Nella musica, come in altri campi, spesso si sottovaluta l’importanza del caso. Capita di inciampare in una buona idea. La bravura sta nell’accorgersene, nel saper tornare al punto in cui si era incespicati e ripartire da lì. Una melodia appena immaginata tre minuti prima può diventare una canzone tre minuti dopo.
Tanti dettagli alla base di Cosmotronic, il nuovo disco di Cosmo, sono frutto della casualità, dell’istinto a briglie sciolte, per stessa ammissione dell’autore. Forse è per questo che il disco suona così vitale e sincero, è un coraggioso esempio di pop elettronico del quale la musica italiana aveva bisogno.
Cosmotronic è un notevole passo avanti rispetto a Disordine e L’ultima festa, due ottimi dischi che però non erano ancora arrivati a questi livelli d’ispirazione e complessità. È un album doppio di quindici canzoni. È più melodico nella prima parte e più elettronico – quasi completamente strumentale – nella seconda. I pezzi migliori stanno in entrambe le metà: l’esotica Ivrea Bangkok, che apre il secondo disco, la surreale Tristan zarra, che mescola cantato, parlato e cassa dritta. Ma non sono da meno il singolo Turbo, costruito su un campionamento di musica siriana, e il flusso di coscienza di Bentornato, che apre le danze.
Cosmo, al secolo Marco Jacopo Bianchi, classe 1982, ha un profilo atipico, in un certo senso. Ha cominciato a vivere di musica da pochi anni, prima faceva il professore di storia alle superiori. Vive a Ivrea, che non è proprio la prima città che ti viene in mente quando pensi a un musicista di successo. Ma a lui piace, al punto che le ha dedicato il singolo Sei la mia città. È uno che cita tra le sue influenze i Boards of Canada, i Prodigy, ma anche Gigi D’Agostino.
Raggiunto al telefono mentre sta per partire da Roma, dove il 17 gennaio ha fatto un dj set alla Feltrinelli per presentare il disco, Cosmo è assonnato. Ha fatto tardi ascoltando musica, confessa, ma ha voglia di raccontare il suo ultimo lavoro.
Com’è nato Cosmotronic? Da dove sei partito per registrare questo disco doppio?
Avevo dei brani strumentali pronti, perché di solito parto sempre dalla produzione e poi lavoro alle parti vocali in un secondo momento. Ivrea Bangkok è stato uno dei primi pezzi su cui ho messo le mani. Sono partito dal campionamento di un disco tailandese trovato su un catalogo online dell’etichetta Sublime Frequencies, ma non trovavo una melodia vocale adatta. Così ho deciso che alcuni pezzi dovevano restare strumentali, mentre in altri la voce doveva essere più simile al parlato, con uno stile simile a quello dei vocalist in discoteca. Per questo alla fine ho diviso il disco in due parti, lasciando i brani più pop all’inizio. Molti sono pensati per funzionare soprattutto in pista.
Rispetto all’Ultima festa, Cosmotronic sembra più immerso in una specie di caos creativo. Quanto c’è di casuale e quanto d’intenzionale nella genesi di questi pezzi?
Semplice, tutte le idee assurde e stupide che mi sono venute le ho infilate nel disco. In questo album c’è il pezzo più strano che abbia mai registrato: Tristan zarra. È una canzone di sperimentazione e ricerca sonora, nella quale però mi travesto da pagliaccio. Ho scritto molti brani sotto l’effetto dell’erba, ma quando li risentivo da lucido mi piacevano. Il mio manager, Emiliano Colasanti, mi ha incoraggiato a lasciarmi andare, invece che frenarmi. E così sono nati anche pezzi come Benvenuto, che è frutto dell’improvvisazione totale.
La struttura di Benvenuto, che sul finale s’interrompe di colpo, è quasi spiazzante. Lo stesso discorso vale per singolo Turbo. Com’è nato questo brano?
