“Prima di entrare a far parte di questa occupazione, ho fatto il pendolare per un mese per frequentare l’università: mi svegliavo alle sei di mattina e tornavo a casa tardi la sera. Nel frattempo cercavo una stanza. Purtroppo se abiti fuori città la situazione è ingestibile: appena spunta un annuncio sui social network o sui siti immobiliari ci sono decine di persone che rispondono subito. È una guerra per accaparrarsi i pochi posti disponibili”.
Leopoldo, 19 anni, di Firenze, è una delle persone che al momento vive a Bologna a Casa vacante, occupata il 5 ottobre dal laboratorio universitario di autogestione Luna con il supporto dello sportello per il diritto all’abitare dell’Adl Cobas.
Lo stabile di via Capo di Lucca 22, in pieno centro storico, comprende otto appartamenti e due laboratori, per un totale di 650 metri quadri: è di proprietà dell’Azienda pubblica di servizi alla persona di Bologna (Asp), che l’ha messo in vendita nel piano di alienazione 2021-23 a un prezzo di 850mila euro. “Questa palazzina è vuota dal 2016, così come una sessantina di altri immobili di proprietà dell’Asp”, commenta Luca Tonini del laboratorio Luna. “La nostra occupazione vuole dare un segnale politico: servono soluzioni abitative concrete e immediate per chi oggi è senza casa. Impiegare il patrimonio pubblico inutilizzato o dismesso sarebbe un buon punto di partenza”.
La condizione degli studenti fuori sede iscritti all’università di Bologna è la cartina di tornasole di un problema più largo che riguarda la situazione alloggiativa, il costo delle case e la politica immobiliare delle istituzioni pubbliche.
A differenza di altri paesi europei, in Italia non esistono meccanismi di controllo del mercato privato degli affitti, che in molte città costano troppo. Del valore degli immobili, generato dagli stessi investimenti pubblici che fanno le città, si appropriano solo alcuni. Ma i costi, anche in termini di vivibilità di quartieri sempre più turistici, ricadono su tutti.
A Bologna la crisi abitativa va avanti da anni: la crescita degli affitti a breve termine e il costante aumento degli studenti fuori sede mettono pressione su un mercato immobiliare già saturo. Attualmente sono 3.895 gli annunci disponibili su Airbnb per un posto letto in città, più che raddoppiati negli ultimi cinque anni. Parallelamente, l’anno scorso l’università di Bologna ha superato i 90mila iscritti: di questi circa 68mila studiano a Bologna (gli altri seguono i corsi a Cesena, Forlì, Ravenna e Rimini), con un aumento del 5 per cento solo nell’ultimo anno. Più della metà viene da altre regioni. Da settembre, poi, l’ateneo ha optato per un ritorno totale in presenza di lezioni ed esami, abbandonando la didattica a distanza, e questo ha aumentato ulteriormente la domanda di alloggi.
“Finita l’emergenza covid avevo voglia di cambiare paese: Bologna mi sembrava una città accogliente e piena di opportunità, così mi sono trovata un lavoro come cameriera e mi sono trasferita”, racconta Manon, 30 anni, francese di Clermont-Ferrand, che da metà ottobre vive a Casa vacante. “Quando sono arrivata qui non avevo idea che fosse così difficile trovare una casa. Nell’ultimo mese ho risposto a più di trecento annunci: ho un contratto di lavoro in regola, ma non riesco a trovare neanche un posto letto. Nel frattempo, ho speso tutti i miei risparmi in hotel e Airbnb. C’è stato chi mi ha assicurato che avrei avuto la stanza e all’ultimo mi ha detto di no, chi mi ha chiesto di andare a vedere la casa con i soldi contanti già pronti, chi mi ha invitato per una visita e poi mi ha fatto delle avance. Ora sono stanca: sto pensando di tornare in Francia”.
