CIEL ha regalato un nuovo corpo agli esseri umani: siamo una schiera di statue bianco marmo. Ma non ci avviciniamo nemmeno lontanamente alla bellezza di quelle dell’antichità”

Il mondo descritto dal Libro di Joan di Lidia Yuknavitch (Einaudi, traduzione di Laura Noulian) è il nostro pianeta ormai rinsecchito, ridotto a una zolla di terra sterile e polverosa. Ma non tra cento anni: siamo in un terribilmente vicino 2049. Greta Thunberg, la giovane attivista ambientalista svedese che sta facendo scendere in piazza gli studenti di tutto il mondo, nella realtà parallela di questo romanzo avrebbe 46 anni.

Non è una bella età per una donna che vive su CIEL, la stazione orbitale su cui dimorano i più ricchi del pianeta in splendido isolamento. La vita in orbita, respirando aria riciclata e mangiando cibi clonati, ha rapidamente trasformato l’umanità in una specie pallida, glabra e asessuata: i genitali si sono rinsecchiti e riprodursi non sembra più possibile. Tanto che su CIEL si cerca di capire come usare le poche donne rimaste sulla terra come incubatrici viventi, un’idea che potrebbe non dispiacere agli organizzatori del Congresso mondiale delle famiglie di Verona.

La voce narrante del libro, Christine, ha 49 anni e sa che per la legge di CIEL dovrà morire presto. Siamo “angeli patetici”, dice Christine dei suoi simili, “La nostra identità sessuale mutò e degenerò prima ancora che potessimo dire cazzo!”. Non esiste più desiderio su CIEL, non c’è più sudore, non ci sono più secrezioni, né sessualità né amore. Ne sopravvive solo un vago ricordo a cui qualcuno si attacca disperatamente. La Terra viene depredata delle ultime risorse tramite cordoni ombelicali invisibili che portano quel poco che è rimasto di acqua e di minerali sulla stazione orbitale, lasciando i terrestri sopravvissuti a vivere come cavernicoli.

Il nostro pianeta è sessuato, pulsante e desiderante come lo siamo noi. Se muore moriamo anche noi

Il libro di Joan è un romanzo di fantascienza distopica con un’ambiziosa impalcatura teorica e letteraria. Man mano che i protagonisti si delineano ci si accorge che l’autrice ha voluto far rivivere nel suo nuovo apocalittico medioevo i personaggi di Giovanna d’Arco (la Joan del titolo), del poeta Jean de Meun, l’autore del Roman de la Rose (lo spietato dittatore di CIEL Jean de Men), e della scrittrice protofemminista del quattrocento Christine de Pizan (Christine, voce narrante di buona parte del libro).

L’approccio teorico che innerva la scrittura di Lidia Yuknavitch rende Il libro di Joan un po’ indigesto rispetto alle dettagliatissime ma sempre avvincenti distopie ambientaliste della Trilogia di MaddAddam di Margaret Atwood. Siamo lontani anche dalla scorrevolezza narrativa di Ursula Le Guin che riusciva a distillare i suoi interessi di antropologa e linguista in una scrittura fantascientifica immaginifica ma sempre perfettamente a fuoco.

Yuknavitch, con i suoi repentini cambi di registro, mette in moto una narrazione febbrile e ipertrofica che procede a singhiozzo. Momenti molto belli come l’infanzia di Joan che sente dentro di sé il canto della terra, si alternano a scene d’azione rocambolesche e confuse e a momenti splatter vagamente grotteschi tra supplizi ed efferatezze da Game of thrones.

Tutti gli sforzi di Yuknavitch sono tesi a corroborare la sua tesi: la terra è viva come lo sono i nostri corpi. Il nostro pianeta è sessuato, pulsante e desiderante come lo siamo noi. Se muore moriamo anche noi e ci rinsecchiamo come i tristi angeli di CIEL, che, per vincere la noia e l’accidia, hanno trasformato in poesia l’arte della scarnificazione e della modificazione del corpo. Christine si autoinfligge la tortura di scriversi sulla pelle la storia di Joan, l’ultima visionaria che si sentiva tutt’uno con il pianeta depredato e morente. Il suo è un atto di ribellione e di punizione autoerotica in cui il dolore della carne trafitta e bruciata sostituisce la ricerca di un piacere ormai impossibile.

Eppure una spinta al piacere o al ricordo del piacere esiste ancora su CIEL: la scena di Christine che cerca di masturbarsi nella cella in cui viene rinchiusa è sensuale e disperata allo stesso tempo. Toccarsi è inutile, Christine non sente nulla, ma la stilizzazione di quei gesti antichi diventa una specie di preghiera e un atto sovversivo. Il suo è un esibizionismo senza piacere che avviene sotto gli occhi di un’intelligenza artificiale di sorveglianza.

Anche Ursula Le Guin, nel suo romanzo La mano sinistra delle tenebre, aveva raccontato la vita erotica di creature asessuate e nella scena della masturbazione di Christine ho ritrovato un po’ di quell’inquietante erotismo. I due amori impossibili del romanzo, quello tra Joan e la sua compagna d’armi Leone e quello tra Christine e l’intellettuale ribelle e gay Trinculo, sono raccontati con urgenza e autentico trasporto e ci fanno capire che forse Il libro di Joan funziona meglio quando smette di teorizzare e si rivela al lettore come un disturbante romanzo erotico a chiave.

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