Sta per scoppiare la pace nella penisola coreana? A giudicare dal ritmo e dal tenore degli annunci ufficiali degli ultimi giorni sembrerebbe di sì, ma la storia dei rapporti tra la Corea del Nord e il resto del mondo ci ha insegnato che lo scetticismo è d’obbligo.

Solo sei mesi fa la tensione tra gli Stati Uniti e Pyongyang era arrivata a livelli tali che un attacco militare da parte di uno dei due sembrava inevitabile. Ieri, invece, Donald Trump ha fatto sapere che incontrerà Kim Jong-un entro la fine di maggio per parlare di denuclearizzazione. La Casa Bianca ha poi aggiustato il tiro, specificando molte ore dopo che l’incontro ci sarà solo se Kim “farà passi concreti” per dimostrare il suo impegno. Non è certo la prima volta che Trump agisce di sua iniziativa senza consultare precedentemente i suoi consiglieri, costretti poi a correre ai ripari. Nel prossimo mese e mezzo potrebbe succedere tutto e il suo contrario, ma se davvero l’incontro si farà sarà un evento storico, indipendentemente dall’esito. Come siamo arrivati a questo punto? Cos’è successo nel frattempo?

Era la fine di agosto quando i due nemici storici, che oggi sembrano improvvisamente aver cambiato strategia (ammesso che una strategia ci sia mai stata), sono arrivati ai ferri corti: Pyongyang per mesi aveva continuato a testare i suoi missili; a giugno, dopo più di un anno di detenzione, aveva riconsegnato agli americani Otto Warmbier in coma, giusto in tempo per farlo morire tra le braccia dei genitori una settimana dopo il ritorno a casa; e nel frattempo le autorità nordcoreane avevano arrestato altri due cittadini statunitensi (tutt’ora detenuti in Corea del Nord). Poi, dopo mesi di silenzio, le cose sono precipitate.

Il disgelo
Nel suo discorso di capodanno Kim Jong-un ha lanciato un messaggio distensivo a Seoul, prospettando la partecipazione della Corea del Nord alle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, in Corea del Sud. Poco più di un mese dopo, alla cerimonia inaugurale dei Giochi gli atleti del Nord e del Sud sfilavano insieme sotto la bandiera della Corea unita e Kim Yo-yon, la sorella di Kim Jong-un inviata al sud per l’occasione, stringeva la mano sorridente a un Moon Jae-in (il presidente sudcoreano) raggiante davanti ai fotografi. Gli Stati Uniti, intanto, avevano accettato di rimandare a dopo le Paralimpiadi, che si chiuderanno il 18 marzo, le esercitazioni militari congiunte con Seoul, che i nordcoreani considerano provocazioni ostili a cui di solito rispondono con test missilistici.

Il clima disteso di Pyeongchang ha favorito un’inedita visita di due giorni, il 4 e il 5 marzo, in Corea del Nord da parte di una delegazione di Seoul. Inedita e particolarmente fruttuosa perché il 6 marzo gli inviati di Moon Jae-in sono rientrati portando con sé l’assenso di Kim Jong-un a incontrare Moon nel villaggio di Panmunjom, nella parte sud del confine, entro la fine di aprile. Considerando che è dal 2007 che i leader delle due Coree non s’incontrano, si tratta di un buon bottino. Inoltre Kim avrebbe accettato di sospendere i test nucleari e missilistici “finché sarà in corso il dialogo” e, dulcis in fundo, si è detto disponibile a incontrare Donald Trump. Dopo aver annunciato alla stampa di Seoul i progressi fatti, i delegati di Moon sono andati alla Casa Bianca a riferire i messaggi. Davanti a tale dimostrazione di apertura, Trump non ha voluto essere da meno e ieri ha annunciato che entro fine maggio incontrerà Kim.

Secondo Trump la linea dura di Washington nei confronti di Pyongyang ha pagato. E potrebbe non avere tutti i torti

È successo tutto così rapidamente e le incognite sono tali che è presto per dire se ci sarà un seguito a questi colpi di scena. Ma è in corso qualcosa di inedito e molto interessante e qualche osservazione, in attesa degli incontri di aprile e maggio, è bene farla.

Prima di tutto, a chi si deve tutto questo? Già in occasione dell’apertura delle Olimpiadi, Trump non aveva mancato di far notare che la linea dura di Washington nei confronti di Pyongyang – nuove sanzioni e minaccia militare – evidentemente ha pagato. E potrebbe non avere tutti i torti. È probabile che da un lato le sanzioni abbiano cominciato a pesare e dall’altro il carattere imprevedibile di Trump abbia reso credibile agli occhi dei nordcoreani l’eventualità di un attacco militare chirurgico degli Stati Uniti. Moon Jae-in il 6 marzo gliel’ha prontamente riconosciuto, in un gioco delle parti dove non è chiaro però chi abbia il merito maggiore. Il presidente sudcoreano, infatti, ha indubbiamente giocato un ruolo fondamentale.

