I primi due film della regista libanese Nadine Labaki affrontavano temi difficili in forma molto leggera. Caramel raccontava l’infibulazione delle donne e l’impossibilità del divorzio femminile in Libano con l’umorismo e la leggerezza di tre donne parrucchiere. Realizzato con un piccolo budget, è poi diventato un fenomeno mondiale distribuito in quaranta paesi. Il suo secondo film, E ora dove andiamo, era un musical sullo stile dei celebri film dei fratelli Rahbani che mettevano in scena la cantante Fairouz. Una fiaba delirante che mostrava tutti i paradossi della guerra – Labaki è nata nel 1974 in pieno conflitto civile libanese – e nella quale delle vecchie signore preparavano cibo a base di hashish per calmare il fervore guerriero dei loro uomini.

Il suo ultimo film, Cafarnao-Caos e miracoli, è agli antipodi delle sue narrazioni precedenti. Non ha nessuna intenzione di risparmiarci il dolore di Zein, un bambino di “circa 12 anni” – i suoi genitori non l’hanno registrato all’anagrafe e non si ricordano quando è nato – che cerca di sopravvivere in un mondo infernale. Per tre anni Nadine Labaki ha osservato la vita di questi bambini senza documenti, abbandonati a loro stessi per le strade di Beirut. Molti di loro sono profughi siriani, proprio come il vero Zein, che interpreta il protagonista del film. D’altronde il Libano è, dopo la Turchia, il paese che ha accolto più rifugiati siriani al mondo: 2,2 milioni su una popolazione di sei milioni di persone. Dei 488mila bambini rifugiati nel paese oltre la metà non è mai andata a scuola.

“Ero in macchina, ferma al semaforo, tre anni fa, quando ho visto un bambino di meno di un anno che provava a dormire sul marciapiede: era mezzanotte passata, chiudeva gli occhi, li riapriva, non riusciva a prendere sonno. Quando sono tornata a casa ho disegnato un bambino che urla. Questi bambini, come Alan Kurdi, cosa ci direbbero se potessero parlare?”, si chiede la regista venuta a Roma a presentare il suo film, nelle sale italiane dall’11 aprile.

La regista racconta una scena del film


Zein è il primogenito di una famiglia povera con sei figli. Scappa di casa quando scopre che i suoi genitori vogliono dare sua sorella Sahar di 11 anni in sposa al padrone di casa. Se nel mondo di Zein c’è poca giustizia lui decide di farsela da solo: prima accoltella “lo sposo”, di trent’anni più vecchio della sorella, e poi porta i suoi genitori in tribunale con l’accusa “di averlo messo al mondo”. “Il processo è l’unico elemento di finzione del film”, sottolinea Nadine Labaki. “Gli altri personaggi, dai bambini ai genitori fino al giudice, sono tutti attori non professionisti che mettono in scena la propria vita”.

Sono le loro vite che hanno preso il sopravvento e scritto davvero la storia del film, costato oltre sei mesi di riprese. Labaki li ha lasciati improvvisare, cambiando il copione mano a mano che si girava. Ed è certamente questo metodo che dà al film accenti di verità a tratti insostenibili: “All’inizio avevo una sceneggiatura molto strutturata, ma stavo parlando di una lotta che non avevo vissuto in prima persona. Molto velocemente ho capito che non potevo imporre la finzione. Io e la mia équipe ci siamo ritrovati davanti a qualcosa che era più grande di noi. Mio marito, che era alla sua prima esperienza di produttore, ha ipotecato la nostra casa senza dirmelo per farci continuare le riprese”.

Bambini invisibili
Il film è stato anche criticato per il suo stile melodrammatico, un poverty porn che denuncia troppe ingiustizie tutte insieme: bambini senza identità, apolidi che non hanno accesso a nulla, domestiche straniere a cui le loro madame trattengono i documenti di identità. Come mostra il personaggio dell’etiope Rahil, la loro esistenza legale dipende dalla padrona, chiaro esempio di schiavitù moderna.

Questa critica è difficile da accettare davanti alla naturalezza e alla generosità del cast di bambini non professionisti che hanno interpretato loro stessi. Il film usa spesso toni documentaristici e descrizioni così viscerali da impedirci di girare la testa dall’altra parte.

Nadine Labaki aveva appena avuto la sua seconda figlia quando ha cominciato a girare. Come la domestica Rahil nel film, durante le riprese la regista allattava e così è riuscita a trasmettere l’empatia che si avverte in questo momento particolare: “Credo che una donna in questa situazione abbia recettori più attivi, assorbiamo di più, siamo più empatiche, non avrei mai potuto capire un bambino di un anno come Jonas, il bebè del film, se mentre giravamo non avessi avuto una figlia della stessa età”.

La questione generazionale nel mondo arabo è stata dibattuta a lungo durante le primavere arabe. Finalmente si affacciava un mondo giovane – la metà della popolazione araba ha meno di 25 anni – pronto a chiedere democrazia e giustizia.

Dopo il fallimento – almeno per ora – di queste giovani rivoluzioni, il tema è stato abbandonato. Cafarnao, come le recenti proteste globali per il clima o in Algeria, mette in primo piano una nuova generazione in rivolta, formata addirittura da bambini o adolescenti. Ma cosa hanno in comune il dodicenne senza documenti Zein e la svedese Greta? Accusano gli adulti con determinazione.

“La verità esce dalla bocca dei bambini”, conclude Labaki. “Non sono traviati dall’ipocrisia sociale, sono loro che dobbiamo ascoltare se vogliamo cambiare qualcosa nel mondo. Anche perché gli lasciamo un vero… ‘cafarnao’ (inteso come luogo di confusione) . La risposta di Zein a questa ingiustizia è altrettanto potente”.

“Davanti ad accuse e richieste così genuine, non mi sento di ‘trattenermi’, anche se i critici del cinema adorano le emozioni trattenute. Ma che cosa significa? Contenere un’emozione che uno sente realmente? Bloccarla? Io sono una che sente per davvero, voglio al contrario esacerbare le emozioni: sono una mediterranea, libanese, vengo da un paese dove ci esprimiamo molto. E poi, la realtà è molto peggiore del mio film. Volevo turbare, provocare una reazione. Fin dall’inizio con questo film volevo cambiare qualcosa. Il cinema era solo un mezzo”.

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