Cresce il business degli studentati privati
Secondo i dati per il 2022 di SoloAffitti, a Bologna il prezzo medio per una camera singola è di 450 euro e di 325 euro per una doppia, contro una media italiana rispettivamente di 324 e 209 euro: nell’ultimo anno c’è stato un aumento del 29 per cento, il più alto d’Italia, che ha portato Bologna a essere seconda solo a Milano. Per protestare contro il caro affitti, dopo Casa vacante il 19 ottobre è stato occupato anche il Beyoo laude living, studentato di lusso nel quartiere della Bolognina, a pochi passi dalla stazione. Si tratta di un grattacielo di 16 piani con 513 posti letto e il cinema, la sala giochi, la palestra, la sala yoga e la lavanderia, di proprietà del colosso inglese Stonehill: qui gli studenti pagano dai 745 euro ai 995 euro al mese per un alloggio, più gli extra per alcuni servizi.
L’occupazione, portata avanti dagli studenti del Collettivo universitario autonomo (Cua), è avvenuta pochi giorni prima dell’inaugurazione della struttura ed è stata interrotta solo dopo aver raggiunto un accordo con la proprietà: l’impegno è quello di avviare un protocollo d’intesa con l’università e con l’Er.Go, l’agenzia regionale per il diritto allo studio, per destinare parte dell’immobile agli studenti in stato di necessità. Ma finora le parti non si sono incontrate.
Il Beyoo laude living non è l’unico studentato privato in città: ci sono The student hotel, poi rinominato The social hub, di proprietà olandese, e Camplus, uno dei principali gestori italiani di residenze universitarie, che a Bologna ha nove strutture per un totale di duemila posti letto e che da quest’anno mette a disposizione anche camere per brevi permanenze. Poche settimane fa, anche l’Asp ha annunciato la nascita di un nuovo studentato privato da 250 posti, che per il 30 per cento saranno ad accesso agevolato: già diverse cordate internazionali hanno presentato proposte per occuparsi della ristrutturazione e della gestione. E qualche giorno fa la società britannica Livensa living, che opera già in Spagna e Portogallo, ha fatto il suo ingresso in città dicendo che realizzerà entro il 2025 una nuova residenza universitaria privata vicino alla stazione, con 600 posti letto.
“Avere in una stessa città diversi studentati privati così cari comporta un innalzamento dei prezzi di mercato, che ormai sono talmente esorbitanti da obbligare le persone a fare sacrifici enormi per poter frequentare l’università”, spiega Federico Antibo del Cua. “Ci sono studenti che fanno contemporaneamente due o tre lavori, per permettersi di pagare una stanza”. Il 26 ottobre, dopo aver lasciato il Beyoo laude living, il Cua ha occupato un altro stabile di tre piani vicino a piazza Maggiore, casa Felicini Giovannini, una coproprietà tra l’università di Bologna e un privato: era stato messo all’asta ma non aveva trovato acquirenti, e così era abbandonato da anni.
“Si tratta di un edificio nobiliare del quattrocento, vincolato e dunque inutilizzabile per uno studentato: la legge 338/2000 pone criteri molto rigidi per l’edilizia pubblica studentesca”, spiega Federico Condello, prorettore agli studenti. “Per rispondere all’emergenza abitativa, il piano edilizio dell’università mira a realizzare in città tre nuovi studentati pubblici nei prossimi tre anni, per un totale di 572 posti letto. Quest’anno per la prima volta abbiamo stanziato anche 600 contributi di affitto per i fuorisede che non riescono a ottenere la borsa di studio: le domande si chiuderanno a dicembre, ma le richieste sono già molte di più”.
Il diritto allo studio non è sempre garantito
Anche chi ha diritto a un alloggio in uno studentato pubblico, del resto, non sempre lo ottiene, perché i posti sono limitati e ogni anno sono tante le persone che restano escluse. Nelle residenze gestite da Er.Go attualmente sono 1.673 i posti disponibili per gli studenti con un Isee inferiore ai 24.335 euro, a fronte di un numero di idonei in graduatoria mediamente di 2.800 persone all’anno, che in un terzo dei casi di solito rinunciano perché hanno scelto di studiare altrove o hanno trovato una sistemazione diversa. A chi risulta idoneo ma non assegnatario di alloggio, Er.go chiede di presentare un contratto di locazione e la dichiarazione di domicilio entro la metà di novembre per non perdere la borsa destinata ai fuori sede, che prevede un contributo più alto per coprire anche parte delle spese di affitto: una scadenza per molti troppo ravvicinata, poiché il tempo per trovare una stanza in media è di sette settimane, che diventano di più per chi ha minore disponibilità economica.
