Il ministero della sanità mozambicano lo ha confermato: il 27 marzo a Beira sono stati registrati i primi casi di colera. “Il ciclone ha distrutto la rete idrica e le persone sono costrette a bere acqua da pozzi contaminati o addirittura l’acqua stagnante ai lati delle strade. Nelle strutture sanitarie supportate da Medici senza frontiere sono arrivati centinaia di pazienti colpiti da diarrea acquosa acuta in pochi giorni”, dice un comunicato stampa della ong.
A due settimane dal passaggio del ciclone Idai (che ha raggiunto anche lo Zimbabwe, mentre il Malawi è stato colpito da piogge torrenziali che hanno causato vaste alluvioni) i morti accertati in Mozambico sono 468, ma il bilancio finale sarà sicuramente più alto e impossibile da definire con esattezza: centinaia di persone sono disperse ma soprattutto non tutta la popolazione è registrata all’anagrafe. Per molti non sarà quindi neanche possibile rientrare ufficialmente nel numero delle vittime.
Il ciclone è arrivato nella notte tra il 14 e il 15 marzo: non era imprevisto, le autorità avevano avvisato la popolazione del pericolo imminente. Solo che avevano consigliato di restare in casa. Quando il vento a 230 chilometri orari ha cominciato a spazzare via tutto, le case non sono servite a niente. “La tempesta è durata venti ore: i motori dei condizionatori sono stati strappati via dai muri e scaraventati sui tetti delle case vicine, nessuna porta o finestra ha resistito alla violenza dell’uragano. Le lamiere dei tetti sono entrate come lame volanti nelle case, abbiamo usato i materassi come scudi per non essere colpiti da oggetti e vetri delle finestre. Gli animali domestici sono volati per aria e sono rimasti appesi sui rami o incastrati tra le macerie. Interi villaggi sono scomparsi insieme ai loro abitanti. Molti distretti sono totalmente isolati e si prevede che il numero delle vittime aumenti così come i rischi di malattie dovute alle decine di cadaveri che galleggiano nei fiumi Pungue e Buzi. Le piogge torrenziali non si fermano e se continueranno anche nei prossimi giorni i fiumi strariperanno ancora”, racconta Fabrizio Graglia, volontario dell’associazione Esmabama.
Le immagini satellitari dell’Agenzia spaziale europea mostrano l’entità dell’inondazione intorno a Beira. L’area interessata misura circa 2.165 chilometri quadrati e comprende alcuni dei distretti più densamente popolati del Mozambico. Le zone colpite più duramente sono state le pianure costiere, che si trovano tra gli altipiani e le montagne. In alcuni punti l’acqua che copre il terreno è arrivata a misurare sei metri di profondità.
Beira è – o piuttosto era, visto che secondo la Croce rossa è stata distrutta per il 90 per cento – una bella città affacciata sull’oceano Indiano, con mezzo milione di abitanti, un centro dall’aura portoghese e un traffico vivibile, niente a che vedere con altre grandi e caotiche città africane. La mattina presto e la sera i pescatori occupano la spiaggia con le loro barche e le reti tirate a mano a riva. Poi vendono il pesce direttamente sulla spiaggia, qualche volta agli angoli delle strade qualcuno vende dei grossi granchi o dei calamari. Molte chiese hanno le pareti traforate per far circolare l’aria, la sabbia copre gran parte delle strade della città e i ritmi sono quelli calmi di una città di mare. E poi c’è l’altra città quella più grande, fatta di caniço, cioè di canne. Povere capanne o baracche che alla periferia della città vanno dal mare fino all’entroterra.
Sono stata a Beira varie volte, alcuni anni fa, per sostenere i centri Dream della Comunità di sant’Egidio nati per curare le persone sieropositive, soprattutto donne incinte. Per raggiungere uno dei due centri attualmente attivi, quello di Manga Chingussura, alla periferia della città, si costeggiano il caniço e la mangueira, la foresta di manghi da cui ogni tanto sbucano gli abitanti delle casupole costruite sotto gli alberi, lasciando intendere l’esistenza di una vera città in cui addentrarsi: lì ho trovato il falegname che ha costruito gli scaffali del magazzino, le sedie e gli attaccapanni, il giardiniere che mi ha venduto l’acacia piantata nel cortile del centro per fare ombra ai pazienti in attesa, la sarta che ha cucito le tende. Una città fragilissima, che le foto di questi giorni fanno immaginare spazzata via.
La vita ricomincia
A Beira le acque si stanno ritirando, la città non è più isolata (a differenza di altri villaggi della regione, ancora sommersi) e gli aiuti cominciano ad arrivare, ma il pericolo più grande, ora, sono le epidemie di colera, malaria, tifo. E la mancanza di medicinali mette a rischio i numerosi malati sieropositivi o con malattie croniche che hanno bisogno di farmaci. I due ambulatori Dream hanno subito ripreso a lavorare: quello polifunzionale, al centro della città, oltre ad aver ospitato centinaia di persone nei giorni immediatamente successivi al ciclone, e ad averle sfamate e curate, ha distribuito olio, riso e farina, ed è stata riattivata immediatamente l’assistenza sanitaria ai pazienti . Il centro di Manga Chingussura, colpito solo in parte, è diventato un punto di riferimento per tutta la zona.
Forse non si può tracciare una linea retta tra i cambiamenti climatici (innescati principalmente dall’attività umana nel nord del pianeta) e i disastri ambientali come questo. Ma, come scrive Simon Allison sul Mail & Guardian “su un punto la scienza non ha dubbi, e cioè che in un mondo più caldo i cicloni saranno più pericolosi. Dato che prendono la loro energia dagli oceani, più questi diventano caldi più i cicloni saranno potenti. Con gli oceani più caldi e lo scioglimento delle calotte polari, inoltre, s’innalzerà il livello dei mari. Il Mozambico è un paese particolarmente vulnerabile perché si trova sull’oceano Indiano, le cui acque sono già calde, e ha una lunga fascia costiera. Tutte queste condizioni hanno reso Idai particolarmente letale. Il pianeta si riscalda e se i governi continueranno a non prendere sul serio il problema del cambiamento climatico, eventi devastanti come questo diventeranno la norma”.
La prevenzione è stata scarsa, le autorità locali forse non hanno saputo gestire l’emergenza, ma questo è il momento di guardare con senso di responsabilità il futuro del pianeta, anche di quella parte lontana dai nostri occhi.
Per aiutare
- La Comunità di sant’Egidio ha già inviato trenta tonnellate di generi di prima necessità: aiuti alimentari, materiale per la sanificazione dell’acqua e farmaci di prima necessità (antidiarroici e reidratanti per bambini). Per continuare ad aiutare vai su santegidio.org.
- Per sostenere la ricostruzione dell’ospedale di Medici senza frontiere (Msf) a Beira vai sul sito di Msf.
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