E non si può dire che Moon abbia improvvisato: la mano tesa verso Pyongyang è stato uno dei punti cardine della sua campagna elettorale e la sua biografia (i genitori erano scappati dal nord durante la guerra di Corea), insieme al suo ruolo nel governo negli anni della Sunshine policy (la politica di distensione di Seoul verso Pyongyang, tra il 1998 e il 2008), non lascia dubbi sulla sua posizione e sul suo impegno in questo senso.

Chi ne trae il vantaggio maggiore?
Anche se, nel caso queste premesse dovessero portare a qualcosa di concreto, Trump potrebbe rivendicare un successo personale rispetto ai suoi predecessori, per ora chi ha già ottenuto qualcosa, almeno sulla carta, è Kim Jong-un. Uno degli obiettivi a cui Pyongyang ha sempre puntato senza successo è un dialogo alla pari con gli Stati Uniti. Non è la prima volta che i nordcoreani ci provano, ma finora nessun presidente americano gli aveva fatto una tale concessione, proprio perché consapevoli della sua portata. Adesso, però, hanno di fronte un interlocutore fuori dagli schemi, a digiuno di diplomazia e incurante del protocollo ma sedicente esperto nell’arte degli affari, autore di The art of the deal, buono a chiudere contratti vantaggiosi che accontentino entrambe le parti. Del resto, durante la campagna elettorale, Trump si era detto disponibile a sedersi con Kim davanti a un hamburger. Accettando di incontrare il leader nordcoreano, Trump gli riconosce automaticamente lo status di leader di fronte alla comunità internazionale. Uno a zero per Kim.

La Casa Bianca è pronta a negoziare?
L’annuncio dell’incontro storico tra Trump e Kim arriva in un momento in cui gli Stati Uniti sono a corto di personale diplomatico all’altezza della situazione: da quando Trump si è insediato e ha liquidato i rappresentati di Washington all’estero, non ha ancora nominato l’ambasciatore a Seoul. Il candidato più papabile, Victor Cha, è stato escluso a sorpresa poco prima della sua conferma, pare perché contrario a un eventuale attacco militare chirurgico contro Pyongyang. L’inviato speciale per la Corea del Nord, Joseph Yun, ha appena annunciato che andrà in pensione e il rappresentante di Washington per l’Asia orientale non è stato ancora confermato dal Senato. Data la difficoltà della sfida, per l’entourage di Trump la strada è in salita.

Ma cos’ha detto esattamente Kim Jong-un?
Stando a quanto riferito dalla delegazione sudcoreana che ha incontrato Kim Jong-un, il leader nordcoreano vuole discutere delle condizioni che assicurino “la pace e la sicurezza della penisola coreana” e dice di essere disposto a parlare di denuclearizzazione “se la sicurezza del suo paese sarà garantita”. Ecco, forse un primo scoglio potrebbe essere questo. C’è il rischio infatti che le due parti parlino due lingue diverse. Per “denuclearizzazione” Pyongyang ha sempre inteso l’eliminazione delle armi atomiche dalla penisola, incluse quindi quelle statunitensi.

La presenza militare americana dalla fine della guerra è l’elemento che finora ha minato la sicurezza della Corea del Nord. Dunque può darsi che per Kim Jong-un la condizione per la sua rinuncia al nucleare, l’unico strumento che finora gli ha garantito di rimanere in piedi, includa il tanto agognato trattato di pace (la guerra di Corea si chiuse con un armistizio, quindi le due Coree sono ancora tecnicamente in guerra, il che giustifica la massiccia presenza militare statunitense al sud) e la riduzione (o meglio, l’eliminazione) dei marines dalla penisola.

Uno scambio accettabile?
Quali sarebbero i termini di eventuali negoziati? Se davvero Kim Jong-un è disposto a rinunciare al programma nucleare su cui da quarant’anni Pyongyang investe buona parte del pil (dalla metà degli anni novanta il 25 per cento del prodotto interno lordo è destinato alle spese militari, che includono il programma nucleare), cosa chiederebbe in cambio? Probabilmente aiuti economici e la garanzia della propria sopravvivenza, quindi del mantenimento dello status quo nel suo paese, dove tiene sotto torchio 25 milioni di persone. In questo modo Kim avrebbe vinto, il nucleare è sempre servito solo a non soccombere (sia economicamente sia strategicamente). Ma per gli Stati Uniti, a parte la neutralizzazione della minaccia nucleare, sarebbe uno scambio accettabile?

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