Appena Vinicio Capossela sale sulla terrazza dell’hotel Locarno, dietro piazza del Popolo, fa una foto al panorama. C’è il sole e si vedono i tetti delle chiese di Roma, perfino di San Pietro. “Uno va in America e poi improvvisamente si ritrova qui. Non c’è niente da fare, Roma è un’altra cosa!”, dice dopo averla scattata.
Il cantautore, nato ad Hannover ma di origini irpine, è appena tornato da un viaggio negli Stati Uniti, dove ha fatto un breve tour di quattro date tra Washington, Detroit e Chicago. Porta un impermeabile blu e un cappello nero. È molto stanco, ha ancora addosso le scorie del jet lag. Ma, come al solito, è curioso di quello che lo circonda. Mentre parla, guarda i tetti di Roma come se li vedesse per la prima volta. Capossela è così, onnivoro. Riversa nella musica il suo approccio nomade all’esistenza: è sempre in movimento, ha sempre un libro in tasca e un’idea che gli frulla in testa. Dà l’impressione, anche quando ti ascolta, che stia rimuginando su qualcosa di altro, di lontano.
Capossela è nella capitale per promuovere il suo nuovo album, Ballate per uomini e bestie, in uscita il 17 maggio e registrato tra Milano, Roma, Montecanto (in Irpinia) e Sofia, dove ha suonato con l’Orchestra sinfonica della radio nazionale bulgara. Il disco è frutto di sette anni di lavoro e di collaborazioni con musicisti come Raffaele Tiseo, Teho Teardo, Massimo Zamboni (Cccp) e altri. Nel tentativo di spiegare la sua eterogeneità, il cantautore lo definisce “un parente alla lontana di Ovunque proteggi”. I brani di Ballate per uomini e bestie sono costruiti su grandi arrangiamenti orchestrali e hanno due protagonisti indiscussi: l’uomo, soprattutto nella prima parte, e l’animale, nella seconda. Sono pezzi d’ispirazione medievale (non a caso Capossela ha scelto la forma musicale della ballata) ma in un certo senso sono anche contemporanei e politici.
L’unico modo per sottrarsi alla dittatura dell’utile è rallentare il tempo
Prima di parlare del disco, però, viene spontaneo chiedere a Capossela del suo ultimo viaggio oltreoceano. “È stata una bellissima esperienza. Mi ha colpito Detroit: sembra il posto perfetto per un set di Jim Jarmusch, che infatti ha girato lì. Ci sono tutti questi meravigliosi edifici modernisti, che però sono un po’ abbandonati. Non c’è niente di più malinconico di un grattacielo lasciato solo. Si sente però che in città c’è stata tanta buona musica, a partire dalla Motown. E poi per la prima e unica volta nella mia vita sono riuscito a cantare Spaghetti a Detroit di Fred Bongusto”.
Per affrontare Ballate per uomini e bestie non si può non partire da Uro, il cupo brano che apre il disco. Capossela lo racconta così: “Qualche anno fa il compositore Teho Teardo mi mandò il suo disco Music for Wilder Mann, che aveva composto ispirandosi alle meravigliose foto di Charles Fréger. Fréger ha immortalato in giro per l’Europa uomini che indossano costumi tradizionali, che infrangono il confine tra uomo e animale e recuperano il rapporto originario con la natura. Il disco di Teardo mi colpì subito. Proprio in quel periodo stavo scrivendo Uro, un pezzo ispirato alle prime pitture rupestri nelle grotte di Lascaux. Quella è l’alba della nostra specie, quando l’uomo elabora per la prima volta una cultura e fa una cosa inutile eppure divina: disegna animali. Ho pensato che Teardo era la persona ideale per completarlo: sono entusiasta del risultato, alla fine sembra un pezzo suo dove ho cantato io”.
Uro non è l’unico brano al quale ha contribuito Teardo: “Con lui ho lavorato anche a quello che chiude il disco, La lumaca, un elogio della lentezza, un invito a uscire dalle logiche del lavoro. L’unico modo per sottrarsi alla dittatura dell’utile del resto è rallentare il tempo. Lo diceva anche Enzo Del Re in Lavorare con lentezza”.
Nel disco ci sono richiami evidenti alla crisi dei migranti (nel folk del Povero Cristo), all’odio che circola su internet (nel brano elettronico La peste, dedicato alla memoria di Tiziana Cantone, vittima di revenge porn, ma anche nel folk-punk Nuove tentazioni di sant’Antonio), al tema del carcere (nel riadattamento della Ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde).
