Da qualche anno a questa parte gli appassionati di musica non possono certo lamentarsi per la mancanza di concerti. L’offerta di eventi dal vivo è cresciuta molto, in Italia come nel resto del mondo, perlomeno dal punto di vista quantitativo. La scorsa estate nel nostro paese ci sono state rassegne di grande successo come il Rock in Roma (più di 200mila presenze) e il Firenze Rocks (circa 170mila presenze). C’è stata la conferma di realtà solide come il Kappa Futurfestival di Torino, festival di musica elettronica che ha fatto registrare 50mila presenze provenienti da cento paesi, ma anche eventi di nicchia (in gergo si chiamano boutique festival) come l’Ypsigrock in Sicilia, arrivato quest’anno con successo alla 23ª edizione con diecimila presenze.
Non tutti i festival e le rassegne però sono andati come speravano gli organizzatori. L’Home Venice Festival, che doveva riportare la musica internazionale al parco San Giuliano di Mestre, dove un tempo si teneva l’Heineken Jammin’ Festival, è stato costretto a togliere dal programma i nomi più importanti (Aphex Twin, Jon Hopkins e Pusha T e altri), ufficialmente “per motivi di sicurezza”. La decisione ha scatenato le proteste di alcuni spettatori che avevano comprato il biglietto proprio per vedere questi musicisti. L’evento, alla sua prima edizione e colpito anche dal maltempo, è riuscito comunque a far registrare 20mila presenze, una cifra probabilmente inferiore alle attese iniziali, e ha dato l’impressione di essere stato un’occasione persa.
C’è poi il Siren Festival di Vasto, in passato capace di portare in Abruzzo The National, Verdena, Mogwai e altri nomi di spessore. Questa estate non si è tenuto ed è in forse anche per l’anno prossimo. L’ultimo caso è quello del Todays Festival di Torino, una manifestazione finanziata dal comune che ci aveva abituato a un programma sempre ricco e interessante, e che è in dubbio per il 2020 dopo le dimissioni del direttore artistico, Gianluca Gozzi.
In un’intervista al Corriere di Torino, Gozzi ha spiegato così la sua decisione: “Siamo un paese dove con il massimo sforzo ottieni il minimo risultato: si punta alla sopravvivenza, senza progettualità e visione. E si chiamano festival quelli che festival non sono, ma rassegne di concerti. Gli sponsor lo sanno e non investono come all’estero, mentre gli artisti stranieri scelgono le tappe italiane per ultime, quando hanno già definito i loro tour: se arriva un’offerta migliore, ci saltano”.
L’Home Venice, il Siren e il Todays quindi sono casi isolati? Oppure sono il sintomo di una piccola crisi dell’industria della musica dal vivo? “In Italia c’è un problema culturale. Dopo che nel 2012 è finito l’Heineken Jammin’, i principali promoter nazionali hanno deciso di puntare sulle rassegne, una formula che permette di mettere tanti artisti importanti nello stesso programma e di attirare pubblici diversi, guadagnando molti più soldi”, spiega Giorgio Riccitelli, fondatore di Radar Concerti, un’agenzia indipendente di Roma che lavora con artisti come The xx, Nu Guinea, Fka Twigs e Grimes. Riccitelli, che in passato ha lavorato anche per la Live nation e Il circolo degli artisti, organizza anche festival come il Cinzella, in provincia di Taranto, e collabora con il Medimex, un festival finanziato dalla regione Puglia.
Commentando i risultati negativi di alcune manifestazioni estive, il promoter aggiunge: “L’Home Festival è stato un tentativo coraggioso di costruire un festival indipendente con un mix di nomi stranieri e italiani, ha venduto pochi biglietti. Anche altre realtà più piccole, come il Siren, hanno avuto problemi a sostenersi dal punto di vista economico. Il Todays invece è un caso diverso, visto che dipende dai finanziamenti pubblici. Gianluca Gozzi finora ha fatto un ottimo lavoro, ma evidentemente non c’erano più le condizioni per andare avanti”.
