Di questi tempi in politica la nemesi può arrivare con una rapidità sconcertante. Il 26 ottobre 2017 il senato spagnolo aveva votato a schiacciante maggioranza l’applicazione dell’articolo 155 della costituzione, che autorizzava il governo di Mariano Rajoy a prendere il controllo della comunità autonoma della Catalogna per impedirne la secessione. Poche ore dopo il leader indipendentista Carles Puigdemont fuggiva dal paese lasciando Rajoy padrone del campo e apparentemente rafforzato, simbolo della stabilità e dell’unità nazionale desiderata dalla maggior parte degli spagnoli.
Sette mesi dopo, il 1 giugno 2018, il congresso dei deputati ha approvato per 180 voti a 169 la mozione di sfiducia contro il premier presentata dal Partito socialista. Rajoy, che aveva rifiutato ogni appello a dimettersi per evitare l’umiliazione, diventa così il primo presidente del governo nella storia di Spagna a essere sfiduciato dal parlamento.
Due giorni prima i partiti indipendentisti catalani erano riusciti a formare il nuovo governo della comunità autonoma, dopo mesi di tensioni seguite alla loro nuova affermazione di misura alle elezioni del dicembre 2017. Mentre Rajoy era costretto ad abbandonare la Moncloa, a Barcellona i suoi avversari riprendevano possesso del palazzo da cui li aveva cacciati.
A prima vista non è stata la più grave crisi istituzionale che la Spagna abbia vissuto dal ritorno della democrazia a costare la poltrona a Rajoy dopo sette anni al potere. La mozione di sfiducia era motivata dalla sentenza del processo Gürtel che ha condannato a 33 anni di prigione l’ex tesoriere del Partito popolare Luis Bárcenas, certificando l’enorme scandalo di corruzione emerso nel 2009 che ha fatto del Pp di Rajoy il partito con il maggior numero di condannati in Europa. Ma i socialisti e Podemos non avrebbero mai raggiunto i voti necessari senza il sostegno dei partiti indipendentisti catalani e delle altre forze autonomiste.
A segnare la sorte di Rajoy, che fino a due giorni fa sembrava certo di sopravvivere anche a questa sfiducia, dopo quella fallita un anno prima, è stata la decisione del Partito nazionalista basco di votare a favore. Una scelta motivata soprattutto dall’ombra di Ciudadanos. Il partito di centrodestra, che nello scontro con la Catalogna ha assunto posizioni ancora più intransigenti del Pp, aveva presentato un’altra mozione per andare subito alle elezioni, che avrebbe quasi sicuramente vinto. Un governo guidato da Ciudadanos avrebbe probabilmente cancellato le concessioni fatte da Rajoy ai Paesi Baschi e imposto una linea decisamente centralista a tutte le comunità autonome.
La questione delle autonomie sarà anche il principale tema che il nuovo premier Pedro Sánchez (in Spagna la mozione di sfiducia è in pratica una candidatura a sostituire il presidente del governo) dovrà affrontare. Il suo Partito socialista dispone solo di 84 deputati sui 180 della nuova maggioranza, che dipende dai voti degli indipendentisti catalani. Le sue prima mosse saranno probabilmente la revoca dell’articolo 155 e la ripresa del dialogo con Barcellona. Ma prima o poi questo dialogo toccherà la questione cruciale della possibilità di organizzare un referendum riconosciuto sull’indipendenza, sostenuta da Podemos ma finora considerata tabù dai socialisti.
La strada che attende Sánchez appare estremamente accidentata e in Spagna molte voci, tra cui El País, lo hanno invitato a convocare subito le elezioni invece di andare avanti con un “governo Frankenstein” fino alla fine della legislatura nel 2020. Ma una vittoria di Ciudadanos, appoggiato dai socialisti o da quel che resta del Pp, significherebbe quasi certamente un nuovo scontro istituzionale con la Catalogna. Sánchez spera di poter disinnescare le tensioni e proporsi come garante di un altro genere di stabilità. Oggi sembra una scommessa molto azzardata, ma fra altri sette mesi il panorama politico spagnolo potrebbe essere irriconoscibile.
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