presa in carico da parte degli assistenti sociali, l’accesso all’edilizia pubblica, la concessione di eventuali sussidi, per l’iscrizione al servizio sanitario nazionale (per la fruizione dei servizi ordinari come il medico di base, mentre l’assistenza sanitaria d’urgenza è per principio garantita anche agli irregolari), per l’iscrizione a un centro per l’impiego. Inoltre un documento d’identità valido è richiesto per sottoscrivere un contratto di lavoro, per prendere in affitto una casa o per aprire un conto corrente bancario. La situazione in realtà è molto disomogenea sul territorio italiano, da anni molti comuni hanno stabilito che sia necessaria la residenza per accedere a questi servizi, mentre in altri municipi è consentito accedere ai servizi con il domicilio o la residenza fittizia, ma il decreto introdurrà ancora più ambiguità in questa materia e c’è da aspettarsi un aumento dei contenziosi. “Chi non ha accesso ai diritti anagrafici diventa invisibile, è una specie di fantasma dal punto di vista amministrativo”, afferma il ricercatore Enrico Gargiulo. “Anche se una persona rimane titolare di certi diritti, senza l’iscrizione anagrafica di fatto ne è esclusa”, conclude il ricercatore.

Anche su questo punto le avvocate dell’Asgi, Zorzella e Consolo, ritengono che l’iscrizione all’anagrafe non sia necessaria per garantire l’accesso ai servizi dei richiedenti asilo. Zorzella e Consolo ricordano che lo stesso decreto sicurezza prevede che sia assicurato agli stranieri “l’accesso ai servizi comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti”. In questo senso, secondo loro, i sindaci e gli amministratori locali dovrebbero chiarire in una circolare che è sufficiente il domicilio per accedere ai servizi pubblici territoriali senza dover esibire l’iscrizione all’anagrafe, e lo stesso varrebbe per i servizi privati (banche, poste, assicurazioni, agenzie immobiliari).

“Per l’apertura di un conto corrente non è necessario avere la residenza o la carta d’identità, è sufficiente il permesso di soggiorno”. Per le avvocate il permesso di soggiorno (anche per richiesta di asilo) “assolve al compito di dimostrare la regolare presenza del cittadino non comunitario sul territorio italiano”. In ogni caso le conseguenze del decreto sulle anagrafi saranno importanti e sarà alto anche il numero dei contenziosi. Coloro che si vedranno negata l’iscrizione all’anagrafe, potranno chiedere in sede giudiziaria i danni per le conseguenze che saranno costretti a fronteggiare.

Una storia di esclusione
Il decreto sicurezza e immigrazione mette nero su bianco una prassi che da anni si è imposta in Italia sia attraverso leggi dello stato sia attraverso il modus operandi degli uffici amministrativi: l’esclusione dai servizi sociali attraverso la limitazione dell’iscrizione anagrafica. “Prima ci sono state le ordinanze dei sindaci che escludevano alcune categorie di persone dalla residenza, come nel caso dell’ordinanza antisbandati che negava la residenza agli immigrati. In seguito il decreto Renzi-Lupi del 2014 che ha escluso dalla residenza le persone che vivono in occupazioni abitative”, spiega Enrico Gargiulo.

“Il decreto sicurezza del 2018 attacca la categoria dei richiedenti asilo”, continua Gargiulo che fa parte della rete Ricercatrici e ricercatori sulle migrazioni (Rim) . “Negare l’iscrizione anagrafica significherà un peggioramento delle condizioni formali e materiali di vita di molte persone che risiedono legalmente sul territorio italiano”. Molti comuni negli anni hanno contrastato queste tendenze per esempio riconoscendo una residenza fittizia ai senza fissa dimora, ma “negli anni c’è da notare che i funzionari pubblici hanno favorito l’esclusione dalla residenza e questo è un orientamento politico che passa dalla burocrazia e dà da pensare”, conclude il ricercatore.

Ma quella della residenza come strumento di esclusione è una vecchia storia. Lo spiega lo storico dell’immigrazione Michele Colucci: “La tendenza a usare la residenza come strumento di penalizzazione dei fenomeni migratori è molto antica, ha raggiunto in Italia il suo apice con la legge fascista del 1939, comunemente chiamata legge antiurbanesimo, che serviva a scoraggiare e a combattere lo spostamento delle persone dalle campagne verso le città”.

Nonostante molte polemiche l’Italia repubblicana non ha abolito subito la legge del 1939 che vincolava la residenza al contratto di lavoro: “Si creava una situazione di irregolarità all’interno dei confini nazionali, riguardo alla migrazione interna. Questa legge è stata abolita solo nel 1961. Ma alla fine degli anni cinquanta molti comuni hanno cominciato a derogare la legge, concedendo un domicilio temporaneo”. Questo però secondo Colucci è stato frutto di una spinta popolare molto forte, soprattutto da parte dei sindacati: “Alla fine degli anni cinquanta i comuni, come quello di Torino tentarono di riformare al livello locale una legge nazionale, un po’ come potrebbe avvenire oggi”.

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