Che anno è stato il 2017, dal punto di vista musicale? Meno brillante rispetto al precedente, di sicuro. Nel 2016 sono usciti Blackstar di David Bowie, The life of Pablo di Kanye West e Skeleton tree di Nick Cave, giusto per citare tre dischi. Se pensiamo all’anno che sta per concludersi, solo Damn di Kendrick Lamar può reggere il confronto con album del genere.
Il 2017 è stato l’anno dei ritorni felici, a partire proprio da Lamar. Gli Lcd Soundsystem, di nuovo sulle scene dopo sette anni di silenzio, hanno pubblicato un disco di una bellezza sorprendente. Gli War On Drugs si sono confermati, Ryan Adams è tornato finalmente in forma. I Run The Jewels hanno fatto un disco all’altezza del loro esordio, i colombiani Meridian Brothers hanno dimostrato ancora una volta di essere tra i gruppi più interessanti dell’America Latina.
In Italia, il 2017 è stato un anno interessante. In cima al podio c’è Vida eterna dei Ninos du Brasil, un disco che non a caso è piaciuto molto anche all’estero, insieme a Uomo donna di Andrea Laszlo De Simone (la sorpresa del 2017) e ad Azulejos di Populous.
Avviso ai naviganti: questa è ovviamente una lista personale, se volete conoscere le scelte della redazione e dei collaboratori di Internazionale dovete comprare Playlist, il secondo numero di Internazionale extra in edicola dal 5 dicembre.
La mia classifica finale è divisa in due categorie: stranieri (dieci album) e italiani (cinque album). E poi, come piccolo bonus, ho segnalato due compilation. Per ogni titolo c’è un link, per chi ha problemi di orientamento. Ma qui sotto trovate anche una playlist di Spotify, con due canzoni per ogni disco citato. Ora basta preamboli. Ecco la lista.
Gli stranieri
1. Kendrick Lamar, Damn
In Damn Kendrick Lamar muore due volte, una all’inizio e una alla fine del disco, con due colpi di pistola. Nel primo brano, Blood, viene ucciso mentre parla con una donna cieca che ha incontrato per strada, come se si trattasse di una punizione per i suoi peccati. Nell’ultimo pezzo, Duckworth, che racconta una storia di violenza urbana ispirata ai ricordi del padre, immagina la sua morte durante uno scontro tra gang.
Ad aprile, quando è uscito, a molti Damn era sembrato un album più immediato rispetto al precedente To pimp a butterfly. Sotto la superficie invece c’era molto di più. In Damn Lamar si guarda allo specchio e ossessiona sé stesso e l’ascoltatore con i suoi demoni, sospeso tra orgoglio e depressione, tra arroganza e autocommiserazione. To pimp a butterfly era un disco più politico e universale, Damn è il suo gemello introspettivo.
Tra la prima e la seconda morte di Kendrick, l’album è ricco di vita: ci sono canzoni energiche (Dna, Element, Humble), altre più cupe (Pride, la splendida XXX, dove Lamar si mette in tasca gli U2) e perfino hit radiofoniche come Loyalty, in cui è ospite Rihanna. La costante è la sensazione di ascoltare un artista ispirato.
Kendrick Lamar è il più bravo rapper del mondo, in questo momento. Il suo hip hop è autentico ma sa parlare al grande pubblico (perlomeno all’estero, in Italia siamo indietro). Lamar fa musica colta e complessa, è uno straordinario narratore ma anche un ottimo performer. È ambizioso, ma non dimentica da dov’è venuto. Per questo è così credibile.
2. Lcd Soundsystem, American dream
American dream è una riflessione sulla fine delle cose: la gioventù, l’amicizia, l’amore e il sogno americano. La band di James Murphy è tornata dopo sette anni di silenzio, ma senza enfasi né voglia di festeggiare. L’album comincia con Oh baby, un brano lento e sommesso nel quale la voce sussurrata di Murphy evoca brutti sogni e porte aperte verso l’oscurità.
Tutta la prima parte del disco è immersa in queste atmosfere: il secondo pezzo, Other voices, ha una ritmica sostenuta alla Talking Heads ma conserva un’atmosfera cupa, mentre le chitarre di I used to sono tese e drammatiche. Poi, all’improvviso, il disco ha un guizzo che lo porta fuori dal buio con Tonite, un’ironica cavalcata disco punk in pieno stile Lcd Soundsystem. Con la ballata American dream, e soprattutto con l’omaggio a David Bowie di Black screen, si torna nell’ombra. Ma non basta descrivere le singole canzoni per dare l’idea di quanto sia ispirato il quarto lavoro di James Murphy e compagni.
3. The War on Drugs, A deeper understanding
A deeper understanding è un disco di rock classico, con tanti assoli di chitarra e un’atmosfera sospesa tra psichedelia e nostalgia. Bruce Springsteen avrebbe scritto volentieri almeno un paio di queste canzoni (Up all night, In chains), Tom Petty si sarebbe divertito a suonarne altre. La dolente Pain, che sembra un misto tra i Dire Straits e il Bob Dylan prodotto da Daniel Lanois del periodo di Oh mercy, è la canzone rock più bella uscita nel 2017.
