Alla fine del 2017, Asya Ivashintsova-Melkumyan stava facendo dei lavori nella sua casa a San Pietroburgo, in Russia, quando trovò una grande scatola appartenuta alla madre, Masha Ivashintsova, morta nel 2000. La scatola conteneva 30mila fotografie, tra pellicole e negativi, lettere e diari.

I genitori di Ivashintsova-Melkumyan si erano separati all’inizio degli anni settanta. Lei era rimasta a Mosca con il padre, Melvar Melkumyan, un linguista di origine armena. Mentre la madre era tornata a Leningrado – il nome di San Pietroburgo in Unione Sovietica, tra il 1924 e il 1991. Lì frequentò gli ambienti letterari e artistici, lavorò come bibliotecaria, critica teatrale, e poi anche come guardia alla sicurezza e addetta al guardaroba. Ebbe relazioni con alcuni intellettuali come il poeta Viktor Krivulin e il fotografo Boris Smelov. Fu lui a regalarle la Leica che avrebbe usato per tutta la vita.

Nata nel 1942, Masha Ivashintsova cominciò a fare foto a diciott’anni, catturando scene per le strade di Leningrado. Ma non mostrava mai le sue foto, alcune nemmeno le sviluppò: “Credeva che il suo lavoro non fosse all’altezza di quello degli uomini che frequentava e non mostrò a nessuno i suoi lavori fotografici, i diari e le poesie durante la sua vita”, racconta la figlia.

Da Leningrado a Mosca, dalle foto di famiglia agli autoritratti, Ivashintsova ha mostrato la vita nell’Unione Sovietica e nella Russia postcomunista, a cominciare dagli anni sessanta e fino alla fine degli anni novanta.

Nel 1981 fu colpita da una grave depressione e rimase disoccupata. Per dieci anni, prima di morire, è passata da un ospedale psichiatrico all’altro, ma non ha mai smesso di fotografare.

Nel 2018, Asya Ivashintsova-Melkumyan ha creato un sito e un profilo Instagram per far conoscere il lavoro della madre, e sta organizzando una mostra a Vienna.

La storia di Ivashintsova è stata avvicinata a quella di Vivian Maier, la fotografa statunitense autodidatta, le cui opere sono state scoperte solo qualche anno fa.

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