Con Loveless si torna nella Russia spietata e inospitale di Andrej Zvjagincev, già teatro del meraviglioso Leviathan. In quel film si parlava di vicende allucinanti, dure e tristi in riva al mare di Barens, un posto assurdo, vuoto, ideale per mostrare piccole e grandi meschinità affondare nell’angoscia e nella vodka. Qui il panorama è diverso, ma non poi così tanto. In una sconfinata, gelida periferia di Mosca, il dodicenne Aleksej torna a casa da scuola, passando per una specie di boschetto, fermandosi a giocherellare lungo il percorso. A casa il clima non è meno gelido.
Dire che la madre Evgènija e il padre Boris non vanno d’accordo è un eufemismo. Stanno divorziando e nel loro rapporto sembrano esserci solo rabbia e risentimento. Di solito in questi casi quelli che ci vanno di mezzo, che soffrono di più, sono i bambini. E questo senz’altro vale anche nell’universo spietato in cui ci catapulta Zvjagincev. Senza dire altro della trama, il dramma che segue serve soprattutto a mostrare come può essere triste la vita senza amore. “Volemose bene” quindi, detto però da un regista che tra i suoi tratti distintivi ha realismo, semplicità e una certa reticenza a farci empatizzare con i suoi personaggi (nonostante un gruppo di attori magnifici).
In diversi momenti mi sono ritrovato a cercare in Loveless quella critica della società russa contemporanea che, volutamente o no, emergeva dai flutti di Leviathan. Non l’ho trovata. Ma forse è proprio l’assenza di ideologie, così come di ogni forma di sentimentalismo, a rendere Loveless (premio della giuria a Cannes) un film da vedere assolutamente.
Rimaniamo sulle famiglie. Alla fine degli anni cinquanta l’arrivo di una famiglia di neri getta lo scompiglio nella comunità di Suburbicon, sobborgo modello dove, come recita lo spot che apre il film, ci sono anche un centro commerciale, un dipartimento di polizia, una caserma di pompieri e un ospedale di ottimo livello. Il comitato cittadino si agita e comincia a organizzarsi per affrontare l’arrivo degli “alieni”. Nei primi minuti, finché non si entra nel vivo della vera vicenda, Suburbicon di George Clooney ci fa sperare. Ripartire dagli anni cinquanta per dire che l’integrazione è una specie di fiaba non sembra male. Fa pensare a Scappa.
Ma non è così. Entra in scena la famiglia Lodge (Matt Damon e Julianne Moore che interpreta due sorelle gemelle) e la storia prende un’altra piega, cupa e violenta. Il film è tratto da un vecchio soggetto dei fratelli Coen (che hanno collaborato anche alla sceneggiatura, insieme allo stesso Clooney e Grant Heslov) e si “limita” a raccontarci che la fiaba è proprio tutto il “sogno americano”. Che va anche bene. Ma ormai a quel sogno non ci crede più nessuno e gli stessi fratelli Coen sono andati ben oltre in altri loro film. Suburbicon, nonostante le buone intenzioni degli autori, sembra una variazione sul tema Fargo, senza quei dettagli e quei colpi di genio che fanno la differenza nel film originale e nelle varie serie tv derivate.
Si è parlato molto dell’Insulto del regista libanese Ziad Doueiri. Non tanto perché uno dei protagonisti, Kamel El Basha, ha vinto la Coppa Volpi all’ultima Mostra del cinema, quanto per l’arresto del regista al suo ritorno in Libano da Venezia. Come scrive Francesco Boille, L’insulto tocca un nervo scoperto della società libanese. Una banale lite tra un cristiano libanese e un rifugiato palestinese (rappresentanti di due comunità, che per una certa parte della propaganda libanese, convivono ormai in armonia) finisce in tribunale. È la prima volta che un film entra in un tribunale libanese e, ironia della sorte, anche il regista, dopo l’arresto è finito davanti a un tribunale (militare), accusato di collaborare con il nemico israeliano. Le accuse sono cadute, ma l’episodio ha avuto soprattutto l’effetto di far parlare del film in tutto il mondo. Probabilmente non era quello che aveva in mente chi voleva boicottare L’insulto che adesso è anche la proposta libanese per l’Oscar al miglior film straniero.
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