A tre anni dall’ottimo Lost in the dream, gli War On Drugs hanno affinato la loro formula e sono diventati una band solida. Un gruppo in grado di illuderci che il rock abbia ancora qualcosa da dire, nonostante tutto. Non è poco.
4. The Heliocentrics, A world of masks
Gli Heliocentrics sono bravi perché ti confondono le idee: a tratti sembrano un gruppo jazz, altre volte una band funk, altre ancora un gruppo di rock psichedelico o trip hop. Tenere insieme questi generi in modo credibile non è semplice, ma loro ci riescono sempre con sorprendente abilità.
A world of masks è stato registrato con la nuova cantante Barbara Patkova ed è un nuovo viaggio tra i suoni del mondo. A tratti, come nella cavalcata finale The uncertainty principle, la musica degli Heliocentrics sconfina quasi nel krautrock. In altri casi, come in Made of the sun, sembra di riascoltare i viaggi cosmici di Sun Ra.
5. Run The Jewels, Run the Jewels 3
In questo caso baro. Questo disco è uscito in digitale il 24 dicembre del 2016, mentre la versione fisica è stata pubblicata il 13 gennaio 2017. Run the Jewels 3 è un altro saggio della bravura del duo statunitense formato da Killer Mike (grande amico di Bernie Sanders) ed El-P.
Il disco contiene uno dei pezzi di protesta più potenti che ho ascoltato quest’anno, Talk to me, nel quale i due rapper le cantano al governo statunitense trascinati da un beat martellante. Gli ospiti sono tanti e sempre al posto giusto: Danny Brown, Tunde Adebimpe dei Tv On The Radio, Kamasi Washington, Zack De La Rocha e altri.
6. Arca, Arca
Il venezuelano Alejandro Ghersi, in arte Arca, ha un forte impatto sulla musica contemporanea. Non solo sull’elettronica, ma anche sul pop. Ha prodotto il disco d’esordio di Fka Twigs ed è diventato il braccio destro di Björk.
Il terzo disco del musicista venezuelano, intitolato proprio Arca, è il suo lavoro più personale, una raccolta di ballate spettrali, in cui la voce melodrammatica di Arca è accompagnata da feedback dissonanti e sintetizzatori cupi. Affrontare questi brani non è sempre una passeggiata, ma la fatica viene ricompensata.
7. Jane Weaver, Modern Kosmology
Il nono disco solista di Jane Weaver (in passato nella band Kill Laura e protagonista del progetto Misty Dixon) affonda le sue radici nella tradizione psichedelica britannica degli anni sessanta e settanta. Ma non è un lavoro nostalgico, anzi. È coraggioso, vitale e ispirato.
L’album ha una compostezza e un rigore formale invidiabili, ma soprattutto un sacco di ottime canzoni: H>A>K, con il suo incedere krautrock, oppure Modern kosmology, un pezzo che sarebbe piaciuto a Syd Barrett. Ci sono anche momenti dove non è facile non commuoversi, come nel singolo Slow motion. L’outsider dell’anno.
8. Meridian Brothers, ¿Dónde estás maría?
I Meridian Brothers vengono da Bogotá, in Colombia. La loro musica dalle tinte psichedeliche attinge a diversi generi, dal folk al tropicalismo, dal jazz al vallenato. Guidata dal polistrumentista Eblis Alvarez, la band è attiva dalla fine degli anni novanta, quando ha cominciato a pubblicare i suoi brani in musicassetta.
¿Dónde estás maría? è uscito ad agosto per la Soundway Records, una delle case discografiche più interessanti per chi segue le musiche del mondo. Il primo singolo è questo brano sbilenco e affascinante, che piacerebbe ai Mutantes ma anche agli Animal Collective.
9. Ryan Adams, Prisoner
Ryan Adams è uno dei talenti più sottovalutati della musica statunitense. E Prisoner è il suo disco migliore degli ultimi anni, un omaggio al rock britannico e americano degli anni ottanta, quello degli Smiths, di Bruce Springsteen e dei Replacements di Paul Westerberg.
Ci sono melodie all’altezza del suo talento: per esempio quelle del singolo Do you still love me?, della malinconica Haunted house e del pezzo conclusivo We disappear, costruito su una tensione melodica che ricorda il miglior John Mellencamp.
10. Moses Sumney, Aromanticism
Il miglior esordio dell’anno. Moses Sumney è un cantante soul di Los Angeles con una voce fuori dal comune, un falsetto capace di costruire sfumature infinite. Il suo primo disco, Aromanticism, è una raccolta di canzoni soul minimaliste e cosmiche, dove le chitarre e gli archi giocano a nascondino.
Il pezzo più potente è Lonely world, un crescendo un po’ alla Jeff Buckley un po’ alla Nina Simone. Un talento da preservare.
