In un pomeriggio di ottobre a Panipat, in India, il cielo sta diventando sempre più scuro a causa del fumo, nonostante sia ancora giorno. Viene da un terreno abbandonato pieno di camion parcheggiati, dove sta bruciando una montagna di vestiti. Il fuoco arde per almeno mezz’ora prima che uno dei camionisti si avvicini per spegnerlo.

Panipat è una città industriale con una popolazione di circa seicentomila abitanti, situata 90 chilometri a nord della capitale New Delhi. È famosa per essere un centro di riciclo tessile, dove ogni anno sono importate e smaltite centomila tonnellate di vestiti da tutto il mondo. Per questo è chiamata la “capitale degli abiti usati”. Ma la catasta di indumenti abbandonati che abbiamo visto non sembra avere nessuna possibilità di essere riciclata. Il terreno, disseminato di ceneri di vestiti e stracci bruciati, sembra una discarica. Alcuni indumenti sono stati ricoperti di terra, mentre altri, rimasti sepolti per lungo tempo, si sono induriti al punto da sembrare delle pietre.

In una fossa profonda diversi metri, alcune mucche stanno masticando brandelli di tessuto. Un cane randagio è rannicchiato su un mucchio di vecchi abiti, che usa come rifugio. La capitale degli abiti usati sembra essere anche un cimitero per i vestiti.

“Ci sono molti altri posti come questo in città”, dice Rajvel, un camionista di 64 anni. Raccoglie vestiti usati dagli impianti di riciclo e dai negozi e li scarica nei terreni come questi. Ma ufficialmente non si tratta né di una discarica né di un inceneritore. Sulla mappa sono tutti indicati come parcheggi.

“I rifiuti tessili sono vestiti non più riutilizzabili o rimasti invenduti. Può capitare che qualcuno venga a prenderseli, ma il più delle volte sono bruciati”, racconta Rajvel. Poiché non si tratta ufficialmente di una discarica, le autorità la tengono d’occhio per cercare di scoprire chi la usa. “Per questo i rifiuti vengono portati qui e bruciati di notte. Le fabbriche inceneriscono i vestiti per ricavarne energia, mentre durante l’inverno gli abitanti del luogo li bruciano per riscaldarsi”.

Per documentare che abiti provenienti dalla Corea del Sud siano arrivati fino alla “capitale degli abiti usati” abbiamo piazzato dei dispositivi di tracciamento su vecchi capi d’abbigliamento, scarpe e borse. Seguendo il loro percorso, otto capi sono stati localizzati in India, di cui cinque a Panipat e uno in una località vicina. Secondo le statistiche della Korea international trade association, nel 2023 l’India è il paese verso cui la Corea del Sud ha esportato più indumenti usati: 84.220 tonnellate, pari al 27 per cento del totale.

I cinque capi di abbigliamento arrivati a Panipat sono dei maglioni, fatti soprattutto di acrilico, lana, rayon, poliestere e nylon. Se bruciati, rilasciano nell’aria anidride carbonica e sostanze tossiche. Dopo essere stati raccolti dalle aziende di esportazione di abiti usati in Corea del Sud, lasciano il porto di Incheon via nave, attraversano l’India occidentale per poi dirigersi a Panipat.

Prendiamo il caso di un maglione beige che abbiamo gettato in un contenitore per la raccolta di vestiti a Seoul ad agosto. Non è un capo di marca, era stato acquistato su un sito cinese low-cost. Meno di un mese dopo, il maglione è stato trasportato in un magazzino nella città di Hanam. Successivamente, da Incheon è arrivato nel porto di Klang, in Malaysia, dove è rimasto fermo per circa un mese. A novembre infine è arrivato a Panipat, in India, e dal 26 novembre 2024 ha cominciato a mandare segnali da una distanza inferiore a un chilometro dal luogo identificato come discarica. Altri due maglioni arrivati a Panipat si trovano a circa tre chilometri. Qui potranno essere riciclati, trasformati in filato oppure, se resteranno invenduti, finiranno in discarica o bruciati.

Panipat, considerata il più grande centro di riciclo tessile in Asia, riceve ogni giorno 250 tonnellate di vestiti di scarto da Corea del Sud, Cina, Giappone, America ed Europa. Gli abiti vengono acquistati grazie a contatti diretti tra gli esportatori coreani e gli importatori locali, oppure tramite intermediari, al costo di poche decine di won al chilo. Alcuni finiscono nei mercati dell’usato, ma la maggior parte è inviata agli impianti di riciclo.

Dipanshu, 24 anni, lavora nel commercio di abiti usati coreani a Panipat, e indicandone una pila ci spiega: “Quelli esportati dalla Corea del Sud entrano in India attraverso i porti del Gujarat, nell’India occidentale, vengono caricati su treni merci e portati a Panipat. A volte alcuni commercianti di altre città comprano qui i vestiti, quello che resta lo comprano gli impianti di riciclo”.

Ci sono centinaia di persone come Dipanshu che si guadagnano da vivere importando abiti usati dalla Corea. Qualcuno promuove la vendita su YouTube o Instagram. Questi capi d’abbigliamento vengono venduti in grandi balle a prezzi così bassi che è impossibile stabilire una cifra per ognuno. Gli abiti importati vengono suddivisi in tre categorie; quelli coreani rientrano nella categoria A, possono quindi essere venduti a un prezzo di circa 20 dollari per una balla da ottanta chili.

