Con Le nozze di Figaro Mozart e il librettista Lorenzo Da Ponte erano coscienti di aver creato una forma di intrattenimento inedita, “un quasi nuovo genere di spettacolo”, come si legge nell’esergo del libretto. Nelle Nozze di Figaro musica e teatro si completano fino a confondersi in un’esperienza unica. Basterebbero i 20 minuti del finale secondo, in cui uno per uno compaiono tutti i personaggi della storia e si lanciano in un concertato turbinoso, per capire che la musica che Mozart ha scritto per le Nozze è puro teatro. L’azione non si ferma quando i personaggi cantano, come succedeva nell’opera barocca, ma si sviluppa, la trama si complica e le intenzioni, le motivazioni e i pensieri dei protagonisti si chiariscono. In questo senso le Nozze di Figaro sono la prima opera lirica moderna.
La modernità delle Nozze è anche nell’intreccio e nei personaggi. Il libretto di Da Ponte è tratto dalla fortunata commedia La folle journée ou le mariage de Figaro di Beaumarchais, una commedia talmente nuova nel descrivere i rapporti di forza tra i ricchi e i poveri, tra i potenti e i loro sottoposti, che fu censurata nella Francia di Luigi XVI. Mozart e Da Ponte erano attratti da quella commedia che metteva alla berlina i privilegi feudali di una nobiltà morente attraverso i luoghi comuni del teatro buffo: schermaglie galanti, tradimenti, travestimenti, beghe legali e agnizioni raccontano con feroce leggerezza e con musica sontuosa il tramonto di un’aristocrazia grottesca e parruccona.
Nel suo nuovo allestimento per l’Opera di Roma, il regista britannico Graham Vick, famoso per il suo lavoro pionieristico di reinterpretazione e di modernizzazione dell’opera lirica, ha saputo cogliere con gusto gli spunti contemporanei del libretto.
Il conte e la contessa d’Almaviva sono due arricchiti, due esponenti di quell’un per cento della popolazione che vive alle spalle di una maggioranza povera e sfruttata. La contessa (la strepitosa Federica Lombardi) è un incrocio tra Melania Trump e Anna Tatangelo: jeans strappato con tacco dodici e abiti da sera troppo trasparenti per essere davvero eleganti: è annoiata e frustrata e si aggira nel suo asettico, enorme soggiorno, sfogliando una copia sgualcita di Casa Vogue. Il conte (Andrey Zhilikhovsky) riceve tutti con una vestaglia sempre semiaperta (sì, come Harvey Weinstein) e quando è vestito, con i suoi abiti firmati striminziti e il pantalone rigorosamente sopra la caviglia, sembra Fabrizio Corona. Susanna, la cameriera della contessa e perno di tutta l’opera, incarna tutta la modernità delle Nozze di Figaro. È l’unico personaggio che, anche musicalmente, dialoga con tutti gli altri e che è praticamente sempre in scena, al centro di tutti gli intrighi.
Susanna, la serva scaltra di tanto teatro buffo settecentesco, è nata per essere oggetto ma nel corso dell’opera diventa sempre più soggetto: manipola, decide, fa e disfa. E soprattutto si muove con agio attraverso le classi sociali. Ma non è né la furba Mirandolina di Goldoni e neanche la serva padrona di Pergolesi. È una loro sorella più giovane e più consapevole del fatto che il mondo sta cambiando: Susanna, a differenza delle sue sorelle, sa di non essere sola. Il soprano spagnolo Elena Sancho Pereg, con la sua immacolata uniforme da cameriera, i tratti ispanici e i capelli tirati indietro, ricorda la gentile fermezza di Alexandria Ocasio-Cortez.
Completano il cast un Cherubino nerd e ipersessuato (Miriam Albano), un caricaturale Don Basilio (Andrea Giovannini), palesemente ispirato a Sebastian Love, l’assistente gay del primo ministro inglese nella serie comica della Bbc Little Britain, e una Barbarina (Daniela Cappiello) che sembra una piccola fan di Mel C delle Spice Girls. Graham Vick ha fatto un bellissimo lavoro nella tipizzazione e nella modernizzazione dei personaggi. In un’epoca di crescente e sempre più palese disuguaglianza ha saputo cogliere e sottolineare con spirito tipicamente britannico le leve di potere che muovono e schiacciano i personaggi, anche e soprattutto nelle relazioni amorose.