“Questo, pur con molte allegorie, è un disco politico. Quando ho fatto ascoltare le canzoni al direttore d’orchestra Federico Maria Sardelli mi ha detto: ‘Qui c’è filosofia, poesia e denunzia’. Ogni episodio della contemporaneità fa comunque parte di una storia più ampia, quindi come al mio solito sono partito da lontano”, spiega il cantautore. “Mentre componevo i brani mi sono reso conto che, come in una novella di Boccaccio, stavo fuggendo da una specie di pestilenza e mi rifugiavo nel racconto. Nel racconto che ho creato c’è spazio per molte figure medievali: la danza macabra, i bestiari, il testamento del porco. Ma è un’allegoria per descrivere il presente. I brani che ho scritto più recentemente, come La peste, Nuove tentazioni di sant’Antonio e Il povero Cristo, parlano più esplicitamente dei mali di oggi”, aggiunge.
Il video di Povero Cristo, il primo singolo estratto, è stato girato a Riace. E anche questo è un atto politico, che Capossela rivendica: “Il pezzo racconta l’impossibilità dell’uomo di ricevere l’insegnamento della buona novella ‘Ama il prossimo tuo come te stesso’. Riace è un luogo dove si è cercato di mettere in pratica questo principio. Questo tentativo è stato negato. Se tu vai a Riace adesso non c’è più nessuno, niente”.
Nella seconda parte dell’album, come detto, sono asini, orsi, giraffe e maiali a prendersi la scena. Ma non è una sorpresa: Capossela ha da sempre un’ossessione per i bestiari. Basta pensare a brani del passato come Corvo torvo, o Brucia Troia, che hanno per protagonisti animali reali o mitologici. “Sono fissato con le bestie, è vero. Ma finora erano comparse, qui sono il soggetto. Nei Musicanti di Brema, ispirata alla favola dei fratelli Grimm, per esempio gli animali che fanno parte della civiltà contadina, l’asino, il cane, il gatto e il gallo, esaurito il ciclo di produzione, diventano un esubero, un esodato, e devono essere soppressi. Invece loro scappano e mettono insieme un gruppo musicale. Oppure c’è La giraffa di Imola, che racconta un vero fatto di cronaca: nel 2018 una giraffa è scappata da un circo e ha cominciato a vagare per la città come un freak, troppo piena di grazia per stare lì. Alla fine è stata abbattuta. Ho scritto la canzone dopo aver visto le foto in rete. Questa del resto è un’epoca davvero medievale, perché l’immagine, l’icona si è imposta di nuovo sulla parola e sul testo scritto”.
Capossela porterà in tour Ballate per uomini e bestie questa estate, con una serie di concerti speciali all’aperto, e poi di nuovo in autunno nei teatri. Ad agosto invece ci sarà la nuova edizione dello Sponz Fest (“probabilmente sarà l’ultima edizione, ma ancora non lo sappiamo”, commenta lui senza spiegarsi meglio), il festival che si tiene a Calitri, in Alta Irpinia, fondato e diretto dallo stesso cantautore. “Quest’anno s’intitola SottaTerra. Stiamo lavorando al programma e penso che inviteremo dei cantori polifonici georgiani. Vorrei portare anche del vino georgiano. Sono stato a Tbilisi qualche mese fa e ho scoperto un paese bellissimo. La capitale è una città che porta meravigliosamente la sua decadenza, è emozionante come l’Avana. Mi sono perso in vecchi caffè sbilenchi. È difficile tornare indietro quando ti senti così a casa”, spiega.
Tra i brani più toccanti del disco c’è Di città in città (…e porta l’orso), registrata a Sofia con l’orchestra di stato bulgara e ispirata al viaggio invernale di un orsante. “La figura dell’orso mi commuove molto”, dice sorridendo Capossela. “C’è una storia che mi diverto a raccontare: un giorno un mio cugino in Irpinia a scuola fece un compito in classe. Il tema era: L’animale più feroce. Lui scrisse: ‘L’animale più feroce secondo me è il lorso perché, per la Madonna, si freca tutto’. L’orso è un animale onnivoro e questo me lo rende particolarmente simpatico. Mi assomiglia, ha tutti i vizi in cui mi ritrovo”.
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