Il 30 maggio 2017 è entrata in vigore in Egitto una legge che ostacola le attività delle organizzazioni non governative, approvata il giorno prima dal parlamento.

Prima della rivoluzione l’Egitto aveva già scatenato una caccia ai finanziamenti stranieri delle ong, seguita dall’incarcerazione di parecchi responsabili delle organizzazioni stesse, in particolare quelle legate a partiti statunitensi. Adesso questa nuova legge impedisce di portare avanti un lavoro nella società civile se un’organizzazione non è in linea con il governo.

“Ogni ong dovrà richiedere l’autorizzazione statale prima di ricevere qualsiasi finanziamento; se lo stato non risponderà entro 60 giorni, la richiesta sarà considerata come rifiutata”, spiega Mada Masr. “Secondo l’articolo 88 le pene per chi opera senza autorizzazione vanno da uno a cinque anni di prigione e da 50mila a un milione di lire egiziane. Chi collabora con organizzazioni straniere rischia cinque anni di prigione”.

La redazione non si è scoraggiata e ha spiegato che pubblicherà il giornale su Facebook e Google Drive

La legge è stata condannata dalla maggior parte degli attivisti per i diritti umani, tra cui Maina Kiai, ex inviato speciale delle Nazioni Unite per il diritto alla libertà di riunione e di associazione, secondo il quale la legge rischia di “devastare la società civile egiziana e trasformarla in una marionetta del governo”. La direttrice di Human rights watch per il Medio Oriente e l’Africa, Sarah Leah Whitson, aveva avvertito che “con questa legge diventerebbe una farsa dire che l’Egitto autorizza l’esistenza di organizzazioni non governative visto che saranno sottoposte al controllo delle agenzie di sicurezza dello stato”.

La stretta sull’informazione online
Il 25 maggio il governo egiziano aveva già deciso il blocco in Egitto di 21 siti di informazione con l’accusa di incoraggiamento al terrorismo. Tutti i siti legati in qualche maniera ai Fratelli musulmani e al Qatar hanno subìto il blocco, a cominciare da Al Jazeera e Huffington Post Arabi. Questi blocchi sono stati ordinati contemporaneamente in Arabia Saudita. I paesi del Golfo hanno considerato la visita di Trump uno sdoganamento sulle questioni relative ai diritti umani, sulla libertà di stampa e sulla repressione, scrive Ali Alaswad su Middle East Eye a proposito della repressione degli oppositori in Bahrein.

Il giornale Al Araby al Jadid vicino al Qatar e vietato in Egitto nel dicembre del 2015 usa quasi un tono di amara rivincita: “Gli altri mezzi d’informazione egiziani non immaginavano che la porta era stata aperta e che dopo Al Araby al Jadid altri siti avrebbero fatto la stessa fine. Il regime egiziano sta facendo piazza pulita, per tenere in vita solo qualche piattaforma mediatica che canta le lodi del presidente Al Sisi giorno e notte”.

Tra i siti oscurati, anche il sito indipendente Mada Masr, premiato nel 2016 per la libertà di stampa al festival di Internazionale a Ferrara per il lavoro del giornalista Hossam Bahgat e la sua caporedattrice Lina Attalah, venuta a ritirare il premio. La redazione del giornale non si è scoraggiata e ha spiegato che pubblicheranno il giornale su Facebook e su Google Drive, insieme a un articolo che propone una semplice guida in arabo (organizzata insieme alla Electronic federation foundation) per ripristinare l’accesso a siti bloccati ed evitare la censura.

Social network sotto controllo
Oltre alla società civile e ai mezzi d’informazione potrebbe anche essere il turno dei social network. Ad aprile, il giornale Al Youm al Sabaa aveva pubblicato in anteprima una proposta di legge del parlamentare Riyad Abdul Sattar che richiede un’autorizzazione statale per l’utilizzo di Facebook e Twitter.

L’organizzazione Reporters sans frontières ha definito l’Egitto come “la più grande prigione del mondo per i giornalisti”, e il paese è arrivato al 161° posto (su 180 paesi) nella classifica mondiale della libertà di stampa.

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