L’Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck – in scena al teatro dell’Opera di Roma con la direzione di Gianluca Capuano e la regia di Robert Carsen – è uno di quei rari spettacoli d’opera in cui si raggiunge quel delicatissimo e fuggevole equilibrio tra musica, canto e teatro. Nessun elemento in questo allestimento ha il sopravvento sull’altro: quest’Orfeo purissimo, senza distrazioni o rumori di fondo, ci dà il senso di cosa voglia dire ridare vita a un classico.
Quest’azione teatrale in tre atti (così la definiva il compositore quasi mettendo le mani avanti per distanziarsi dal canone dell’opera seria italiana) debuttò a Vienna il 5 ottobre 1762 in occasione dell’onomastico dell’imperatore Francesco I. Orfeo ed Euridice è la prima opera “riformata” del compositore tedesco, la sua prima opera che ricercasse, per sottrazione, un’idea di teatro musicale più pura e autentica, lontano dalle lungaggini e i capricci che si erano incrostati intorno all’opera italiana nel corso del settecento.
L’Orfeo di Vienna vede in scena solo tre personaggi e il coro, e si dipana compatto per circa un’ora e trenta minuti. Niente recitativi infiniti, niente arie chiuse col da capo per assecondare la vanità dei cantanti, niente gare tra soprani, trombe e clarinetti, niente astrusità o divinità olimpiche impennacchiate che calano dall’alto per risolvere una trama farraginosa. Al pubblico è richiesta attenzione e immedesimazione: non ci sono danze o intermezzi per mangiare, amoreggiare o giocare a carte, le attività che forse più premevano ai nobili frequentatori dei teatri europei di metà settecento.
L’Orfeo di Vienna è un punto di partenza: un modo nuovo di concepire l’opera
Con Gluck la musica e il teatro sono al servizio del dramma, non sono fuochi d’artificio per catturare l’attenzione volatile di un pubblico frivolo e viziato. Una decina d’anni dopo, a Parigi, Gluck sarebbe intervenuto sul suo Orfeo arricchendolo di danze per assecondare le regole del teatro francese, ma l’assunto di fondo della sua opera riformata rimane saldo: grazie a Gluck, e a Mozart che ne completa il lavoro in modo eccelso, l’opera lirica entra nella modernità.
L’Orfeo di Vienna è quindi un punto di partenza: un modo nuovo di concepire l’opera, la prima cellula di un organismo che nel tempo diventerà il grande melodramma ottocentesco. Il fatto che sia una delle poche opere del settecento, oltre a quelle di Mozart, a essere rimasta nei cartelloni dei teatri per due secoli e mezzo non aiuta chi si accinge a rimetterla in scena nel 2019. L’unico modo di affrontare oggi l’Orfeo è dargli spazio, farlo parlare a noi esattamente come parlò quella sera di ottobre del 1762 al pubblico di Vienna, che sicuramente non sapeva cosa aspettarsi.
L’allestimento di Carsen, apparentemente spoglio ma tutt’altro che povero, funziona proprio perché è speculare al lavoro che Capuano fa con la partitura di Gluck. Direttore d’orchestra e regista sono al servizio dell’azione teatrale di Gluck e lavorano per svelarne al pubblico l’equilibrata e sobria architettura. Carsen lavora su una scena senza tempo, come senza tempo è il mito di amore e morte raccontato da Orfeo. E Capuano s’impegna a farci ascoltare tutte le sfumature orchestrali di un lavoro che affidava alla musica, anziché allo sfarzo delle scenografie e al virtuosismo dei cantanti, il compito di dare pathos e colore all’azione.
E poi ci sono le tre voci dei protagonisti che si trovano a camminare su questo filo teso tra semplicità delle scene e ricchezza di colori orchestrali. La voce dell’Orfeo del 1762 era quella del castrato Gaetano Guadagni, famoso per il suo ricco registro di contralto. Nella maggior parte delle edizioni moderne si preferiscono voci femminili: l’Orfeo ed Euridice di Gluck è stato il cavallo di battaglia di grandi artiste da Fedora Barbieri ad Anne Sofie von Otter, passando per Marilyn Horne e Shirley Verrett. La scelta del contraltista Carlo Vistoli per questo Orfeo di Roma si è rivelata vincente. Vistoli è molto naturale in scena e la sua voce di contralto ha morbidezza e volume sorprendenti. Il suo Orfeo non spinge mai sul falsetto e non si sfarina nel registro centrale come capita spesso ai contraltisti, che finiscono per essere fagocitati dall’orchestra e dai grandi spazi dei teatri.
Eccezionale è anche la sua sintonia con la voce di soprano di Mariangela Sicilia (Euridice): nel drammatico duetto in cui Orfeo la trascina fuori dall’Ade per riportarla alla vita, le due voci che s’intrecciano sono una premonizione dei grandi duetti dell’opera seria rossiniana e belliniana.
È proprio l’italianità di questo Gluck che colpisce: molte edizioni moderne dell’Orfeo ed Euridice tendono, magari in omaggio a un’idea ingessata dell’estetica neoclassica, a essere un po’ troppo solenni. Troppo spesso abbiamo ascoltato un Orfeo che dispiegava il suo canto elegante e vellutato quasi in stato di sonnambulismo. L’Orfeo che abbiamo sentito e visto al teatro Costanzi è mobile, espressivo e passionale. A completare il cast vocale c’è l’eccellente Amore di Emőke Baráth, che in scena compare come uomo e come donna.
L’Amore di questo Orfeo è un deus senza machina che conduce per mano i due protagonisti verso un lieto fine galante e festoso, fortemente voluto da un imperatore che non voleva rattristarsi in un giorno di festa.
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