Quest’anno Er.Go ha stipulato un accordo decennale con la rete privata Camplus, che ha messo a disposizione 72 posti letto agli studenti in stato di necessità, incrementabili nei prossimi anni: per ognuno di essi l’azienda paga 245 euro al mese. “L’edilizia pubblica ha tempi geologici, ma la soluzione alla crisi abitativa non può arrivare dall’esternalizzazione dei servizi pubblici ai privati”, commenta Stefano Di Lorenzo, studente di italianistica e segretario di Sinistra universitaria Bologna. “Il comune e l’università stanno varando diverse misure a sostegno del welfare, che però vanno solo a tamponare una situazione di emergenza e non regolamentano il mercato degli affitti. Bisogna invece risolvere il problema alla radice”.
Il comune di Bologna ha stanziato 1,3 milioni di euro per erogare contributi ai proprietari per convincerli ad affittare le case non ai turisti ma agli studenti con contratti a canone concordato. Ma secondo Luca Dondi, amministratore delegato di Nomisma, la differenza da coprire sarebbe di settemila euro all’anno, quanto garantito in più dagli affitti brevi turistici rispetto a quelli ordinari.
Ma il tema dell’emergenza abitativa non riguarda solo gli studenti.
Durante la pandemia la domanda di acquisto di case ha toccato un “livello record”, sostiene la società di consulenza Nomisma. Questo ha fatto alzare i prezzi: del 2 per cento al livello nazionale, del 3,8 per cento a Bologna nell’ultimo anno. Se per chi già possiede una casa questa è una buona notizia, non lo è per tutti gli altri e in particolare per i soggetti a basso reddito, perché la spesa per gli affitti aumenta e produce un ulteriore trasferimento di ricchezza dagli abitanti più poveri ai proprietari di abitazioni. Per questo, senza politiche pubbliche per regolarlo, il mercato immobiliare aumenta le disuguaglianze. Oggi, dopo trent’anni di privatizzazione di patrimoni e terreni pubblici, i comuni si trovano senza strumenti per affrontare una nuova questione abitativa.
Se gli affitti aumentano, i salari sono fermi. Tra il 1996 e il 2010 i prezzi degli immobili sono aumentati del 63 per cento, secondo il Cresme; dopo il 2008 erano scesi, e sono tornati a crescere dal 2013. Ma i salari, negli ultimi trent’anni, sono diminuiti.
Secondo l’Inps nel 2021 quasi un lavoratore su tre guadagnava meno di mille euro al mese e il 23 per cento dei lavoratori viveva con meno di 780 euro al mese. “Da una parte, per chi vuole comprare sarà sempre più difficile ottenere il credito dalle banche, anche per via dell’inflazione e dell’attuale congiuntura economica”, ha spiegato Dondi al convegno Why Emilia organizzato dall’Associazione nazionale costruttori edili (Ance) dell’Emilia-Romagna, che si è tenuto a Bologna il 20 ottobre. “Ma il problema dell’accessibilità al mercato è evidente soprattutto dal punto di vista degli affitti. C’è un’emergenza di cui ci accorgiamo ciclicamente”. Secondo Nomisma a Bologna manca un’offerta di case in affitto a prezzi accessibili, a 600 euro al mese, per oltre 14mila famiglie.
La rigenerazione che non c’è
“Pensavamo che di offerta ne sarebbe arrivata tanta dalla rigenerazione urbana, ma molte delle nostre previsioni sulla nuova produzione di alloggi sono rimaste inattuate”, spiega Dondi. A Bologna, diverse aree attendono progetti di rigenerazione urbana annunciati ma mai partiti. Dondi è impietoso nel tirare le somme: “La rigenerazione urbana è una scommessa persa. Doveva essere un pilastro della nuova offerta, ma non si è concretizzata. Bisogna capire i motivi per cui non è stata fatta. Il costo sociale dell’inazione non possiamo più permettercelo”.