Un mercato poco attraente
Del resto convincere un artista a venire in Italia, sia nel caso di un festival sia nel caso di una data singola, è complicato perché il nostro mercato è meno appetibile a livello economico. “In estate è molto difficile farsi dare le date nel fine settimana, soprattutto a luglio, perché i promoter degli altri paesi propongono ai musicisti cifre quattro o cinque volte superiori alle nostre. Quindi l’unico modo per portare dei grossi nomi da noi è farli suonare durante la settimana nelle pause tra le altre date, in quello che in gergo si chiama il day off. Costa di meno, ma si tratta comunque di cifre importanti.Per avere i Franz Ferdinand al Cinzella li abbiamo fatti venire di martedì”, spiega Riccitelli.
In questo momento i musicisti più difficili da convincere tra gli stranieri sono i rapper. Il caso di Kendrick Lamar, che ha escluso l’Italia dal suo tour europeo nel 2018, è stato quello più clamoroso. “Ho ben presente il problema. Ho portato Kendrick Lamar ai Magazzini Generali di Milano nel 2013 e non ho neanche riempito il locale. Oggi per me non sarebbe fattibile, chiede un compenso venti volte più grande. Drake, per citare un altro rapper, di paganti ne farebbe, ma pretende cifre fuori dal mercato in Italia. Questa estate avevo chiuso l’accordo con A$AP Rocky per una data a Milano, che era andata sold out, ma poi è stato arrestato in Svezia e la sua vicenda è diventata un caso diplomatico. Abbiamo dovuto cancellare il concerto. Spero di riuscire a recuperarlo all’inizio del 2020, lui me l’ha promesso, ma a volte con i rapper ci sono delle variabili davvero imponderabili”, spiega Riccitelli.
Un’altra tendenza evidente di festival e rassegne è quella di inserire nel programma sempre più musicisti italiani. “Ogni promoter cerca di seguire i gusti del pubblico, è inevitabile. Il mercato italiano forse però esagera da questo punto di vista. Quando i festival diventano fotocopie l’uno dell’altro paradossalmente si rischia di vendere pochi biglietti, soprattutto nelle piccole città”, spiega Riccitelli.
Il cortocircuito sta arrivando, perché il marketing ha avuto la meglio sulla musica
Secondo il promoter però il problema non riguarda solo festival e rassegne, ma anche i tour dei singoli artisti. Nella musica dal vivo italiana, spiega Riccitelli, si è creata una specie di bolla, costruita su compensi troppo alti e sull’esigenza di fare tante, troppe date: “Spesso il meccanismo funziona così: per tenersi stretti certi artisti italiani, quelli che poi vanno a Sanremo e in televisione, i promoter devono garantirgli un certo numero di concerti pagati sempre di più rispetto a qualche anno fa. E queste date vanno fatte a prescindere, che vadano bene o vadano male. Il risultato finale dei biglietti venduti quasi non conta, è importante che il posto sembri pieno, anche quando non lo è. Il cortocircuito sta arrivando, perché il marketing ha avuto la meglio sulla musica. Alcuni miei colleghi continuano a mettere sotto contratto artisti italiani sperando che tra i dieci che prendono ci sia quello che fa i numeri importanti. Ma è una bolla, e sta già esplodendo, ce ne accorgeremo. Tanti tour non sono andati bene negli ultimi mesi. Se uno come Ligabue ammette che fa fatica a vendere i biglietti significa che qualcosa si sta rompendo”.
Quale può essere una soluzione al problema? Secondo Riccitelli tenere i cachet un po’ più bassi potrebbe essere un inizio. “Faccio un esempio: io ho i Nu Guinea, che assicurano ottimi numeri con un compenso tra i cinquemila e i diecimila euro a data, facendo dai mille ai duemila paganti per ogni concerto. Alla fine siamo tutti contenti: la band, io e i promoter locali. Ma non sono gli unici che funzionano, ovviamente. Alcuni artisti che non lavorano con me questa estate sono andati molto bene, anche grazie al fatto che hanno un cachet sostenibile: Franco126, Rancore, Fast Animals and Slow Kids, La Rappresentante di Lista e altri. Alcuni, invece, si sono fatti molto male. A volte i promoter si producono le date da soli, perché non si trovano più organizzatori locali disposti a pagare certi compensi. Questo sistema, prima o poi, forse già a partire dal 2020, subirà un contraccolpo. So per certo che molti festival che si sono tenuti quest’anno, in particolare quelli più piccoli, la prossima estate non si rifaranno perché hanno perso troppi soldi”.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it