In dieci anni Valerio Bispuri ha visitato 74 carceri sudamericane, maschili e femminili, in Ecuador, Perù, Bolivia, Argentina, Cile, Uruguay, Brasile, Colombia e Venezuela.

Bispuri racconta il carcere come uno specchio della società in cui si trova, ma anche come una comunità, un luogo con ritmi e spazi precisi. In prigione le regole sono le stesse di fuori: chi ha più soldi gestisce i traffici, chi ha più potere comanda. A volte si formano bande in lotta tra loro, ma nel quotidiano ci sono anche momenti di pausa dove si gioca a pallone, si scherza, le donne si truccano come per uscire.

I detenuti hanno cercato di ricostruire le proprie abitudini in condizioni spesso estremamente difficili, soprattutto a causa del sovraffollamento, della violenza, della presenza di droga e di una pericolosa gestione del potere all’interno del carcere.

In Brasile, per esempio, per poter fare entrare il fotografo, il direttore del penitenziario ha dovuto chiedere l’autorizzazione a un gruppo di detenuti che controlla completamente il carcere.

In Venezuela, la parete di una prigione era crivellata di proiettili e le guardie hanno spiegato che i fori erano stati fatti dai detenuti che sparavano per festeggiare uno di loro che usciva. Altri mostravano con aria di sfida i coltelli: chi non era armato diventava una sorta di schiavo.

Nella Penitenceria di Santiago, in Cile, nell’ora d’aria i detenuti esasperati dal sovraffollamento e dalla condivisione di un solo bagno per oltre cinquanta persone, scaricavano la rabbia ingaggiando dei veri e propri duelli con delle enormi spade ricavate dai vecchi tubi della struttura.

Alcuni detenuti hanno considerato Bispuri come una possibilità di raccontarsi o semplicemente un diversivo, altri l’hanno visto con invidia, altri ancora con disprezzo. Ma ogni carcere, spiega il fotografo, è stato un modo per raccontare un continente.

Ora il progetto prova a diventare un libro grazie al crowfunding.

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