Alcuni fan mi hanno scritto perché pensavano ci fosse un errore, invece mi piace quella chiusura brusca. Turbo è nata da un campionamento del pezzo Damascus between the lines, trovato in una compilation intitolata I remember Syria. Il brano è stato registrato in una chiesa di Damasco prima della guerra. Avere tra le mani un frammento di musica di un paese che in questo momento somiglia all’inferno mi ha ispirato a scrivere un testo surreale. Turbo è una canzone sulla distrazione, sulla negazione della dura realtà che ci circonda. Quella risata che arriva nel ritornello sommerge ogni discorso, ma è sinistra, non è allegra. Non tutti i miei fan l’hanno apprezzata, ma a volte per scrivere un bel pezzo pop bisogna scontentare qualcuno.
Perché molti ti considerano un musicista indie? Non pensi di fare semplicemente pop elettronico?
Massì dai, basta con questo discorso dell’indie. Gran parte della colpa è di voi giornalisti, dovreste smettere di usare questa etichetta. L’epoca del cosiddetto indie è finita, siamo tutti proiettati verso altri orizzonti. Pensare che qualcuno classifica come indie i Thegiornalisti…
Nella canzone La notte farà il resto canti: “Sono nato in un posto a caso, tutti lo siamo”. Come hai scritto il testo di questo brano?
È uno dei pezzi che ho composto in Valchiusella, quando mi sono isolato per una settimana in una casa presa in affitto per lavorare all’album. Dal bosco dove vivevo ho guardato tutta la vallata e ho visto Ivrea dall’alto. Non c’era alcun tipo di logica nel paesaggio naturale, e ho pensato alla mia storia come a un geroglifico incomprensibile.
Nel suo ultimo libro, Remixing, lo scrittore e dj Jace Clayton scrive: “Una canzone pop di tre minuti può fermare il tempo, ma un sample di tre secondi può evocare secoli di storia”. Questa frase sembra adatta alla tua musica, che è così sospesa tra pop ed elettronica…
In un certo senso sì. Ho cominciato a giocare con i campionamenti anni fa con i Drink to me, il mio ex gruppo, con un campionatore della Roland. I campionamenti mi ronzano in testa, mi perseguitano come i fantasmi. Sono brandelli di cultura e funzionano soprattutto quando vengono riproposti fuori dal loro contesto. Internet ha cancellato le distanze e ha reso ancora più facile per noi musicisti aver accesso a grandi archivi sonori, ma penso che non ci siamo ancora abituati a questa abbondanza di materiale culturale. Non abbiamo ancora gli strumenti epistemologici – volendo usare una parola un po’ da filosofo – per capirlo completamente.
Jace Clayton scrive anche che “Ballare è una forma di ascolto”. Tu insisti molto sul valore culturale del ballo, giusto?
È fondamentale. È una forma di ascolto con il corpo, di liberazione, che per me è molto importante. La musica che ci fa muovere è alla base delle società più antiche, è un rituale che vale tanto per l’Africa antica quanto per la cultura dei rave negli anni novanta.
A proposito di ballo, come sarà il tour di Cosmotronic?
Diverso da quelli precedenti. Il mio live sarà solo una parte della serata: farò il mio concerto, con i pezzi nuovi e quelli del secondo disco, e saranno i concerti più lunghi della mia carriera. Ma prima e dopo di me ci saranno dei dj che prenderanno il controllo della serata. Capiterà di cominciare alle nove mezza e di finire alle cinque di notte. Vorrei che le persone venissero ai miei concerti con lo spirito di farsi una serata, come a capodanno.
Com’è la vita del musicista a Ivrea?
A Ivrea si sta bene, è una città tranquilla. Sto con la mia famiglia, i miei figli. Ho sempre meno voglia di andare in giro. È un po’ un paesone, ma il suo provincialismo è anche un punto di forza. Non appartengo a nessun giro, a nessuna scena, sono libero. E quando finisco il tour in giro per l’Italia a Ivrea posso riposarmi, concentrarmi e vivere la mia creatività in modo sereno. Il fatto di abitare lì mi ha convinto a mettere in piedi Ivreatronic, un collettivo di dj e una casa discografica che organizza serate di musica elettronica in città. L’esperienza dell’Ivreatronic ha influenzato molto il mio nuovo album, ho testato diversi brani sul pubblico prima di registrarli. L’idea di mettere in piedi il progetto mi è venuta un giorno insieme ai miei amici. Ci siamo detti: “Facciamo qualcosa a Ivrea, tanto da qua mica ce ne andiamo”.
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