Shōmei Tōmatsu (1930-2012) è considerato uno dei fotografi più importanti del ventesimo secolo. Nel corso della sua carriera ha affrontato un lungo “pellegrinaggio”, come lui stesso lo ha definito, nel dopoguerra giapponese, indagando soprattutto l’influenza della cultura tradizionale e la tensione con la crescente occidentalizzazione dovuta alla presenza statunitense.

A partire dalla fine degli anni cinquanta, Tōmatsu comincia a fotografare le basi militari statunitensi concentrandosi sull’impatto avuto dalla vittoria degli Stati Uniti e dalla successiva occupazione: per esempio i soldati che si intrattenevano con le donne giapponesi nei quartieri a luci rosse e le proteste contro quella che era percepita come un’invasione culturale.

A questa serie di immagini Tōmatsu diede inizialmente il nome Occupation, ma poi lo cambiò in Chewing gum and chocolate, prendendo spunto dall’elemosina che facevano i soldati statunitensi ai bambini giapponesi.

“Tomatsu riconosceva che gli americani avevano sottratto i giapponesi al totalitarismo e al dogmatismo culturale, ma sentiva anche di volersi liberare di loro e dell’aggressiva appropriazione delle terre e delle risorse”, scrive il fotografo e saggista Leo Rubinfien in un testo contenuto nel libro, Chewing gum and chocolate, pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Aperture che ha raccolto per la prima volta tutti questi scatti.

Il volume ha l’obiettivo di raccontare la visione di Tōmatsu e mostrare la percezione di un autore che non ha mai nascosto l’ambivalenza del suo sguardo, spaventato e allo stesso tempo affascinato, davanti alla presenza statunitense nel suo paese. “Ho sempre detto che i miei lavori sull’occupazione sono stati al limite tra l’amore e l’odio. Non posso né rifiutare né accettare l’occupazione. Sicuramente la rifiuto, ma ci sono alcune cose che non posso non accettare. Subito dopo la sconfitta molte persone hanno definito le forze di occupazione come un esercito di liberazione. E anche io l’ho pensato”, confessa Tōmatsu.

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