In Italia si contano 5.592 cave attive e 16.045 dismesse, ma se si aggiungono anche le cave abbandonate della Calabria e del Friuli-Venezia Giulia, che non sono monitorate, si arriverebbe quasi a 17mila.

L’ultima legge nazionale sull’attività estrattiva è stata promulgata da re Vittorio Emanuele III nel 1927, e in molte aree la situazione sembra ancora ferma a cinquant’anni fa. Spesso mancano regole di base che pianifichino e controllino le operazioni, vecchie cave sono diventate discariche, mentre i canoni di estrazione sono insignificanti, se non addirittura inesistenti (a Carrara, per esempio, il comune incassa dal marmo più o meno 15 milioni di euro l’anno, ovvero neanche il 9 per cento dei guadagni provenienti dalla vendita del marmo, e circa un terzo delle cave non paga alcun canone, risultando di fatto privato, grazie all’applicazione di un provvedimento che risale al 1751). Così i materiali di pregio, la sabbia e la ghiaia che vengono sottratti alle montagne, ai terreni e i letti dei fiumi garantiscono ad alcuni ricavi milionari ma a tutti un paesaggio deturpato.

Questa realtà in gran parte sconosciuta, fatta di paesaggi bellissimi e insieme angoscianti, è raccontata in un libro realizzato da Legambiente e dal fotografo Marco Valle e intitolato L’Italia delle cave. Il progetto sottolinea la necessità di ripensare il settore estrattivo in Italia per tutelare l’ambiente, il lavoro e la salute delle persone e di ridurre il prelievo di materie prime sostituendole magari con altre provenienti da scarti di lavorazione e dal riciclo, come si fa con successo negli altri paesi europei.

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