Una parte di quelli rimasti invenduti nei negozi di seconda mano va agli impianti di riciclo, dove comincia il processo di trasformazione. Una volta selezionati e divisi in base al colore sono inseriti in macchinari che li riducono in piccoli pezzi. Questi vengono sbiancati con prodotti chimici in modo che al tessuto rigenerato possano essere applicati altri colori. Poi vengono portati in una fabbrica per essere trasformati in filati.

Abbiamo visitato l’impianto di riciclo di Rakesh Gupta, dove gli stracci vengono lavorati e trasformati in filato, con cui vengono poi prodotti tappeti, tende e lenzuola. Naturalmente questi prodotti sono di qualità inferiore rispetto a quelli realizzati con tessuto nuovo, ed è difficile poterli riciclare: questo processo si chiama “downcycling”. Una volta terminato il loro ciclo di vita, sono smaltiti in discarica o inceneriti.

Su Google maps il luogo indicato dal localizzatore attaccato ai vestiti che avevamo gettato a Seoul risultava essere una fabbrica di carburanti. Ma quando siamo arrivati sul posto abbiamo trovato un grande magazzino di indumenti usati. Il proprietario, Gaurav Garg, 36 anni, ha affermato di essere un intermediario che importa vestiti dalla Corea del Sud per poi inviarli ai centri di riciclo. Nel magazzino alcuni lavoratori erano impegnati a smistarli in base al colore.

Dagli anni novanta il riciclo di abiti usati è diventato un’attività di punta per la città di Panipat, che oggi produce tessuti riciclati per un valore di 300 milioni di dollari all’anno. Si stima che in questo settore siano impiegate 70mila persone. Gupta ha avviato la sua attività nel 1982 e ha spiegato che con l’aumento della produzione mondiale di vestiti è cresciuto anche il settore del riciclo di Panipat: “Negli anni ottanta il 50 per cento della popolazione della città era impiegata nell’agricoltura, ma con la crescita del riciclo molte persone hanno iniziato a lavorare nell’industria tessile. All’inizio la mia famiglia aveva una sola fabbrica, ora ne abbiamo cinque”, ci ha detto Gupta.

Margini ridotti

Ma da qualche tempo il settore è in crisi, soprattutto a causa dell’aumento dei costi di importazione. “Se il prezzo dei vestiti usati in India aumenta, commercianti e consumatori non potranno più permetterseli”, spiega Garg. “Al momento il margine di guadagno è veramente esiguo”.

Anche il valore dei prodotti realizzati con filati riciclati è in calo, perché le aziende globali producono tessuti in grandi quantità a prezzi molto bassi. Secondo i mezzi d’informazione locali la quantità di filato riciclato prodotto a Panipat nella prima metà del 2023 si è dimezzata rispetto al 2022. Le aziende in difficoltà finiscono sempre più spesso per gettare gli abiti importati direttamente nelle discariche, con gravi effetti per la salute degli abitanti di Panipat. La qualità dell’aria sta peggiorando a causa dei roghi. La concentrazione di particolato fine (Pm2,5) a Panipat è più di dieci volte superiore ai limiti fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Nella classifica delle città con il più alto tasso d’inquinamento atmosferico, Panipat è al sessantesimo posto su 690.

Anche il riciclo degli abiti usati ha gravi conseguenze per la salute degli abitanti. Un rapporto del 2022 dello stato dell’Haryana ha rilevato che l’inquinamento dell’aria e dell’acqua causato dall’industria tessile è collegato all’aumento dei casi d’infarto e malattie polmonari. Un’indagine preliminare condotta sulle abitazioni situate in un raggio di cinque chilometri dal principale complesso industriale di Panipat ha rilevato che circa il 93 per cento delle famiglie ha sofferto di problemi di salute negli ultimi cinque anni.

Anche la qualità dell’acqua è notevolmente peggiorata. Secondo i mezzi d’informazione locali, a Panipat sono registrati circa 400 impianti tessili e di sbiancamento. Le acque reflue contenenti sostanze chimiche tossiche confluiscono nel fiume Yamuna da circa 88 punti differenti. In alcune zone della città le falde acquifere sono contaminate da nitrati, fluoro e metalli pesanti. Moltissime famiglie hanno problemi a reperire acqua potabile.

E le cose continuano a peggiorare. A Panipat l’indice del governo indiano che misura i livelli d’inquinamento è salito da 71,91 nel 2009 a 81,27 nel 2013 e a 83,54 nel 2018. Quando l’indice supera 70 una città è considerata gravemente inquinata. “L’industria della moda crea posti di lavoro”, dice Umay Tayagi, un attivista locale di 49 anni. “Ma questo avviene a scapito della nostra salute”.

Il governo centrale non è in grado di affrontare il problema. Anche se lo stato vieta l’incenerimento illegale e lo scarico di acque reflue delle fabbriche, i controlli sono limitati e l’azione delle autorità è insufficiente. “La gente sa che bruciare i tessuti è illegale”, ha detto Rajvel, il camionista che abbiamo incontrato alla discarica. Tuttavia, durante i tre giorni in cui abbiamo visitato il sito abbiamo sempre visto bruciare tessuti. Ogni giorno vengono commesse azioni illegali alla luce del sole.

A Panipat l’aria è costantemente pervasa dall’odore acre di qualcosa che brucia. È un incendio difficile da spegnere, perché è alimentato dalle enormi quantità di vestiti che gettiamo ogni giorno. ◆ mv

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Questo articolo è uscito sul numero 1603 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati