Era il 1997, non mi ricordo bene il giorno né il mese. Ogni tanto Mtv Italia passava un videoclip strano, lungo più di sei minuti. Il protagonista era un ragazzino con un berretto viola. Girava a bordo di un taxi e attorno a lui succedevano solo cose grottesche: c’era un uomo grasso che faceva uscire dalla sua pancia la testa di un bambino, c’era una prostituta, c’erano dei funzionari europei in giacca e cravatta, c’erano delle sirene e un angelo che giocava a ping pong. Era il video di Paranoid android, il singolo di un gruppo chiamato Radiohead. Avevo dodici anni e non li avevo mai sentiti nominare.
Qualche anno dopo, come per tante persone della mia generazione, quella canzone, quel disco e quella band sarebbero diventate un punto di riferimento. Però lì per lì quel video non mi piaceva. E nemmeno la canzone. Del resto, mi succede ancora oggi: quando ascolto un nuovo disco dei Radiohead all’inizio rimango spiazzato, quasi deluso. Poi, quasi sempre, le cose cambiano.
Nel 1997 non ero pronto per quella musica: avevo ancora in camera le mie prime cassette di musica rock (Verve, Oasis) mescolate al classico pop da scuole medie (Spice Girls, Natalie Imbruglia e cose simili). Poi è passato un anno, più o meno. Leggevo tutte le settimane Musica!, il supplemento settimanale di Repubblica, e citavano di continuo questo disco di una band di Oxford. Dicevano che era uno dei migliori dischi rock dell’ultimo anno, forse del decennio. Mi sono incuriosito, sono andato da Biso – un negozio di La Spezia, la città dove sono nato – e ho comprato Ok computer. In quel disco c’era anche Paranoid android, la canzone del video strano con il ragazzino dal berretto viola.
Ci ho messo un po’ di tempo a capire quell’album, per mesi l’ho consumato senza sapere cosa cantava Thom Yorke, affascinato dalla sua voce, ma anche da quel suono che un po’ sembrava la musica che ascoltava mio padre ma era anche nuova, spiazzante, stimolante. Non ho neanche aperto il libretto per leggere i testi, da ragazzino non te ne frega niente delle parole. Ma ancora prima di andare oltre quelle prime impressioni, l’avevo capito: quel disco era importante. Ci sarebbe stato un prima e un dopo Ok computer.
In anticipo sui tempi
A distanza di anni, le cose sono più chiare. Quello è stato l’ultimo disco di un certo peso con le chitarre al centro (sì è vero, dopo ci sono i White Stripes, gli Arcade Fire e gli altri, ma non è la stessa cosa). Si era chiusa un’epoca. Gli stessi Radiohead l’avevano capito e infatti dopo hanno tirato fuori Kid A, aprendo la strada alla musica degli anni duemila.
Ok computer è un disco sull’alienazione. Come ha ammesso lo stesso Thom Yorke in una recente intervista a Rolling Stone: “La paranoia che provavo a quei tempi era legata al modo malato in cui le persone entravano in relazione tra di loro. Stavo usando la terminologia della tecnologia per esprimerlo. Tutto quello che scrivevo in realtà era un modo per mettermi in contatto con gli altri esseri umani”.
L’album è ricco di riferimenti al cinema di fantascienza e alla letteratura distopica (Stanley Kubrick, George Orwell), e ha portato nella musica rock il pensiero anticapitalista di Noam Chomsky ed Eric Hobsbawm (ci sono diverse canzoni più o meno politiche, anche se Electioneering è la più esplicita). Da lì a poco, poi, sarebbe uscito No logo di Naomi Klein.
Ok computer mette d’accordo il rock classico di Beatles e Pink Floyd con l’elettronica dei Kraftwerk e di Dj Shadow. Ci sono chitarre Rickenbacker, pianoforti elettrici, ma anche campionamenti e batterie elettroniche. Rende omaggio alla forma canzone tradizionale proprio nel momento in cui comincia a scavarle la fossa. È l’ultimo disco che, pur vendendo molto bene, è riuscito a rinnovare il rock, prima che gli Strokes e i loro fratelli lo riportassero nei musei trasformandolo in un genere di retroguardia.
Ok computer era in anticipo sui tempi. Per capirlo, basta ascoltare Palo Alto, una b-side di No surprises inserita anche nell’ep Airbag/How am I driving, nella quale Thom Yorke canta: “In a city of the future / it is difficult to concentrate / meet the boss, meet the wife / everybody’s happy / everyone is made for life”. In quella città poco tempo dopo sarebbero nati Google e Facebook. La nostra ansia da iperconnessione era già tutta lì, nella voce nervosa del cantante di Oxford.
Non si può risolvere Ok computer in così poche righe, bisognerebbe scriverci un libro. Per questo scelgo di parlare solo di quattro pezzi, che rappresentano bene le anime diverse del disco.
Airbag
Thom Yorke è terrorizzato dalle automobili. “Forse perché sono un ansioso”, dice lui. Questo spiega perché il disco si apre con un pezzo sulla sicurezza stradale. In realtà Airbag è molto di più: è una storia di morte e rinascita, ispirata al Libro tibetano del vivere e del morire di Sogyal Rinpoche. Il brano si apre con le pennate della chitarra di Jonny Greenwood e con la batteria di Phil Selway manipolata con dei loop, seguendo lo stile di Dj Shadow. Ecco perché tutto suona così meccanico, sospeso. Il modo in cui il basso di Colin Greenwood entra ed esce dal missaggio è incredibile. Yorke annuncia: “In un’esplosione interstellare sono tornato per salvare l’universo”. Airbag è il pezzo più innovativo di Ok computer e riassume cosa sarebbero stati i Radiohead da quel momento in poi.
Paranoid android
Questo è il vero capolavoro del disco. Averlo scelto come primo singolo è stato quasi sadico, da un punto di vista radiofonico, ma è la prova che i Radiohead sapevano di avere per le mani un pezzo fuori dal comune. Paranoid android è nata dalla fusione di tre brani che i Radiohead si sono divertiti a mettere insieme ispirandosi a Happiness is a warm gun dei Beatles. Il triste e paranoico protagonista è un’androide che fa venire in mente Marvin di Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams. Il testo, sempre in bilico tra ironia e tragedia, è ispirato a una serata passata da Thom Yorke a Los Angeles, quando il cantante si era trovato in un bar circondato da estranei strafatti di cocaina.
Il brano tocca vette di perfidia altissime quando l’androide si rivolge alla “kicking squealing Gucci little piggy” (piccolo maiale che scalcia e grida vestito di Gucci). Non si può non citare, oltre al catartico pezzo centrale della canzone (quello di “Rain down, rain down”), il doppio assolo di Jonny Greenwood, che domina la seconda parte. Il finale è secco, come se qualcuno avesse improvvisamente staccato la spina.
Let down
Questo pezzo fu registrato alle tre del mattino nella sala da ballo della St. Catherine’s court, un maniero di proprietà dell’attrice Jane Seymour nel Somerset. Qui fu registrato gran parte di Ok computer. A differenza del resto del gruppo, Jonny Greenwood suona un arpeggio in cinque quarti e questo spiega in parte l’atmosfera rarefatta. Per l’arrangiamento dobbiamo ringraziare anche Nigel Godrich, il produttore che da Ok computer in poi è diventato “il sesto Radiohead”. Let down è costruita su un lento crescendo musicale ed emotivo dall’impatto fortissimo. Il suo finale, quando Yorke ripete il verso “And one day / I am gonna grow wings / a chemical reaction / hysterical and useless”, è forse il momento più intenso dell’intero disco. Il climax vale anche per il testo: all’inizio Yorke è solo un osservatore esterno del disagio altrui (“Disappointed people clinging onto bottles”) ma piano piano, come ha fatto notare Mac Randall nel suo libro Exit music, è lo stesso cantante a essere travolto dall’alienazione, mentre si chiede se un giorno si trasformerà in un insetto, invocando una metamorfosi kafkiana. Le chitarre di Let down fanno pensare a un classico brano rock, ma c’è molta complessità in questi cinque minuti.
Exit music (For a film)
La metto per ultima, perché sarebbe stata perfetta per chiudere il disco. Exit music è uno di quei pezzi in cui la bravura dei Radiohead ti spaventa quasi. Il brano, scritto per la colonna sonora di Romeo+Juliet, descrive (a seconda delle interpretazioni) il suicidio o la fuga di una coppia di giovani amanti. Il pezzo comincia con la chitarra acustica e la voce di Yorke, piena di riverbero perché la parte vocale è stata registrata su una scalinata di pietra, alla quale si aggiunge lo spettrale mellotron suonato da Jonny Greenwood. I Radiohead sporcano la melodia con loop elettronici, fino a portare il pezzo all’esplosione finale, dove entrano la batteria e il basso distorto. Arrivati alla fine, quando il suicidio è compiuto e i due giovani si rivolgono ai genitori e dicono: “We hope that you choke” (speriamo che moriate soffocati) è difficile non sentirsi spossati, emotivamente scossi dalla bellezza della canzone.
Per i vent’anni di Ok computer ho fatto una playlist speciale. Oltre al disco intero (le prime dodici tracce) ci sono un po’ di b-side e, una volta uscita la ristampa, ci saranno anche i nuovi inediti. Riascoltare questa musica mi sembra il modo migliore per festeggiare.
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