Gli italiani
1. Ninos du Brasil, Vida eterna
Un lungo viaggio notturno tra allucinazioni e vampiri. Vida eterna dei Ninos du Brasil va ascoltato come un unico flusso, dall’inizio alla fine. Lo stile dei Ninos du Brasil non è cambiato radicalmente rispetto al passato, anche se Vida eterna accentua il loro lato techno e industrial. È come ballare di notte dentro una foresta, con uno sguardo rivolto al cielo e uno dietro alle spalle, perché da un momento all’altro dagli alberi potrebbe spuntare fuori qualsiasi cosa (un pezzo non a caso s’intitola Algo ou alguém entre as árvores).
Dopo una cavalcata a tutta la velocità, sul finale arriva il pezzo più complesso: Vagalumes piralampos è l’unico lento del disco ed è cantato da Arto Lindsay. Vida eterna rappresenta la maturazione definitiva dei Ninos du Brasil ed è l’ennesima dimostrazione che l’elettronica italiana è il nostro genere di punta.
2. Andrea Laszlo De Simone, Uomo donna
Uomo donna è un disco di pop psichedelico che omaggia il Lucio Battisti di Anima latina, il prog italiano, ma anche i Beatles del White album. De Simone sa scrivere, su questo non ci sono dubbi. Lui dice che ascolta pochi dischi. Io non gli credo neanche un po’, perché gli arrangiamenti delle canzoni sono troppo raffinati per essere stati scritti da una persona con scarsa cultura musicale.
A volte le atmosfere nostalgiche di Uomo donna sono un po’ forzate, ma quando componi pezzi come Vieni a salvarmi (che saccheggia abilmente Cry baby cry dei Beatles) e Che cosa, ti si perdona tutto.
3. Populous, Azulejos
Andrea Mangia, in arte Populous, ha registrato questo disco in Portogallo e ha mescolato la tradizione della cumbia e di altri ritmi latinoamericani con la sua elettronica. Il risultato è un disco sospeso tra poesia e sensualità, che fa venir voglia di ballare.
Quasi tutti i brani sono strumentali ed essenzialmente ritmici, ma anche quelli cantati, come Azul oro, arrivano al momento giusto. Azulejos è meno vario rispetto al precedente Night safari, ma forse proprio per questo suona più diretto e a fuoco.
4. Colapesce, Infedele
Una batteria elettronica e un sintetizzatore. Comincia così Infedele, il terzo album di Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce. E si capisce subito, fin dalle prime note del brano Pantalica, che questo è un disco spartiacque per la sua carriera. Come se il cantautore siciliano avesse voluto rivendicare la sua diversità rispetto al resto della musica alternativa italiana, allargando la geografia della sua musica.
Prodotto da Mario Conte e da Iosonouncane (la sua influenza, a tratti, si sente parecchi), Infedele conferma la qualità di Colapesce, uno degli autori di musica pop più preziosi che abbiamo in Italia. Brani come Vasco da Gama e Maometto a Milano lo dimostrano.
5. Clap! Clap!, A thousand skies
A thousand skies contiene più musica “suonata” rispetto a Tayi Bebba, il primo disco di Cristiano Crisci pubblicato come Clap! Clap!. Ci sono molti più ospiti (il cantante folk sudafricano Bongeziwe Mabandla, il duo berlinese OY, l’italiano HDADD e la band sudafricana John Wizards) e le strutture dei pezzi sono più complesse.
Ascoltandolo, si capisce che A thousand skies è stato una sfida, un disco dalla lavorazione lunga e complessa. Clap! Clap! ha superato la prova in modo brillante, grazie al lavoro e al suo talento.
Le compilation
1. Artisti vari, Diggin’ in the carts, a collection of pioneering Japanese video game music
La Hyperdub, casa discografica britannica fondata da Steve Goodman (ai più noto come Kode9), è un’etichetta straordinaria. Non ha solo pubblicato i dischi di Burial (recentemente celebrato da un articolo del critico Simon Reynolds), Mark Pritchard, DJ Rashad, Fatima al Qadiri e altri. Ma continua a proporre musica originale. Diggin’ in the carts è una compilation dedicata alle musiche dei videogiochi giapponesi degli anni ottanta nata in seguito a una serie di documentari della Red Bull music academy.
Nick Dwyer, uno dei curatori della compilation, in un’intervista al sito di The Wire ha fatto notare una cosa interessante: molte persone nate negli anni ottanta (io sono una di quelle) hanno ascoltato la prima musica elettronica della loro vita giocando con i prodotti della Namco o della Konami.
2. Going back to Cali: Cut Chemist’s Colombian crates remixed
Nei mesi scorsi il dj e produttore statunitense Cut Chemist ha fatto un viaggio in Colombia insieme al collettivo Beats of All-Nations. Ha girato un po’ per il paese e si è perso nei mercatini dell’usato di Cali (il cartello stavolta non c’entra niente), concentrandosi soprattutto sui dischi di cumbia. Ha riportato a casa un po’ di musica, che ha remixato insieme ai suoi compagni d’avventura, creando la compilation Going back to Cali, una raccolta di brani in equilibrio tra tradizione e modernità, tra America Latina e Stati Uniti.
Grazie a tutti i lettori. Buon Natale e buon anno nuovo!
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