Il calo demografico e lo spreco edilizio (sarebbero sette milioni le case vuote in Italia secondo l’Istat), insieme alla necessità di fermare il consumo del suolo, fanno della rigenerazione urbana, ovvero del riuso con nuove funzioni di aree già edificate, il pilastro delle politiche urbanistiche. Il problema a Bologna è il costo altissimo delle aree da rigenerare, ha spiegato al convegno di Ance l’assessore all’urbanistica Raffaele Laudani. Il paradosso è che queste aree sono pubbliche. “Oggi prevale sulle aree dismesse una logica di tipo puramente finanziario e di equilibrio di bilancio delle società pubbliche, che sono più interessate a tenere alti i valori delle aree che alla trasformazione vera e propria”, ha spiegato Laudani.
A incidere sul prezzo finale delle case non è il costo di costruzione, ma il valore del suolo. È questa la radice del problema. Secondo uno studio della Banca d’Italia, oltre due terzi dell’aumento del prezzo delle case avvenuto tra il 1950 e il 2012 in Italia è attribuibile alla variazione del prezzo dei terreni edificabili. A Milano, per esempio, l’incidenza percentuale del prezzo del suolo sul costo di una abitazione economico-popolare era passata in soli dieci anni, dal 1950 al 1960, dal 17,4 al 46,1 per cento.
Oggi il suolo nelle aree più centrali costa troppo per rendere economicamente sostenibile la costruzione di case per studenti e per il ceto medio-basso. “Gli obiettivi di inclusione sociale diventano impossibili”, ha detto Laudani. Gli unici investimenti sufficientemente remunerativi sembrerebbero quelli per studentati di lusso. Secondo il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, intervenuto al convegno in collegamento, le principali città italiane, escluse forse Milano e Roma, non hanno la capacità finanziaria per rigenerare le aree oggi inutilizzate, per questo lo stato dovrebbe cederle gratuitamente ai comuni.
Il comune di Bologna ha perso l’occasione offerta dal provvedimento di cosiddetto federalismo demaniale approvato dal governo nel 2010 per il trasferimento gratuito di aree del demanio statale, come le ex caserme, agli enti territoriali. Bologna ha scelto un’altra strada, quella della valorizzazione e vendita di beni, che non c’è stata. Così oggi le uniche operazioni di rigenerazione in atto sono quelle finanziate con investimenti pubblici straordinari e una spesa considerevole, da parte del comune, per l’acquisto delle aree edificabili.
“Bologna sconta l’assenza di soluzioni abitative che andavano trovate prima”, ha detto Dondi a L’Essenziale. Adesso non si può più aspettare la rigenerazione urbana. “Bisogna sbloccare la produzione di case”. Quindi tornare a costruire, e consumare suolo. Anche il sindaco ha detto che il comune intende “aprire” il piano urbanistico a questo scopo. Secondo Dondi si potrebbero usare altre aree di proprietà comunale per abbattere i costi delle case, mantenendo pubblica la proprietà del suolo.
La nuova questione abitativa che investe le città mostra quanto siano necessari strumenti, risorse e suoli pubblici. Strumenti che vanno ricostruiti dopo decenni di smantellamento delle politiche abitative pubbliche e di piani di vendita del patrimonio che non hanno neanche raggiunto l’obiettivo dichiarato, quello di fare cassa e ridurre l’indebitamento statale, come ha ricordato la Corte dei conti.
A Bologna una delibera di iniziativa popolare, presentata al comune a giugno dalla rete D(i)ritti alla città, chiede la restituzione alla collettività di oltre cinquecento beni immobili dismessi, di cui quasi duecento pubblici. Secondo il regolamento comunale le proposte di delibera accolte, sostenute da almeno duemila firme di cittadini e cittadine, vanno presentate in consiglio, discusse entro 90 giorni, e sottoposte al voto. Ma la segreteria generale del comune ha bocciato la delibera, bloccandola. Secondo D(i)ritti alla città si tratta di “una restrizione arbitraria dei diritti di partecipazione”. “Non si può impedire con una censura burocratica che il consiglio comunale abbia la possibilità di discutere e deliberare su una proposta della cittadinanza così importante”, scrive la rete che, assicura, non si fermerà.
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