L’idea che le donne un giorno avrebbero potuto unirsi per rovesciare lo status quo era lontanissima dalla cultura di Mozart
“The elephant in the room”, l’elefante nella stanza, è un’espressione tipicamente britannica che indica un argomento scomodo che è sotto gli occhi di tutti ma di cui si preferisce non parlare. L’elefante di queste Nozze di Figaro è chiaramente il #MeToo e Graham Vick ha deciso di farcelo vedere in tutto la sua ingombrante scomodità.
All’inizio del secondo atto, quando la contessa canta “Porgi amor”, una delle arie più splendide del repertorio mozartiano, siamo in un grande salone. Come tutti gli ambienti di queste Nozze è uno spazio ingombro di oggetti di design firmati e ben riconoscibili: ci sono il camino sospeso Gyrofocus, la lounge chair di Eames e le sedie di plastica trasparente di Philippe Starck. Le scene e gli arredi di Samal Blak ci restituiscono perfettamente il sapore asettico di quegli interni venduti chiavi in mano ai nuovi ricchi dagli arredatori. Il grande trompe-l’œil con un elefante che sfonda la parete del salone della contessa è perfettamente in tono con il resto dell’ambiente: sembra quasi di sentire un arredatore che lo definisce “iconico” davanti a una padrona di casa indecisa ma senza limiti di budget.
Partendo da questo ottimo spunto la regia di Graham Vick comincia però ad avvitarsi su stessa. Quando rivediamo delle immense zampe di elefante anche all’inizio del terzo atto, sospettiamo che stiamo per essere bombardati di spunti per farci davvero capire, in caso ci fossimo distratti, che nelle Nozze di Figaro si parla di una società maschilista e capitalista che prevarica le donne. E soprattutto che l’intricato gioco di equivoci che anima il terzo e quarto atto dell’opera può anche passare in secondo piano visto che ci sono cose più importanti di cui parlare.
Il libretto di Lorenzo Da Ponte per altro non ci va piano: il fatto che le donne abbiano sempre un prezzo, che sopravviva l’usanza barbara dello ius primae noctis e che il matrimonio sia una questione di soldi e di prevaricazione è tutto esplicitato in questa caustica commedia di fine settecento. Che bisogno c’è dunque di cucire mazzetti di banconote sugli abiti da sposa di Susanna e di Marcellina? E, in generale, di tutto questo sventolare di bigliettoni da video di gangsta rap?
È nel quarto atto però che la commedia rischia di cadere rovinosamente sotto il peso dei troppi messaggi. Il giardino notturno in cui si consuma il gioco degli equivoci e dei travestimenti e in cui, alla fine, ogni ambiguità sarà sciolta, si trasforma in una fossa comune a cielo aperto piena di cadaveri di donne. Due cameriere sono appese per il collo come le donne giustiziate in The handmaid’s tale, una donna nuda senza vita è riversa in una carriola e ci sono altre ragazze morte qua e là. Nelle sue note di regia Vick scrive: “Oggi il rococò a teatro può tentarci a una falsa nostalgia, diminuendo così l’urgenza di certe tematiche”. E ha perfettamente ragione. Forse però valeva la pena di cercare una via di mezzo tra un fondale finto Watteau e i cantanti abbigliati come statuine di Capodimonte, e il goffo horror che ci viene proposto nel quarto atto di queste Nozze di Figaro.
C’è poi un problema di fondo: fare riferimento al #MeToo senza poterlo mettere in una prospettiva femminista rischia di trasformare tutto in generica indignazione abbastanza fine a se stessa. Graham Vick sa benissimo che il testo di Da Ponte non può essere forzato in chiave femminista: le alleanze tra donne del teatro buffo settecentesco erano essenzialmente uno spunto comico e il pubblico dell’epoca rideva nel vedere le donne unite nella difesa del loro “povero sesso” (sono parole di Marcellina) contro mariti cornuti e babbioni. L’idea che le donne un giorno avrebbero potuto unirsi per rovesciare lo status quo era lontanissima dalla cultura di Mozart e Da Ponte.
Ma anche il sovraccarico di denuncia, il credere che l’urgenza dei temi contemporanei non venga colta dal pubblico è un segno dei tempi che viviamo. Queste Nozze di Figaro, per altro meravigliosamente dirette da Stefano Montanari, finiscono per lasciarci frastornati, come quando nelle bolle dei social network rimaniamo assordati dall’eco della nostra stessa indignazione.
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