U2, Lights of home
Agli U2 bisogna riconoscere una cosa: sono tenaci. Bono e compagni, nonostante il passare degli anni, non mollano di un centimetro e continuano a fare dischi con impressionante regolarità. Songs of experience, il gemello di quel Songs of innocence caricato a forza sui nostri iTunes nel 2014, è un disco sorprendente, per certi versi. È scarno negli arrangiamenti, con meno fanfare rispetto al solito, e a tratti suona come il frutto di qualche pomeriggio tra amici in sala prove. È anche il ritratto di una band fragile, come quando in Lights of home, il pezzo migliore, Bono canta “Shouldn’t be here ‘cause I should be dead”, alludendo ai suoi problemi di salute dell’anno scorso.

A Songs of experience però manca qualcosa a livello di scrittura, come a tutti i dischi della band irlandese da Pop a oggi (eccezion fatta per qualche guizzo nel discontinuo All that you can’t leave behind). Mancano, per esempio, i ritornelli memorabili. Molti pezzi cominciano in modo promettente, ma poi si perdono nel giro di pochi versi. L’esempio lampante è American soul, nel quale è ospite Kendrick Lamar. Anche se parliamo di due generi molto diversi, il confronto con XXX dello stesso Lamar, altro brano nato dalla collaborazione tra il rapper e la band irlandese, è impietoso.

L’impressione è che gli U2 stavolta abbiano cercato di fare un disco diretto e di scrollarsi di dosso un po’ di quella retorica buonista che ha sommerso la loro musica negli ultimi tempi. Il risultato però è poco convincente. Oltre a quello già citato, gli unici brani che risaltano un po’ sono The blackout, che sembra un lato b di Achtung baby, e l’iniziale Love is all we have left, una specie di strano omaggio a Bon Iver con tanto di autotune sulla voce di Bono.

Songs of experience è un disco sincero, ma avrebbe dovuto essere più coraggioso e, a conti fatti, più ispirato per poter stare accanto ai capitoli migliori dell’invidiabile discografia degli U2. Chi lo sa, magari il vero disco della maturità della band irlandese sarà il prossimo, o quello dopo ancora. Ammesso che arrivi.

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King Gizzard & The Lizard Wizard, Crumbing castle
A proposito di band tenaci, riecco i King Gizzard & The Lizard Wizard. Il gruppo australiano continua a pubblicare album a ritmi indiavolati: Polygondwanaland, il quarto dei cinque dischi (!) che la band farà uscire entro la fine del 2017, è stato messo online gratis sul sito dei King Gizzard, che hanno incoraggiato i fan a farne delle copie e a distribuirlo liberamente.

I pezzi di Polygondwanaland non sono particolarmente diversi da quelli del passato. Il gruppo, come al solito, è abile a creare una miscela di psichedelia, krautrock e hard rock. Il ritmo è un po’ meno forsennato e le atmosfere da sabba sono ancora più accentuate, come succede nell’ipnotica Crumbing castle, un pezzo ipnotico di dieci minuti che suona come se un gruppo metal decidesse di omaggiare i Genesis di Nursery cryme. Spero di avere abbastanza tempo per ascoltarmi con calma Polygondwanaland prima che esca il prossimo album.

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Cosmo, Turbo/Attraverso lo specchio
Per ripetere il successo dell’Ultima festa, sembra che Cosmo abbia deciso di giocare al rialzo: il suo nuovo album Cosmotronic, in uscita il 12 gennaio, sarà doppio. E il primo singolo, Turbo, è un pezzo coraggioso e surreale.

Lo spunto di Turbo, come ha raccontato lo stesso Cosmo, è stato il campionamento di un frammento di musica siriana, quasi come se fosse un omaggio in salsa italiana alla musica di Omar Souleyman. Il ritornello, con quella risata sguaiata, ti tira dentro che è un piacere e il testo è brillante (”Fate entrare quei pagliacci mentre chiamo un taxi”). L’altro pezzo, Attraverso lo specchio, spinge ancora più sul versante club, con una progressione quasi alla Ellen Allien. Viste le premesse, Cosmotronic si preannuncia molto interessante.

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Equiknoxx, Enter a raffle… win a falafel
C’è un’ironia contagiosa, nonostante la profondità dei suoni, nel nuovo disco del duo giamaicano Equiknoxx, formato da Gavin Blair e Jordan Chung, esponenti di spicco del dancehall arrivati al secondo disco in studio dopo aver collaborato in questi anni con diversi artisti giamaicani di spicco come Busy Signal e Aidonia. Nell’album, intitolato Colón man, ci sono pezzi con titoli assurdi come Enter a raffle… win a falafel (Gioca alla lotteria… vinci un falafel) e Your ears are not very small (Le tue orecchie non sono molto piccole).

Colón man è un disco quasi straniante per la quantità di influenze che butta in pasto alle orecchie dell’ascoltatore, mescolando i ritmi giamaicani con la house britannica e la 2step (non a caso il lavoro esce per l’etichetta inglese Dds). Una bella scoperta.

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Salmo, Perdonami
Sembra che Salmo abbia deciso di sfidare la nuova scena trap italiana, quella che va da Ghali a Sfera Ebbasta. Il nuovo singolo del rapper sardo, intitolato Perdonami, è costruito su una base trap prodotta dal giovanissimo (16 anni) e talentuoso Tha Supreme. Usa le stesse armi dei giovani colleghi, nei confronti dei quali Salmo è stato spesso molto critico, per rivolgerle contro di loro.

In Perdonami Salmo dice che gli altri rapper “si vestono male e cantano male”, critica di nuovo la società italiana dove “Chi accende le radio è un over 50, si pompa gli Stadio” e ha il suo solito gusto iconoclasta: il richiamo al concetto del perdono suona più che altro come un’appropriazione blasfema e fa pensare a pezzi come Russel Crowe. Salmo non è mai tenero. Ma è veramente bravo.

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