Travis Scott, Stargazing
A Houston, in Texas, fino a qualche anno fa c’era un parco divertimenti chiamato Six Flags Astroworld. L’hanno demolito nel 2005 per far posto a degli appartamenti. Su quelle montagne russe, tra i tanti, c’è passato anche un ragazzino nero chiamato Jacques Webster.
Oggi quel ragazzino ha 26 anni, si fa chiamare Travis Scott ed è uno dei nomi di punta della trap statunitense. Ha deciso di dedicare Astroworld, il suo nuovo disco, proprio a questo vecchio parco giochi, la cui chiusura, per lui e per tanti bambini, ha significato in un certo senso la fine dell’innocenza. E infatti c’è una certa malinconia che serpeggia tra le canzoni, nonostante le inevitabili spacconate da rapper di Scott e dei suoi numerosi ospiti (Drake, The Weeknd, Frank Ocean e perfino Stevie Wonder, ma l’elenco potrebbe andare avanti). Come se non bastasse, ad Astroworld ha lavorato una folta schiera di produttori, a partire dal texano Mike Dean.
Per capire l’atmosfera del disco, alla parola malinconia dobbiamo affiancarne un’altra: psichedelia. La trap di Scott ha da sempre questa cifra, che può sembrare un po’ strana se associata a un genere come la trap, ma è difficile definire diversamente il gusto del rapper per l’introspezione e le atmosfere dilatate. Scott inoltre ha un debito enorme nei confronti di Kanye West: sentitevi Carousel, dove nel ritornello compare la splendida voce di Frank Ocean. Sembra un pezzo di The life of Pablo.
Il lavoro enorme che c’è dietro a ogni canzone viene fuori ascolto dopo ascolto: Astroworld suona benissimo, dall’inizio alla fine. Soffre però del difetto cronico di tanti dischi recenti delle superstar del rap: è troppo lungo. Ma se si ha voglia di dedicargli un po’ di tempo (e di saltare qualche brano ogni tanto), si viene ricompensati. Per esempio Astrothunder, dove sono ospiti il chitarrista John Mayer e il bassista Thundercat, è uno dei momenti più intimi e riusciti dell’album. Discorso che vale anche per Houstonfornication, dove Scott riflette sulla sua dipendenza dalla droga, e Coffee bean, che parla della relazione con Kylie Jenner, star dei reality show statunitensi, e del figlio avuto da lei.
Se invece preferite i momenti da fuochi d’artificio, la prima parte è quella che fa per voi, con le trionfali Stargazing e Sicko mode, dove è ospite un Drake in forma smagliante. Un altro difetto del disco, a proposito di Drake, è quello che ha fatto notare la recensione di Pitchfork tradotta questa settimana su Internazionale: a volte il rapper di Houston non ha la personalità per stare dietro ai suoi ospiti e finisce per essere una comparsa nel suo stesso album.
Insomma, forse il merito non è tutto di Travis Scott, ma questo disco funziona a meraviglia. E nel mucchio c’è perfino Butterfly effect, il notevole singolo uscito mesi fa. A conti fatti, Astroworld è uno dei migliori album rap dell’anno, finora.
Moses Sumney, Rank & file
Il losangelino Moses Sumney, di solito abituato ad atmosfere intime ed eteree, s’è dato alla musica di protesta. Il suo nuovo brano Rank & file, contenuto nell’ep Black in deep red 2014, è ispirato alle proteste del 2014 per l’omicidio del nero Michael Brown a Ferguson, in Missouri, da parte di un poliziotto bianco. Musicalmente, il pezzo ricorda un po’ i Radiohead, sia nella ritmica sia nell’uso della voce un po’ alla Thom Yorke, anche se la tecnica del call and response nel ritornello viene dalla tradizione della musica nera.
Rank & file è chiaramente un brano minore, ma anche in questo caso Sumney, come già nello splendido album d’esordio Aromanticism, dimostra di essere di un altro livello. I saliscendi della sua voce, con quei falsetti, fanno venire la pelle d’oca.
Low, Disarray
Nel loro nuovo singolo Disarray (e pare anche nel resto del nuovo disco) i Low, di solito più vicini al rock, si sono spinti verso territori elettronici. Non è un caso che abbiano registrato il nuovo materiale insieme a B.J. Burton, produttore già al lavoro con James Blake e Sylvan Esso. I suoni che sentiamo in Disarray, in realtà, sono ottenuti in gran parte attraverso la manipolazione delle chitarre elettriche.
Se volete andarli a vedere dal vivo (ve li consiglio caldamente), suoneranno il 5 ottobre a Milano. L’album Double negative invece uscirà il 14 settembre.
Sharon Van Etten, New York I love you but you’re bringing me down
James Murphy è un genio, per tanti motivi. Questo pezzo, pubblicato nel 2007 nell’album Get innocuous, lo dimostra. New York I love you but you’re bringing me down (già il titolo è meraviglioso) è una ballata rock nello stile del Lou Reed di Transformer che niente ha a che vedere con il repertorio tipico degli Lcd Soundsystem, ma è perfetta per testo, arrangiamento e climax finale.
Sharon Van Etten, cantautrice di Brooklyn, l’ha reinterpretata in occasione di New York. Sound of a city, un concerto organizzato dalla Bbc alla Royal Albert Hall. E la canta con la passione che solo una donna del New Jersey trapiantata a Brooklyn può avere.
King Coya, E-chango
L’argentina continua a sfornare musica interessante, soprattutto nell’ambito della cosiddetta electro cumbia. Un nuovo nome da tener d’occhio (non è un esordiente, in realtà, ma io l’ho appena scoperto) è King Coya, al secolo Gaby Kerpel, nato e cresciuto in Argentina ma appassionato della tradizione colombiana e peruviana (in particolare del huayño, il folk della tradizione andina). Se nei mesi scorsi vi è piaciuto Chanca Via Circuito (segnalato da queste parti), apprezzerete anche King Coya.
P.S. Playlist aggiornata! Non c’è Sharon Van Etten perché il brano non è su Spotify. Buon ascolto!
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