Zombie stanchi quanto l’occidente e i suoi (non) valori, quanto il suo immaginario. The dead don’t die, di Jim Jarmusch, ha aperto la 72ª edizione del festival di Cannes – che almeno sulla carta si annuncia tra i più stimolanti degli ultimi dieci anni – illustrando questo concetto in maniera interessante per alcuni aspetti ma senza convincere interamente.
È interessante l’idea di base di offrire la metafora dell’inerzia di fronte alla catastrofe rappresentata dal riscaldamento globale osservandola attraverso il prisma di una minuscola, sonnolenta, graziosa quanto leziosa cittadina statunitense dal nome anonimo, Centerville. E utilizzando gli zombie.
In questa cittadina apatica accade improvvisamente un fatto inaudito: due dipendenti dell’unico diner della cittadina vengono ritrovati morti, squartati al collo e allo stomaco.
Ben presto l’annoiato poliziotto della cittadina, l’attore Bill Murray, e i suoi due giovani aiutanti, interpretati da Adam Driver e Chloë Sevigny, si trovano a dover gestire una situazione allucinante mentre poco a poco gli abitanti sono trasformati in zombie. Altri strani fenomeni si verificano. La Luna è quasi onnipresente nel cielo, la luce del giorno è altalenante, può scendere la notte alle cinque del pomeriggio (siamo chiaramente nel periodo caldo), gli animali hanno strani comportamenti oppure semplicemente scompaiono.
Intanto a scuola vengono mostrati dei video che parlano di un possibile smottamento del pianeta Terra dal suo asse, mentre la radio e la televisione trasmettono le dichiarazioni del segretario all’energia dell’amministrazione Trump, secondo il quale ci sono dei presunti scienziati impegnati a lanciare dichiarazioni allarmistiche sul riscaldamento globale al solo scopo di colpire la crescita economica e il lavoro.
Tutti parlano della questione climatica, ma senza attivarsi o protestare. Fanno eccezione gli studenti che sembrano mostrare una certa reattività. Una sorta di apatia, di ignavia, al limite della lobotomia, sembra essersi impossessata degli abitanti di Centerville, che continuano a dare priorità alle loro occupazioni quotidiane, dall’allevamento degli animali agli oggetti vintage. Tutto è surreale e grottesco.
Simulacri postmoderni
Ma è un grottesco depotenziato, privato di forza. Volutamente. È dall’epoca gloriosa di La notte dei morti viventi (1968) di George Romero che il cinema degli zombie è stato usato come metafora politica o di analisi sociale.
Di capolavori assoluti, però, dopo Scream di Wes Craven (1996) non se ne sono più visti anche se qualche titolo buono o ottimo c’è stato, ultimo in ordine di tempo lo splendido Us di Jordan Peele, uscito in sala da poco. Anche se in fondo si tratta di zombie anomali. Anche qui, come dice Bill Murray, non c’è nulla della forza espressiva degli zombie di Romero e della sua feroce satira della società consumistica, perché ad abitare Centerville forse “sono sempre stati degli zombie”. La stessa resa dei trucchi è media. Ogni cosa pare qui risibile, fatua, senza forza. Tutto, sembra dire Jarmusch, è diventato un simulacro postomoderno svuotato di ogni energia umana, positiva e negativa.
Il riferimento al dittico di Kill Bill, (2003-2004) splendidamente rappresentato dalla sempre eccellente Tilda Swinton, è chiaramente un esempio del postmoderno che ha perso anche il senso dello stile. Lo stesso Murray, che Jarmusch aveva già diretto nel bel Broken flowers (2005) non è più fuori posto e fuori luogo, è semplicemente quasi fermo in quel luogo.
L’immaginario svuotato
L’apocalisse avviene perché abbiamo smarrito ogni senso di grandezza, intensità ed empatia nei rapporti con il mondo circostante. Metafora di una parte non piccola di una società anestetizzata o pronta, specularmente, ad allarmarsi per delle sciocchezze, qui l’immaginario, un tempo arma segreta della controcultura all’interno del sistema dei generi, sembra profondamente stanco, svuotato, macilento, e il volto di Bill Murray ne sembra la perfetta incarnazione. La controcultura è stata centrale negli Stati Uniti del secondo dopoguerra, e lo stesso Jarmusch, ne è stato autore fortemente significativo fin dagli anni ottanta, in ambito cinematografico.
Quindi il film è quasi un’amara autocritica, sembra chiedersi: “Ma siamo serviti a qualcosa?”. Se Adam Driver sembra già conoscere, come dice, lo script del film, si deve intendere che si tratta di uno script ineluttabile perché scontato. La prima parte sembra rimandare al precedente film di Jarmusch, Patterson, alla sua dimensione contemplativa quasi orientale, in una cittadina emblema della stasi perenne, anche per la presenza di Adam Driver. Ma come lì, il regista non sembra riuscire a far lievitare il nulla in qualcosa di potente, come invece aveva fatto grandemente in film come Dead man o Ghost dog-Il codice del samurai, e nemmeno raggiunge i livelli di Only lovers left alive, bel film di vampiri.
Al di là di alcuni momenti divertenti, ci sono delle alcune sequenze notevoli che, se non bastano a riscattare per intero il film, sono forse sufficienti per andare a vederlo, come quando l’auto della polizia è assediata dagli zombie, dando luogo a una sequenza onirica e insieme cinefila quasi al limite della videoinstallazione, o la sequenza fantascientifica che non anticipiamo.
Ma nell’insieme, il film, sfortunatamente, malgrado la diagnosi forse precisa, finisce per somigliare troppo all’oggetto della critica e non basta a compensare le insufficienze il grandioso cast, tra cui citiamo Danny Glover – l’attore nero sponsor di Bernie Sanders molto amato dagli operai per i suoi film della serie Arma letale – che interpreta qui un operaio molto umano, oltre a grandi icone del rock e della controcultura, come Iggy Pop e Tom Waits.
Comunque, come detto in apertura, il festival sembra promettere molto quest’anno sia in termini di grandi firme – Almodovar, d’imminente uscita in Italia, Quentin Tarantino, Terrence Malick, i fratelli Dardenne, Ken Loach, Abdellatif Kechiche, Xavier Dolan – sia nella varietà dei paesi di provenienza sia per un buon numero di registe, o per i temi, a volte scomodi. Staremo a vedere.
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